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Il «David» di Michelangelo protagonista di riproduzioni «non autorizzate»

Immagine tratta da Wikipedia

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Il «David» di Michelangelo protagonista di riproduzioni «non autorizzate»

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La liberalizzazione delle immagini è in stato confusionale

Con la nuova normativa ministeriale «si torna drammaticamente indietro nel tempo», sottolinea Daniele Manacorda, curatore con Mirco Modolo in un volume sull’uso delle immagini del patrimonio culturale, questione diventata un «patchwork pasticciato»: lo Stato vuole guadagnare e decidere, ma entra in contraddizione con il dovere di garantire libertà di informazione e di pensiero

Roberto Caso

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In meno di 200 pagine, fotografie incluse, il volume Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa? (Pacini Editore, Pisa 2023, € 23), curato da Daniele Manacorda (archeologo ed editorialista di «Il Giornale dell’Arte») e Mirco Modolo (archeologo e archivista), offre una sintesi efficace dell’acceso dibattito sul regime giuridico delle immagini dei beni culturali. Il libro (che raccoglie gli atti di un convegno promosso dalla Fondazione Aglaia e svoltosi a Firenze il 12 giugno 2022) in buona sostanza è un manifesto multidisciplinare per la liberalizzazione delle immagini del patrimonio culturale, in cui i curatori non si ammantano di finta neutralità (un vizio in cui spesso cadono i giuristi) ed esplicitano subito le proprie convinzioni. Tuttavia, il volume offre anche prospettive differenti e dà conto di chi argomenta contro la liberalizzazione delle immagini, a cominciare dagli esponenti della Società italiana per l’ingegneria culturale.

La trattazione è divisa in tre parti: un’introduzione con i due capitoli dei curatori dell’opera, una seconda parte nella quale si offrono punti di vista di studiosi con diverse competenze nei campi del diritto (Giorgio Resta), dell’economia (Massimo Fantini), della tutela e valorizzazione (Laura Moro) e della fruizione dei beni culturali (Grazia Semeraro, Andrea Brugnoli) e una terza e ultima parte che racchiude alcune esperienze maturate nel settore pubblico e privato.

Nell’addendum al primo capitolo introduttivo Manacorda riferisce delle novità sopraggiunte dopo il convegno e in particolare dell’emanazione del d.m. dell’11 aprile 2023, n. 161, Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali del Ministero della Cultura. A tal proposito Manacorda rileva: «Con questo decreto si torna drammaticamente indietro nel tempo: viene anche ristabilito addirittura il pagamento per la riproduzione di immagini su riviste scientifiche, colpendo duramente i giovani in un settore assai delicato della loro crescita professionale».

Leggendo Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa? si comprende che il regime giuridico relativo alle immagini dei beni culturali è complesso e contraddittorio. Complesso perché si pone all’incrocio di almeno quattro discipline: la proprietà intellettuale, i diritti della personalità, la tutela dei beni culturali e la disciplina dei dati aperti della pubblica amministrazione di derivazione europea. Complesso altresì perché attiene al bilanciamento tra diritti costituzionali che, senza una chiara visione di fondo, rischia di diventare un’inconcludente ermeneutica. Alla complessità (come spiega il documentato e approfondito contributo di Mirco Modolo) contribuisce inoltre l’attuale legislazione, frutto di una lunga e altalenante storia in cui le spinte alla liberalizzazione si sono dovute continuamente confrontare con controspinte tese ad alimentare le istanze proprietaristiche dello Stato. L’esito attuale con cui si confronta l’interprete è perciò un «patchwork» pasticciato, la cui prima vittima è la (mitica) coerenza dell’ordinamento giuridico. 

La copertina del volume

Il regime giuridico è contradditorio perché non si comprendono appieno le ragioni che muovono contro la liberalizzazione delle immagini, legittimando un potere di controllo esclusivo dello Stato sulla riproduzione dei beni culturali. Sorgono alcune domande: si tratta forse di nutrire prospettive di guadagno da parte dello Stato che spera di poter metter in atto, anche se non si sa come, una tutela globale del suo diritto? La commercializzazione delle immagini dei beni culturali dello Stato offrirebbe opportunità di rimpinguare le magre casse delle istituzioni culturali a dispetto di quanto anche di recente segnalato dalla Corte dei Conti e rilevato in alcuni dei capitoli (in particolare quello a firma di Massimo Fantini) che toccano il tema? Oppure perché lo Stato si vuole riservare il potere di decidere chi e come può riprodurre i propri beni culturali vagliando la compatibilità dell’uso con la finalità (decoro) del bene? Non è solo lo spettro di un potere censorio, denunciato in particolare da Daniele Manacorda, a destare preoccupazione, ma anche lo sprezzo del ridicolo. Perché questo potere di valutazione apparterrebbe allo stesso Stato che ha varato di recente e per mano del Ministero del Turismo la campagna di promozione del Belpaese denominata «Open to meraviglia» nell’ambito della quale la povera e (almeno in questo caso) davvero innocente Venere di Botticelli veniva trasfigurata in «influencer», prima che questa figura professionale perdesse (almeno agli occhi dei diversamente giovani) un po’ del suo appeal per le note vicende attinenti a (finta) beneficienza. 

