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Urna di sant’Eusebio, ex urna del Beato Amedeo, oreficeria sabauda, 1618, con reimpiego della metà del XIV secolo, Vercelli, Museo del tesoro del Duomo

Foto: Paolo Robino

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Urna di sant’Eusebio, ex urna del Beato Amedeo, oreficeria sabauda, 1618, con reimpiego della metà del XIV secolo, Vercelli, Museo del tesoro del Duomo

Foto: Paolo Robino

La civiltà del Settecento si specchia nell’argento

L’esperto Gianfranco Fina ha pubblicato un nuovo ampio repertorio dell’argenteria piemontese 

Arabella Cifani

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I secoli XVII e XVIII furono una vera e propria aurea aetas della storia dell’argenteria europea. Dopo la scoperta delle Americhe il prezioso metallo, presente prima in quantità ridotte, affluì sul mercato in abbondanza e a prezzi calmierati: fu quindi più agevole averne per trasformarlo in oggetti d’ogni genere. L’argento è stato purtroppo uno dei primi metalli a essere considerato quando guerre e rovine economiche insidiavano stati e famiglie: lo si fondeva facilmente per avere soldi per finanziare guerre, o doti, o per arginare dissesti economici. In Piemonte nel 1796 la Zecca obbligò i cittadini a portarlo a fondere per trasformarlo in soldi utili per la guerra contro i francesi, che comunque fu persa. Dalla rovina del tempo, nonostante tutto, se n’è salvata una più che cospicua quantità, e pare quasi un miracolo.

Di quella straordinaria costellazione luminescente che fu l’argenteria piemontese e di ciò che riaffiora dal passato e permane eccezionalmente nel presente si è occupato molto Gianfranco Fina, che è certamente uno dei migliori specialisti nel settore a livello italiano e non solo.

Dopo un primo, monumentale, volume uscito nel 2018 (Argenti piemontesi del ’700. Trovati e ritrovati, Skira, Milano 2018) dove venivano presentate 160 opere di argenteria in gran parte inedite, ora lo studioso, coadiuvato da una serie di specialisti (Sara Minelli, Ivana Bologna, Larissa Solovieva, Dora Liscia Bemporad, Paolo Edoardo Fiora di Centocroci), torna sull’argomento con un secondo e altrettanto imponente libro, ricco di novità importanti e di sorprese singolari.

Dagli archivi Fina ha saputo far riemergere notizie approfondite sugli argentieri sabaudi, che non erano certo dei semplici artigiani ma veri e propri artisti capaci di «trarre dal bianco metallo sacro alla Luna veri e propri capolavori per invenzione, tecnica e qualità». Ai già noti Boucheron, Paroletto e Gerard, si sono così aggiunti altri nomi, fino ad oggi misconosciuti: Laurenti, Sacchetti, il maestro I.P.; Groppa, Parrè, Degioanni e le poche o tante loro opere giunte fino a noi testimoniano dell’eccellenza e della qualità del settore in tutti i territori dell’antico Regno di Sardegna.

Gli studi confluiti nel volume si sono concentrati su alcuni precisi filoni: gli argentieri, spesso senza nome, che lavorarono a servizio della Cattedrale di Vercelli per lavori di impatto monumentale; la riscoperta dell’orefice Tommaso Groppa di Asti e delle sue squisitezze cesellate; gli splendori di Maurizio Sacchetti, «argentaro di Sua Maestà», la sorpresa della riscoperta del servizio Turiniskij oggi diviso fra Cremlino, Ermitage e collezioni private; le grandi tradizioni ebraiche nell’argenteria della famiglia De Benedetti di Nizza Monferrato. Per finire, un ricordo sulla produzione di impugnature di spade d’argento da cerimonia a Torino.

