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Andrea Anastasio
Leggi i suoi articoliL’eterogeneità dell’arte contemporanea indiana è uno degli aspetti che emergono con forza visitando la mostra torinese «Hub India», in corso fino al 27 febbraio in tre sedi: Palazzo Madama, Mao e Accademia Albertina.
Curata da Myna Mukherjee e Davide Quadrio, offre una vasta e profonda esplorazione dei molti registri che caratterizzano l’arte contemporanea del sub-continente indiano, regione di centrale importanza per l’Asia del Sud e di crescente rilevanza per la scena artistica mondiale.
Myna Mukherjee e Davide Quadrio hanno composto un affresco multicolore con una miriade di storie e rappresentazioni dell’India. Il progetto, nato per Artissima 2021 in collaborazione con la Fondazione Torino Musei e volto a offrire una panoramica dell’ecosistema di gallerie, istituzioni e artisti attivi in India, si è sviluppato in molteplici percorsi: «Maximum Minimum», in fiera e «Classical Radical», esposizione ripartita tra Palazzo Madama, Mao e Accademia Albertina.
Documentare l’eterogeneità è l’intento primario del percorso espositivo. Troppo spesso le narrazioni occidentali dell’Oriente hanno dato adito a cliché e definizioni errate dell’India, all’immagine omogenea e statica di un Paese unitario o ritratto come una pletora di segmenti sconnessi, senza evidenziarne le interconnessioni e la pluralità intrinseca che ha caratterizzato per secoli la storia culturale del subcontinente.
Il lavoro curatoriale é stato costruito con l’intenzione di restituire, sia la complessa scena artistica contemporanea indiana, sia la sua natura dinamica, soprattutto quando si rivolge alle sue tradizioni, che sono in evoluzione costante e con l’apparizione di sempre più nuovi attori che nella scena pubblica.
Hub India rende il suo tributo a questa moltitudine di voci. Mentre «Maximum Minimum» prendeva forma nella white cube della fiera, la sezione più rilevante della mostra é distribuita in tre musei nel centro storico della città, luoghi centrali della vita culturale di Torino, innescando, in questo modo, molteplici intersezioni di senso e processi di pensiero. Questo é un aspetto delle mostre che merita attenzione, poiché mette in luce il dialogo tra opere e contesti espositivi, facendo eco alla poetica e alla potenza espressiva delle opere esposte nelle collezioni.
Al Museo Civico di Arte Antica a Palazzo Madama è di scena «Confluenze dirompenti», uno dei tre capitoli di «Classical Radical». Il percorso e le opere esposte sono caratterizzati dalla relazione con l’arte classica italiana ed europea, rispecchiandone elementi indentitari e innescando corrispondenze di sguardi tra polarità del mondo. La straordinaria collezione del museo, che abbraccia molti secoli e tipologie, dall’arte sacra a quella profana e ai manufatti destinati alla quotidianità della corte è a diretto contatto con opere di Ayesha Singh, Benitha Perciyal, G Ravinder Reddy, Gulammohammed Sheikh, Himmat Shah, Jayashree Chakravarty, LN Tallur, Manjunath Kamath, Prasanta Sahu, Ranbir Kaleka e Tayeba Begum Lipi. Viene così messo in scena un paesaggio ibrido, che porta lo spettatore a mettere in discussione la definizione abituale di identità culturale e a formulare domande sulla propria dimensione esistenziale. Temi universali e urgenze locali sono combinati con biografie individuali, nuove narrazioni e interpretazioni di vecchie storie, giustapposizioni di forme, di materiali e colori.
Al piano terra del palazzo, i resti delle antiche mura romane visibili attraverso il piano di calpestio in vetro, rivelano la millenaria storia dell’edificio. Sorto infatti in corrispondenza di una delle principali porte d’accesso alla città romana (porta Fibellona), fu prima una fortezza e poi una residenza sabauda. Sospesa sopra il pavimento di vetro vi è la grande opera cartacea «Route Map of Experience» di Jayashree Chakravarty, una potente detonazione di visioni poetiche che travolgono lo spettatore che si trova a camminare sul passato e ad essere abbracciato dall’opera stessa. Si tratta di dipinto su carta e tessuto, un dipinto-scultura, un labirinto da percorrere per scoprire i disegni seguendo la narrazione pittorica che si avvolge verso il centro. Il nucleo dell’opera corrisponde al centro del seminterrato; tutt’intorno, nel vasto spazio della sala, in corrispondenza dei punti cardinali si trovano le sculture di Manjunath Kamath e di LN Tallur quasi a declinare le molteplici narrazioni, alternando a ritmo perfetto la forma archeologica (Manjunath Kamath) a quella sacra e rituale (LN Tallur).
Attraverso una grande porta sigillata da un vetro si vede la monumentale testa femminile di bronzo dipinto di G Ravinder Reddy, che é leggermente ruotata verso la galleria di sculture medievali e del primo Rinascimento che si allunga oltre la grande sala del seminterrato. Il suo sguardo intercetta la testa lignea di Cristo, che noi intravediamo attraverso le ghirlande di gelsomino intrecciate nei suoi capelli neri. Questo incontro dà luogo a un dialogo silenzioso fra tradizioni, iconografie religiose e spirituali vis-à-vis rituali e immaginari popolari, storie di dominazioni ed evoluzioni sincretiche generate dal nudo accostamento di materiali e forme.
All’ultimo piano del Palazzo «Mapping craters: a year-long documentation of a landless farmer from Amdahara, Birbhum» di Prasanta Sahu. Stampi di attrezzi contadini sono ordinati su un lungo tavolo al centro di vetrine e vetrinette colme di preziosi artefatti aristocratici di varie epoche e provenienze. Oggetti di lusso fabbricati da abili artigiani circondano l’opera di Sahu e al Kaavad: Musings and Miscellanies (piccolo santuario portatile) di Gulammohammed Sheikh. I sofisticati oggetti riservati all’élite aristocratica si specchiano nella povertà dignitosa di utensili contadini, riverberandone la bellezza in un crollo delle gerarchie, mentre echeggiano memorie di reiterate ingiustizie sociali, di privilegiati ben istruiti e di diseredati indigenti.
Se «Disruptive Confluences» è una sezione in cui la scultura prevale sui dipinti, in «Residues & Resonance» al Mao-Museo di Arte Orientale troviamo esclusivamente opere bidimensionali. Con la sola eccezione dei lavori astratti in perle di vetro, inchiostro e carta realizzate da Puneet Kaushik, e di quelle ornamentali composte di frammenti di vetro, eseguite da Piyali Sadhukhan, gli altri lavori sono tutti dipinti figurativi e narrativi e miniature che utilizzano tradizioni molto radicate, fatte di culture, stili, scuole e generi molto ben sedimentate per affrontare questioni legate alla nostra vita quotidiana e al mondo globalizzato.
