Redazione GDA
Leggi i suoi articoli«È un testo obbligatorio per chiunque voglia studiare museologia oggi e si interroghi su che cosa sia un museo», spiega il direttore dell’Egizio Christian Greco parlando di Il museo dell’innocenza (Einaudi, 2009) del premio Nobel Orhan Pamuk. I due si sono incontrati, e hanno a lungo dialogato, a inizio maggio nell’ambito del bicentenario della fondazione del Museo Egizio e in occasione del ventennale del Salone del Libro Off di Torino. Il confronto si è sviluppato a partire proprio dal romanzo di Pamuk: «La storia d’amore ambientata a Istanbul racconta di una relazione e di una ossessione, spiega Greco. Nel romanzo è centrale il senso vero degli oggetti e la loro agency: l’azione di liberarsi di loro, o raccoglierli, perché si possa mettere a tacere o, invece, attivare la nostra memoria». Il premio Nobel si dichiara «incantato e stupito dal fatto che il suo museo pop e postmoderno e la sua collezione possano avere qualcosa in comune con il Museo Egizio, a Torino, così antico, scientifico e serio». Continua Greco: «L’interesse per il tema “museologia” è cresciuto notevolmente negli anni, come attesta la bibliografia recente. Negli ultimi venticinque anni i musei sono cresciuti come spazio culturale, politico, dedicato al pubblico e di chiaro prestigio. Uno spazio che sta vivendo un protagonismo in particolare della creatività in architettura: la ragione è che le persone vogliono entrare in uno spazio diverso, differente da tutti gli altri, in un’altra dimensione. I musei sono cresciuti proprio in termini quantitativi: nel 1815 in Europa c’erano 35 musei e oggi invece ne abbiamo 18mila». Il museo creato da Pamuk nel 2012 a partire dal suo romanzo è uno di questi. «La situazione del Museo dell’innocenza è buona, dichiara lo scrittore: i numeri crescono sia in termini di visitatori, sia di team e quindi anche di “income”: spesso si ha di che reinvestire nella fondazione in nuove vetrine, in nuove opere».
Il tema centrale del confronto è «la definizione di museo». Per Pamuk, i musei sono «luoghi in cui il tempo si trasforma in spazio». Definizione che piace a Greco, che non manca di commentare ironicamente: «La tua presenza sarebbe stata utile a Kyoto quando l’Icom non riuscì a trovare un accordo condiviso sulla definizione di museo...» (poi stabilito a Praga nel 2022, Ndr). Del resto anche il protagonista del Museo dell’innocenza, Kemal, diventa in qualche modo esperto di musei: «Ne ha visitati 5mila, un po’ come me», confida Pamuk.
Un museo però esiste in ragione di una collezione, e giungiamo al cuore della questione: quale potere hanno gli oggetti? «Gli oggetti, dice il premio Nobel, hanno un enorme potere evocativo: se noi andiamo al cinema e mettiamo nella tasca del cappotto il biglietto e poi non indossiamo più quel cappotto per vent’anni, la magia è che ritrovando quel biglietto ricorderemo l’esperienza di aver visto quel film; gli oggetti ci riportano la nostra esperienza di vita. Naturalmente, sottolinea, diverso è per un museo di antichità egizie, dato che gli oggetti non possono sbloccare una nostra memoria personale. In questo caso c’è un altro aspetto interessante per uno scrittore: la psicologia del collezionista, al 90% maschi e bianchi, di raccogliere un grande numero di oggetti, che costituiscono una esibizione del potere. C’è un altro tipo di collezionista, cui si fa riferimento nel romanzo: una persona ferita, con grande dolore, come Kemal. Questa tipologia è diffusa anche fra le donne. La loro vita travagliata li porta a cercare consolazione negli oggetti: Kemal tiene a bada il suo dolore proprio guardando e toccando gli oggetti che hanno condiviso lui e Füsun quando sono stati felici insieme». Ma come è nata la collezione ora allestita al Museo dell’innocenza? «Gli oggetti provengono dalla mia famiglia, spiega Pamuk, ma anche dall’acquisto presso rigattieri. La mia guardia del corpo si stupisce di come, comprando oggetti anche poveri e di uso quotidiano, il museo che li contiene abbia creato tanta curiosità e interesse anche tra i visitatori europei, che si mettono in fila per andare a guardarli...».