Ostensorio a Raggio, argentieri Maurizio Sacchetti e Carlo Boggetti, Torino, 1700, dettaglio del noto con corona, Oropa, tesoro del santuario di Nostra Signora. Foto: Paolo Robino

Scorrere il libro apre orizzonti inattesi di bellezza e di eleganza, anche per merito di un magnifico apparato fotografico realizzato dall’architetto Paolo Robino che non si è limitato a fotografare le opere, ma ne ha offerto una lettura visiva al contempo nitida e poetica, soprattutto nella resa di dettagli virtuosistici.

Si parte da cose antiche ed è Vercelli la prima con i suoi argenti secenteschi legati alla Cattedrale. L’ ex voto di Carlo Emanuele I per una grazia ricevuta dal beato Amedeo del 1614 circa, in oro, finemente sbalzato, fortemente evocatore dei fasti di una stanza da letto ducale ricca di tappezzerie e stoffe preziose, apre la serie. La singolare urna del 1618, già del beato Amedeo e poi di sant’Eusebio offre un singolare mix fra la classicità ancora tardorinascimentale dell’urna e l’innesto di una statua quattrocentesca di sant’Eusebio che non disturba, anzi, si inserisce benissimo.

Seguono eleganti reliquiari come quello dell’ulna di sant’Antonio da Padova che fu offerto alla Basilica del santo dalla contessa San Martino di San Germano (oggi si trova a Padova), lavoro dell’argentiere Stefano Laurenti che è anche il primo lavoro piemontese noto con tutti i regolari punzoni e i marchi dell’argentiere che garantivano qualità e autenticità del metallo, secondo le leggi emanate già 1597 da Carlo Emanuele I. Fra i pezzi sacri brilla letteralmente l’ostensorio a raggio di Maurizio Sacchetti e Carlo Boggietti dell’anno 1700 che fa parte del Tesoro del Santuario di Oropa a cui fu donato dalla Madama Reale Giovanna Battista di Nemours nel 1699 per lo scioglimento del voto della nascita del primogenito di Vittorio Amedeo II: lo sfortunato Vittorio Amedeo Filippo, morto appena adolescente nel 1715. È un oggetto magnifico, costellato da ben 772 pietre preziose: rubini, diamanti, smeraldi, topazi, berilli, zaffiri, come ricordano i documenti: una vertiginosa bellezza non conosciuta e valorizzata per quanto meriterebbe. Da Asti l’ostensorio con Abramo e Melchisedech, di Giovanni Tommaso Groppa, del 1707, dove il fino ad oggi sconosciuto argentiere si cimenta nella realizzazione di vere e proprie sculture a tutto tondo di somma finezza.

Con l’avanzare nel Settecento arrivano anche pezzi di argenteria laica: caffettiere, candelabri, paiole, cioccolatiere. Ma i mastri argentieri sono a disposizione tanto per la chiesa quanto per i laici e così vediamo Pietro Cebrano, artista di grande respiro, attivo nel 1726 e fino ad oggi praticamente ignoto, cimentarsi in un busto reliquiario di un santo (o di un apostolo) di grande impatto e che ha alla base studi non banali sulla scultura classica.

Caffettiera e zuccheriera, Torino, 1759-78, attribuito a Giacomo o Margherita Gerard, collezione privata. Foto: Paolo Robino

