Stefano Causa, Arabella Cifani
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Che cos’è un tormentone? Un gran tormento. Mosche, zanzare o altri insetti. Un patema in formato maxi (un paté d’animo per rubare un celebre malapropismo). E per estensione: un motivo, una frase, un episodio, un video, una foto ma che si rilancino due, tre, mille volte fino al grado, appunto, di tormentone. Di solito estivo.
Un tempo il neologismo indicava canzoni di scintillante, irresistibile stupidità, dai ritornelli assassini, ideate a tavolino per spaccare lo spazio di un’estate e che, in epoca di giurassico, intasavano radio, jukebox e walkman. Ai torinesi Righeira, e al loro imperativo «vamos a la playa» che sta per compiere quarant’anni, spetta la medaglia d’oro. Ma per capire l’invaso stilistico e mentale del tormentone non c’è che ripartire dalla scena nello stabilimento nel «Sorpasso» (1962), dove tutti ballano attoniti e nessuno ride, mentre Trintignant terreo in pantaloni e camicia è deciso a barattare, tragicamente, un’irriducibile diversità.
Da Nord a Sud, Gino Paoli e Peppino di Capri gli avrebbero dato una mano. Chiunque di noi, se valicato i cinquanta, ha un orto di tormentoni che innaffia e su cui, come sui gusti, non è lecito disputare. «E tu» di Claudio Baglioni, 1974, «Senza parole» di Luciano Rossi, 1975 e «Non si può morire dentro» di Gianni Bella (’76) sono pezzi che, sul piano dell’amarcord estivo, del tipo nostalgia canaglia, non si battono; e quando devo figurarmi il rumore delle onde con i riflessi del sole penso a «Summer on a solitary beach», settembre 1981, tratto da un disco che sarebbe delittuoso non considerare uno dei grandi avvenimenti della cultura italiana dell’ultimo ’900.
Franco Battiato, Claudia Mori, i Matia Bazar (e la Nada di Amore disperato) sono, giusto per rimanere nei patri confini, il resto della nazionale dei nostri tormentoni. La prossima puntata toccherà ad «Aserejé». Però parliamo di canzoni che diventano tormentoni ma non nascono come tali. Ne esiste un corrispettivo figurativo? Un quadro estivo su tutti? Facile e difficile rispondere perché, come accade con questi trastulli balneari, i nomi riaffiorano sempre dopo, a busta chiusa. Le spiagge di Ghirri, le piscine di Hockney o la copertina di «Creuza de ma» di De André? No: qui si richiede una sola immagine che rievochi il vento caldo dell’estate.
E allora scelgo, da un mazzetto di quella fine dell’Ottocento che è già Novecento senza esserlo ancora, un solo quadro ambientato da noi e concluso in Francia. Come dire: se l’estate per antonomasia è italiana, per reinventarla in studio tocca allontanarsi verso la capitale del diciannovesimo secolo. Ventimiglia, Bordighera, e Dolceacqua. Il Ponente Ligure.
Monet ci arrivò alla fine del 1883 con Renoir. Avevano più di quarant’anni. Salvo, folgorato, Monet ritornarci da solo mesi dopo: vuoi perché l’amico gli avrà potentemente rotto i maroni (se un artista è ingombrante, due straripano) o, peggio, impedito di vedere. Nessun altro verbo legittima il lavoro e l’esistenza di Monet più di «vedere» (solo un occhio, ma che occhio, commentava Cézanne). Operazione semplice ma ardua per noi che guardiamo tutto senza vedere nulla (vale anche per la musica). Chissà cos’avrebbe fatto Monet con uno smartphone.
Intanto, in anticipo su Proust, si dannava nel restituire senza margini di errore la mutevolezza dei fenomeni (l’acqua bolle a 100 gradi, a meno il fenomeno non si ripete). Ma le «Ville a Bordighera», tra i culmini del Museo d’Orsay visitato dalla parte di Swann, è l’Antonomasia dell’estate. Stagione violenta e rombante, dove il creato spurga ed esplode. Subito dopo il Padreterno Monet è stato colui che più si è avvicinato a raccontare la vertigine estiva della riviera ligure. Montale ne sarà stato entusiasta.