La contraddizione emerge con più evidenza proprio con riguardo ai casi portati davanti ai tribunali italiani dallo Stato riguardanti opere celeberrime come il David di Michelangelo e l’Uomo Vitruviano di Leonardo, ricostruiti in chiave sistemica e comparata dal lucido e incisivo contributo di Giorgio Resta. In questi casi, lo Stato ha agito contro la riproduzione non autorizzata per fini commerciali dei beni culturali da parte di imprese note e con forza (in parole brutali, ottimi pagatori). Ma ha agito per rivendicare l’incompatibilità con la finalità del bene culturale o per ottenere, a violazione avvenuta, un cospicuo risarcimento del danno da ottimi pagatori? Se le imprese con capienza economica interessate a utilizzare immagini di beni culturali dovessero mangiare la foglia e guardare ad altre e gratuite fonti (come gli archivi delle decine di musei che all’estero praticano l’«accesso aperto» o, con riferimento alle immagini di beni culturali fuori dal controllo dello Stato italiano, a Wikipedia e Wikicommons) al nostro «Leviatano azienda» rimarrebbe con tutta probabilità solo la «clientela povera» che fa capo in gran parte all’editoria scientifica di nicchia (quella delle University press o delle case specializzate) e non ai grandi oligopoli come Elsevier o Springer-Nature. Le prospettive di guadagno crollerebbero drammaticamente e in molti casi gli introiti si ridurrebbero a ciò che si incassa oggi tramite una partita di giro dei soldi pubblici, cioè dei contribuenti (ad esempio, nel caso in cui la casa editrice dell’Università pubblica X paga il museo statale Y per la riproduzione dell’immagine del bene Z). Se un problema relativo allo sfruttamento commerciale c’è, si colloca sul piano del ruolo che le Big Tech giocano nella gestione delle immagini, ma evidentemente non è un problema che può essere affrontato mediante derive proprietaristiche degli Stati. Prima di chiudere, occorre spendere qualche parola sui due maggiori problemi innescati dall’idea di un controllo esclusivo delle immagini dei beni culturali da parte dello Stato che si innesta sulla complessità e sulle contraddizioni sommariamente riassunte.

«Uomo vitruviano» di Leonardo da Vinci (immagine tratta da Wikipedia)

La fine del pubblico dominio

Secondo la ricostruzione più corretta, il pubblico dominio costituisce (in riferimento alle libertà fondamentali di informazione e di espressione del pensiero) la regola, mentre i diritti di esclusiva costituiscono l’eccezione. Quando il legislatore regola diritti di esclusiva pone necessariamente limiti di durata e di ampiezza all’esclusiva. Ad esempio, il diritto d’autore scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore e non copre le idee, copre solo la forma espressiva delle idee.  Tutta la proprietà intellettuale (intesa come macrocategoria che comprende diritti d’autore, brevetti per invenzione, marchi, disegni industriali) corrisponde a questo principio. Si tratta di un pilastro delle società democratiche che trova una declinazione, illustrata nel contributo di Resta, in un altro principio: il numero chiuso dei diritti di proprietà intellettuale. Solo il legislatore può, con le tecniche di bilanciamento tipiche del Diritto privato, porre nuovi diritti di esclusiva. Non possono farlo i giudici, non possono farlo gli stessi legislatori ricorrendo, mediante il Diritto pubblico, a forme camuffate e anomale di proprietà intellettuale (o pseudo proprietà intellettuale).

Il diritto liquido e la confusione totale

Chi scrive, da buon realista, non nutre alcuna nostalgia per una vagheggiata (e mai esistita) epoca d’oro in cui il diritto corrispondeva a un robusto, stabile e giusto «sistema». Se stabilità esiste, molto spesso è quella imposta dai più forti ed è quindi fonte di ingiustizia. Nel caso del regime giuridico italiano delle immagini dei beni culturali non c’è stabilità, ma non c’è nemmeno evoluzione verso i modelli più avanzati come quelli olandese e americano, c’è solo molta confusione. Mentre buona parte del più recente dibattito si è concentrata sul d.m. 2023/161 contenente le linee guida per gli importi di canoni e concessioni, che è probabilmente una sorta di «walking dead», il volto più inquietante del controllo esclusivo dello Stato è costituito dalla giurisprudenza creativa (e, appunto, confusa) dei Tribunali italiani in materia di immagine del bene culturale. A parere di alcuni giudici, il controllo esclusivo dello Stato troverebbe fondamento nel Codice dei Beni culturali e nelle norme del Codice civile che proteggono l’immagine delle persone. Insomma, un esempio paradigmatico di distruzione del pubblico dominio e violazione del principio del numero chiuso dei diritti della proprietà intellettuale, mediante l’introduzione giurisprudenziale nell’ordinamento di una pseudo proprietà intellettuale mascherata da diritto della personalità. 

Tutti temi trattati con maestria e passione in un libro di cui si consiglia vivamente la lettura e che ha un’unica piccola pecca: di non essere pubblicato, per coerenza con il manifesto culturale che rappresenta, in Open Access (ma i singoli testi del volume sono rilasciati con licenza CC-BY).

Roberto Caso, 30 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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