L’argenteria piemontese da forse il meglio di sé quando si introducono, con fantasia squisita, elementi animali nella cesellatura di oggetti, come il versatoio con testa di cervo e piccolo cammello già facente part delle collezioni di argenterie di Stupinigi o come la cremiera con collo di cigno fatta da un orafo sardo (era il regno di Sardegna, non dimentiochiamolo, e Fina e i suoi collaboratori con molta attenzione si occupano anche di luoghi fino ad oggi inesplorati dal punto di vista dell’argenteria). E c’è anche una donna argentiera, Margherita Gerard (attiva fra 1758 e 1789), figlia di Giacomo Gerad, altro argentiere di gran classe, che lavora con il padre per una caffettiera e una zuccheriera realizzate fra 1759 e 1778 semplicemente incredibili, ricoperte da un decoro a chevron con effetti di plissettatura composta con linee in movimento che si spezzano alternativamente in direzioni opposte, formando una serie di angoli: un risultato modernissimo (forse legato a un motivo araldico?) che si ritrova solo in certe vesti-sculture di Issey Miyake, un unicum a livello europeo. Le tazze da puerpera, le paiole, che in Piemonte tengono il posto degli antichi deschi da parto toscani, sono anch’esse un luogo per esercitazioni virtuose con gallinelle o fiori o riccioli capricciosi al sommo: aprivano i loro larghi coperchi per offrire il primo brodo a una neomadre di alto rango e doveva essere un bel sorbire per la dama stanca ma felice.

E che dire delle due monumentali zuppiere comprate in Piemonte da Samuel von Tscharner, che con il suo reggimento bernese servì nelle armate di Carlo Emanuele III di Sardegna fino a raggiungere il grado di generale di fanteria nel 1786? Sono anonime, purtroppo, queste due zuppiere che il von Tscharner, acquistò durante la permanenza a Torino per poi portarle in Svizzera a Berna dove rimasero per più di duecento anni nella stessa famiglia prima di finire vendute in un’asta a Zurigo nel 2020. Fina ipotizza che potrebbero essere di Paolo Antonio Paroletto, uno dei migliori fra gli argentieri torinesi attivi a fine Settecento. Certo è che sono semplicemente straordinari i trofei di caccia che le sormontano e che fanno le veci di un manico: una con una testa di cinghiale e altra con un fagiano cacciato e con mille dettagli, di fiaschette e tasconi da caccia a reticella o decorati finemente con lo stemma di famiglia, di pistole a pietra focaia alla morlacca, di foglie di quercia che fanno da giaciglio ai morti animali: non zuppiere ma veri e propri monumenti da tavola.

Gli argenti ebraici incantano per i motivi quasi favolistici che ne decorano alcuni (e vengono in mente disegni e film di Lele Luzzati con il loro esuberante decorativismo). Spicca il piatto di Pesach del maestro Moise Vitta Levi (a Torino agli ebrei fu concesso di avere botteghe da argentieri proprie) creato per un matrimonio, con un treillage di fondo su cui al centro sboccia un cartiglio rococò che porta all’interno gli stemmi di due famiglie, e sono stemmi a forma di cuore. 

Ludwig Guttenbrunn, «Un tè a Evian dei principi di Piemonte. Carlo Emanuele e la consorte Maria Clotilde di Borbone, Lady Erne, figlia del conte di Bristol, e la cognata Lady Harvey, accompagnate dalle loro figlie», 1787, Gran Bretagna, property of a Lady, Wortley Sheffield

E infine, a testimonianza della fama e dell’apprezzamento delle argenterie piemontesi il servizio Turiniskij che ha una storia complessa. Era del principe Golitcyn (francesizzato poi in Galitzine) appartenente a una delle più grandi e nobili case principesche dell'Impero russo, e nel 1803 fu venduto al tesoro imperiale di san Pietroburgo. L’argentiere è Giovanni Battista Novalese di cui poco si conosce. Il servizio giunse in Russia probabilmente come dono di nozze per il matrimonio di Aleksandra e Aleksej Golitcyn nel 1791. Aleksandra era prediletta dama di corte di Caterina II di Russia. Il padre adottivo dello sposo, il principe Nikolaj Borisovič Jusupov fu ambasciatore a Torino nel 1783 e durante la sua permanenza in Italia comprò per sé e per le collezioni imperiali molte opere d’arte. Da Torino il servizio prese così la lunga strada per San Pietroburgo e in Russia, pur depauperato, rimane a testimoniare di quanto lontana si sia spinta la fama degli argentieri torinesi.