La matrice degli «Ossi», che arrivano cinquant’anni dopo, è tutta in questa serie che oggi si studia tra Parigi, Chicago e San Pietroburgo. Nel sole che urtica col mare di sfondo la fiorita cromatica dei fiori e dei tronchi attorti che ritornano come frustate è Van Gogh senza la contropartita esistenziale. Van Gogh meglio di Van Gogh ma che fa a meno di Van Gogh. Con gioia e pienezza Monet Bonnard e Matisse si sono passati il testimone per abbracciare il motore della vita che scoppia. A proposito: esistono i tormentoni invernali? Ancora Monet? La «Gazza» all’Orsay? Yes.
Stefano Causa
Se ti rapisce una sirena
Camminando su una spiaggia selvaggia della Magna Grecia, ad esempio nella solitaria zona dell’antica Kaulon, a Punta Stilo in Calabria potreste salire, a pochi passi dal mare, su quello che resta del basamento di un tempio dorico dedicato ad Afrodite e a Zeus. Da lì, se guardate verso le acque, di un azzurro quasi nero, forse vi parrà di vedere in lontananza, fra le spume, dei tritoni e di udire il suono delle loro conche.
Gli Dei antichi, dimenticati e ridotti a larve fosforescenti, sopravvivono ancora nei luoghi dove furono. In quelle acque c’erano (e non è detto che non ci siano ancora) le sirene. Il nostro medioevo, catalogandole come mostri, le ha collocate sulle facciate delle cattedrali ben incatenate alla pietra, a significare il pericolo e l’inganno delle malie dell’amore terreno sconfitto e domato da quello divino. Ma le sirene sono anche associate alle morte perché la seduzione del loro canto porta gli uomini a perdere corpo e anima per seguirle.
Fra i mille quadri che le rappresentano e che possono illustrare il periodo delle «Feriae Augusti», pochi esprimono così efficacemente la vertigine paurosa dell’affondare in un’acqua gelida e mortale di «Abisso verde» di Giulio Aristide Sartorio (Galleria d’Arte Moderna di Torino). Il celebre quadro, del 1893, considerato un capolavoro assoluto del simbolismo, fu lodato da poeti e letterati, ma in realtà è molto di più. Ha un effetto quasi ipnotico e non ci si stancherebbe mai di guardarlo e considerarlo.
Il giovane uomo nudo dalla pelle bruna e guizzante, si sporge dalla barca verso la sirena che lo attira in un’acqua color assenzio, un’acqua che stordisce e ubriaca. I lunghi capelli rossi della sirena fluttuano nell’acqua, la sua coda pinnata appare appena, le sue carni bianchissime con i seni dai capezzoli rosa ed eretti, sfolgorano. L’immortale sirena attira fatalmente a se il giovane mortale che accecato dal desiderio non guarda null’altro, non bada alla realtà e non vede il fondo del mare sparso di teschi ed ossa.
La morte sarà il prezzo di quell’amplesso vertiginoso. Il ragazzo, fra le braccia della sirena, precipiterà senza nemmeno accorgersene in una regione cieca e muta di acque profonde e senza bagliori. Si sottrarrà così al dolore e alla vecchiaia. La ricerca della bellezza, del piacere e della conoscenza (perché questo è il vero messaggio del dipinto) lo porterà al fondo delle cose, oltre il buio: una sorte non malvagia, a considerare.
L’estate come momento di sospensione è anche questo: pensare e rimeditare le nostre vite prima dell’arrivo delle tempeste dell’autunno che non conosciamo ancora ma che intuiamo negli orizzonti increspati del mare. E allora è meglio, forse, farsi rapire da una sirena e sprofondare nel suo mare iridescente dimenticando tutto.
Arabella Cifani
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