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Maschera visiera in bronzo della metà del V secolo a.C. da Vulci, scavi Vincenzo Campanari - Governo Pontificio (1837)

Foto © Musei Vaticani

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Maschera visiera in bronzo della metà del V secolo a.C. da Vulci, scavi Vincenzo Campanari - Governo Pontificio (1837)

Foto © Musei Vaticani

La metropoli nasce con gli Etruschi

Alla Fondazione Rovati di Milano gli scambi e le relazioni dell’aperta e dinamica città di Vulci in dialogo con le opere di Penone

La metropoli? È frutto della civiltà industriale, si risponde istintivamente. Niente di più falso: è agli Etruschi, infatti, che si deve il modello della metropoli che abbiamo conosciuto sino a ora (il futuro, distopico, pare annunciarsi invece popolato da megalopoli caotiche e ingovernabili), quello cioè di un luogo caratterizzato non dalla chiusura difensiva ma dall’espansività, dalle relazioni con gli altri, dagli scambi con il territorio e con il resto del mondo, «una sorta di città-rete [...] che s’identifica per ciò che produce: dal fare all’essere».

Muovendo da queste riflessioni di Mario Abis, la Fondazione Rovati di Milano ha avviato il ciclo di mostre «Metropoli etrusche», la prima delle quali, «Vulci. Produrre per gli uomini, produrre per gli dèi», in corso fino al 4 agosto, è dedicata alla fiorente città che sorgeva vicino all’attuale Montalto di Castro, nel viterbese: una città oggi perduta, che fu però fra le più dinamiche dell’Etruria, ricca com’era, nel territorio, di giacimenti metalliferi e sede d’importanti attività manifatturiere (non solo metalli ma anche raffinate ceramiche) e, attraverso il suo porto di Regisvilla, nodo di scambi con l’intero bacino del Mediterraneo.

La sua vicenda si dipana tra la fine del X secolo a.C., quando prendono forma i primi insediamenti protourbani, fino all’annessione a Roma, nel 90 a.C.: in quei secoli Vulci richiama sempre nuovi abitanti e, grazie a una crescente complessità economica e sociale, acquisisce ben presto la capacità di rapportarsi commercialmente e culturalmente con il Mediterraneo orientale e con la Grecia, mentre nasce un ceto aristocratico desideroso di autorappresentarsi al meglio.

 

Cratere a calice con scena di gara musicale sul lato B (440-430 a.C.), attribuito al Pittore della Phiale di Boston, ceramica attica a fondo bianco da Vulci, scavi Vincenzo Campanari - Governo Pontificio (1835) Foto © Musei Vaticani

Coppia di mani in argento, oro e rame, di statua polimaterica (630-600 a.C.), proveniente da Vulci, necropoli dell’Osteria, area C, tomba I, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale Foto © Ministero della Cultura

Fra momenti di forte espansione (come il periodo orientalizzante, 730-580 a.C.), fasi di grande floridezza (come l’età arcaica, 580-480 a.C., quando s’intensificano i rapporti con la Grecia) e altre di contrazione (dopo la battaglia di Cuma, 474 a.C., vinta dai Siracusani) e di successiva rinascita, Vulci seppe sempre accogliere modelli culturali esterni e dare vita al tempo stesso a raffinati linguaggi propri.

La mostra, curata da Giuseppe Sassatelli e Giulio Paolucci, si svolge nell’ipogeo della Fondazione esponendo reperti della sua collezione e prestiti da grandi musei: una magnifica «sfinge alata», scultura funeraria di evidente matrice orientale, introduce al «Paesaggio liminare» tra vita e morte, immaginato dagli Etruschi come una landa popolata da belve temibili, mentre guida il visitatore verso un viaggio dalle molte tappe, la prima delle quali («Da Atene a Vulci») sfoggia una parata di ceramiche attiche culminanti nel superbo «cratere a calice» a fondo bianco attribuito al «Pittore della Phiale di Boston», che testimoniano la seduzione esercitata dall’arte ateniese sui Vulcenti.

Ci sono poi i «Simulacri d’immortalità», con le urne cinerarie, una delle quali, di bronzo, ultima dimora di un guerriero, esibisce un coperchio a forma di elmo. E qui sono anche le sorprendenti, rare mani di lamina d’argento appartenute a una statua funeraria regale di legno e argento, immagine simbolo della mostra.

Va poi in scena il confronto tra i lavori di «Artigiani immigrati, artigiani locali», con opere di famosi maestri greci giunti qui a lavorare e a trasmettere il loro sapere ai ricettivi artefici locali, mentre appartiene alla sezione «Bronzi per la guerra, bronzi per la pace» la magnetica «maschera visiera», che riproduce la parte inferiore di un nobile volto barbato, accompagnata da altri oggetti di raffinatissima fattura, opera dei bronzisti vulcenti, noti per la loro maestria: tripodi, bruciaprofumi, candelabri, colini per il vino dei simposi, specchi, ma anche bronzi bellici, come gli elmi e le spade. Da ultimo, l’abilità dei coroplasti locali, cui si devono terrecotte architettoniche di grande bellezza (come la lastra raffigurante Dioniso e Arianna abbracciati), non meno che sculture di minor formato, come il bebé fasciato, tenero ex-voto connesso con il culto della fecondità. Ma, come sempre accade alla Fondazione Luigi Rovati, quei lontanissimi artefici entrano in dialogo con un maestro di oggi, e ora è Giuseppe Penone ad accendere, con alcune sue emozionanti sculture, la scintilla che illumina di un’inedita luce quegli antichi manufatti.

 

«Cocci» (1982) di Giuseppe Penone, terracotta e marmo, Milano, Fondazione Luigi Rovati Foto © Fondazione Luigi Rovati

Ada Masoero, 03 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

La metropoli nasce con gli Etruschi | Ada Masoero

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