La compresenza di sculture classiche e manufatti provenienti da diverse regioni dell’ est, i diversi background religiosi che esprimono e la grande varietà di tecniche e materiali che caratterizza la vasta collezione del museo ospitato nell’antico palazzo Mazzonis fanno da cornice alle opere realizzate con tecniche minuziose da artisti indiani che portano avanti tecniche tradizionali per affrontare la contemporaneità. Storie di carattere politico, di potere e sfruttamento, di disuguaglianze di genere, di solitudine poetica, di magica meraviglia, di regni fantastici e di gioia mistica sono affrontate con registri che spaziano dall’epico al mondano, dall’eroico al tragico, dall’ironico al sarcastico.
I «Silent Tales» di Piyali Sadhukhan, per esempio, sono collage di braccialetti di vetro rotti, disposti secondo il tradizionale pattern ornamentale degli antichi tappeti della corte Moghul. Parlano di violenza e di come la politica si giochi spesso sul corpo delle donne, di repressione, angoscia e rabbia subita nel silenzio. La collocazione di queste opere nelle vetrine, affianco ai manufatti del passato ne amplifica la bellezza ornamentale e l’attrito con il loro contenuto sarcastico.
La medesima ambivalenza si ritrova in «The Monkey & The Dog», un lavoro di Paula Sengupta realizzato con la tecnica dell’acquaforte e della serigrafia su rotolo, tecnica derivata dalla fabbricazione tradizionale dei thangka tibetani (un genere di pittura su tessuto). È un dipinto lineare raffigurante la storia di due donne tibetane esiliate in India. L’uso coinvolgente dell’inchiostro blu indaco e il suo lento e irreversibile saturare l’intera superficie del rotolo, come una macchia dilagante, rimanda alla crescente presenza delle uniformi blu della polizia cinese, denunciando la sinicizzazione del Tibet, in corso da molti anni.
Un altro grande rotolo dipinto, «A Marked Earth» di Samanta Batra Mehta, ci coinvole con l’uso di inchiostri colorati su carta, conducendoci verso un immaginario di equilibrio, di gioia, di meraviglia e di condivisione: l’opera è ispirata al Giardino Moghul, una geometria meticolosamente pianificata, composta di terra, acqua, aria e natura, che intendeva dare vita a un’utopia terrestre di simbiosi e armonia tra gli uomini e il mondo naturale.
Gli altri artisti in mostra a costruire un prezioso racconto di stridente bellezza dal sapore amaro sono Anindita Bhattacharya, Baaraan Ijlal, Khadim Ali, Manjunath Kamath, Nilima Sheikh, Priyanka D'Souza, Ranbir Kaleka, Sakti Burman, Sudipta Das, The Singh Twins, Waseem Ahmad, Waswo X Waswo e Yugal Kishore Sharma.
Il terzo capitolo di «Classical Radical» si snoda nell’edificio progettato nel 1833 per ospitare l’accademia d’arte fondata nel 1678 come Accademia dei pittori, scultori e architetti, oggi conosciuta come Accademia Albertina di Belle Arti. Il titolo «Multitudes & Assemblages» si adatta perfettamente alla vasta collezione di opere qui esposte.
Il flusso composto da tanti livelli di differenze e di contrasti vertigionosi invade l’edificio dal cortile al mezzanino del secondo piano, consentendo agli spettatori di assaporare l’unicità della molteplicità che anima la scena dell’arte visiva indiana, innescando curiosità e riflessioni sulla realtà di oggi in cui le vecchie categorie di Oriente e Occidente, di interno ed esterno necessitano di un ripensamento radicale.
Alla fine della mostra potremmo ancora trovarci a tentare di definire che cosa caratterizza l’arte contemporanea indiana, ma lo faremmo dopo aver esperito un insieme di opere che ci avrà resi consapevoli che la sua unicità è oggi radicata non «a dispetto» ma «grazie al» costante confronto con il fenomeno della globalizzazione.
La natura transitoria della percezione di noi stessi e dell’altro che il pensiero sotteso alla mostra ci invita a considerare, ci spinge ad abbandonare abitudini e pensieri convenzionali, a guardare alle differenze e all’unicità come a una nuova occasione di apprendimento, generata da una capacità più profonda di ascolto. È con questa consapevolezza che i più ampi temi del colonialismo, del nazionalismo, del modernismo internazionale e del postmodernismo non vengono solamente interiorizzati, ma trasformati in una potente fertilizzazione del pensiero.
«Space» di Debasish Mukherjee, «Fragments» di Tanya Goel, «Continuities Construction - Fragments» di Shruti Mahajan & Ravindra G. Rao e «City» di Rahul Kumar, sono opere che ci parlano della percezione della vita domestica e degli edifici nei contesti urbani. Affrontano questioni relate alla definizione del tessuto sociale e caratterizzazione dello spazio abitato, privato e pubblico. La sofisticata dimensione astratta di queste opere è in netto contrasto con la natura figurativa della maggior parte dell’arte esposta all’Accademia Albertina; tuttavia i lavori si definiscono a vicenda rivelando una tensione che scoraggia un approccio semplicistico alla tematica.
Gli altri artisti di «Multitudes & Assemblages» sono Amina Ahmed, Bharti Kher, Chandra Bhattacharjee, Debanjan Roy, Ganesh Haloi, Gopa Trivedi, Gulammohammed Sheikh, Harshit Agrawal in collaborazione con 64/1, Jogen Chowdhury, Laxma Goud, LN Tallur, Manish Pushkale, Manjunath Kamath, Martand Khosla, Mona Rai, Neerja Kothari, Paresh Maity, Prasanta Sahu, Priyanka D'Souza, Puneet Kaushik, Rekha Rodwittiya, Sakti Burman, Shailesh BR, Shambhavi, Sheba Chhachhi, Sudipta Das, Tayeba Begum Lipi, Wardha Shabbir.
Completata la visita alle tre grandi mostre, dopo essere venuti a contatto con la vasta varietà di abilità artigianali, tecniche, formati, linguaggi, materiali e con la complessità di pensieri, temi, discorsi, denunce, rivendicazioni, emozioni, sensazioni che le opere innescano, ci troviamo dunque coinvolti in un complesso dialogo interculturale aperto a tante diverse e nuove possibili interpretazioni.
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«Gauri» (2017) di G. Ravinder Reddy, installation view, «Classical Radical: Disruptive Confluences», Palazzo Madama, Torino © Perottino-Piva e Artissima