Un’arte meravigliosa dunque quella che si creò nella capitale subalpina e negli antichi stati sabaudi nel settore dell’argenteria fra Sei e Settecento, un’arte che produsse oggetti robusti ed eleganti che sembrano sculture scolpite in un materiale morbido e malleabile. I migliori fra gli argentieri seppero rendere docile la materia ribelle e farla cedere sotto le carezze del cesello togliendole ogni rigidità. Gli oggetti più belli, sinuosi, bombati o simili a conchiglie, paiono gonfiarsi, ondeggiare serpeggiare e i loro decori vegetali, foglie e steli decorativi hanno boccioli di fiori si piegano gentili su coperchi e si arricciolano trasformandosi manici.

Sfogliando questo libro possiamo dunque ammirare una selezione molto ampia di argenteria piemontese, con opere di grande perfezione spesso arricchite da cesellature inimitabili spinte all’ultimo stadio di finitura. L’intelligente comprensione dell’ornato da parte degli artisti piemontesi ha trasformato oggetti della vita quotidiana in manufatti di voluttuosa grazia che la luce contribuisce ad animare. Peccato che la pittura locale non abbia accompagnato quest’arte dipingendo scene di banchetti torinesi o di nature morte con argenterie come usava in Francia. Per trovare un dipinto dove compaiano i Savoia intenti a fare qualcosa di diverso che nei soliti quadri celebrativi dobbiamo infatti arrivare al 1790, quando in un quadro di Ludovico Guttembrun vediamo Carlo Emanuele IV e la moglie Cristina di Francia prende un tè a Evian. Si vede sulla tavola comparire un grosso vaso d’argento di sobrio decoro che forse è una sorta di samovar, ci sono poi sul tavolo posate in argento, ma tazze, lattiere e zuccheriere sono in porcellana.

Oggi i collezionisti di argenti sono pochi: solo una piccola élite sa comprendere la bellezza di questi oggetti in un mondo che di senso della bellezza ne ha proprio poco. E forse varrebbe la pena di seguire il consiglio che l’anziano Edmond Gongourt dava ai suoi devoti discepoli «Se mai diverrete collezionisti ricordate, ogni volta che sarete tentati dall’acquisto di un oggetto di chiedervi prima di comprarlo: sarò capace di viverci insieme, di averlo davanti agli occhi fino all’ultimo giorno di vita?» Come si può vivere allora oggi con due zuppiere monumentali torinesi sul tavolo? Come occhi e cuore si dispongono ad ammirare e a pregare anche tramite gli oggetti argentei ebraici?

Il collezionismo è un vasto mare che raduna e disperde. Gli oggetti che furono creati per la gioia, il piacere e la devozione di uomini del Sei e del Settecento sono stati nel tempo sparpagliati dal martello di un banditore, o da mercanti, o da eredi indifferenti. In questo libro alcuni di essi sono tuttavia tornati a riunirsi silenziosamente, si sono ricomposti, e la gioia che aveva procurato il loro acquisto è stata ridata ad altri eredi di quel gusto, ad anche un po’ a noi per farci rivivere lo spirito di un’epoca di supreme eleganze e svelarci alcuni meccanismi di un gusto decorativo fantasioso e lussuoso che sapeva costruire, tanto per le tavole e gli arredi di palazzo quanto per le chiese, scenografie vertiginose e abbaglianti. Questo libro, destinato a rimanere fra i libri fondamentali del settore, è dunque un arricchimento, e non comune, all’idea di un Piemonte che sul piano delle arti decorative non era al tempo secondo a nessuno in Europa e ci appare con un felice punto di riferimento per la rilettura, riavviata da pochi decenni, della civiltà piemontese del Settecento.

Argenti Piemontesi del XVII e XVIII secolo
di Gianfranco Fina, 392 pp. ill., Silvana Editoriale, Milano 2025, € 50

La copertina del volume

Arabella Cifani, 28 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

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