A questo proposito, Christian Greco sottolinea un aspetto importante, in particolare per un museo contemporaneo: la titolarità degli oggetti. Di chi sono? «È un aspetto fondamentale della trasformazione contemporanea dei musei. Il report Sarr-Savoy, commissionato dal presidente francese Emmanuel Macron nel 2016, rende problematici i musei europei, in particolar modo quelli le cui collezioni sono frutto di politiche coloniali e quindi imperialiste. Il report, che sollecita domande oggi ineludibili per ogni museo, si interroga su quali oggetti sarebbero da restituire ai Paesi d’origine, perché sottratti con l’uso della forza, spesso con veri atti di violenza. Ma la restituzione degli oggetti è una pratica che solleva complessità ulteriori». «Un elemento di complessità, aggiunge Greco, è anche il fatto che la permanenza di una collezione, arrivata da un altro Paese, cultura, periodo, storia, in un luogo determini una nuova attribuzione di significati nella sua nuova collocazione museale, esattamente come avviene, per via di Kemal o di Pamuk, nel Museo dell’innocenza. Ogni oggetto estrapolato dal suo contesto, messo in una cornice o in una vetrina assume (e gli viene attribuito) un altro significato; anche se ha una interpretazione scientifica, univoca, parziale si apre a mille altre letture».
«L’esistenza stessa del Museo dell’innocenza sollecita altre domande sul senso degli oggetti, sottolinea Pamuk, e vorrei raccontare una vicenda legata a un altro mio romanzo, Il mio nome è rosso (Einaudi, 2001). Si collega alla storia della pace fra Impero ottomano e quello persiano, con una definitiva decisione sui confini (ancora i medesimi, oggi, fra Iran e Turchia). A fronte di questo evento gli Iraniani inviano in Turchia, come omaggio, un manoscritto persiano illustrato degli inizi del XVII secolo, uno dei più sontuosi mai prodotti nella storia: il Racconto dello Shah Nameh, l’epica fondativa persiana, frutto del lavoro di 15 artisti nel corso di ben 30 anni. Il manoscritto rimane a Istanbul fino al dissolvimento dell’Impero ottomano, all’inizio del XX secolo; poi scompare per riapparire nella collezione Rothschild e, più tardi, nella biblioteca di un miliardario texano che decide di farlo a pezzi e vendere singolarmente le 250 pagine. Solo in seguito a questo intervento e alla vendita in singole pagine, sono stati pubblicati studi e, grazie alla loro disponibilità, li ho conosciuti e ho potuto scrivere Il mio nome è rosso: ho avuto accesso al manoscritto solo in ragione di tutte le orribili vicende accadute a questo oggetto». Commenta Greco: «C’è un parallelo con la diaspora delle collezioni egizie: è proprio questa diaspora ad aver permesso che fossero note e, nel corso del tempo, studiate in tutto il mondo. Questo non significa naturalmente mettere in discussione la lotta contro la circolazione di oggetti usciti illegalmente da un Paese. La dichiarazione Unesco segna uno spartiacque sul 1970».
In conclusione, Orhan Pamuk torna sul significato ultimo del museo, e sul suo rapporto con il romanzo: «È l’atmosfera che fa pensare e sentire beneficio, capire che ci sono altre cose oltre la tua stessa vita, che il visitatore capisca a fondo o meno che cosa ha intorno. È questa la vera ragione del grande successo dei musei negli ultimi 50 anni ed è proprio in questo senso che sono esattamente come romanzi. Sono simili: sono “luoghi” dove avviene l’interpretazione del significato della nostra vita. Sono uno spazio laico, nel quale riflettere su sé stessi».
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