«Shwanapani» (2019) di Manjunath Kamath, installation view, «Classical Radical: Disruptive Confluences», Palazzo Madama, Torino © Perottino-Piva e Artissima

«Route Map of Experience» (2003) di Jayashree Chakravarty, installation view, «Classical Radical: Disruptive Confluences», Palazzo Madama, Torino © Perottino-Piva e Artissima

«Soaring to Nowhere» (2018) di Sudipta Das, installation view, «Classical Radical: Multitudes & Assemblages», Accademia Albertina, Torino © Perottino-Piva e Artissima

«Kamdhenu-2» (2016), e Kamdhenu‐1 (2021), di Yugalkishore Sharma, installation view, «Classical Radical. Residues and Resonances», MAO, Torino © Perottino-Piva e Artissima

«Untitled» (2014) e «Untitled» (2015) di Waseem Ahmed, installation view, «Classical Radical. Residues and Resonances», MAO, Torino © Perottino-Piva e Artissima

Da sinistra: «Speaking of Akka» (1999) di Nilima Sheikh, «Entwined» (2009) e «The Wedding Jange II» (1991) di The Singh Twins, installation view, «Classical Radical. Residues and Resonances», MAO, Torino © Perottino-Piva e Artissima

«Notes from the margins» (2021) di Anandita Bhattacharya. Courtesy of the artist