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Lucrezia Mutti
Leggi i suoi articoliQuando ancora in Marocco non c’era alcuna sensibilità per il patrimonio architettonico storico, Abdellatif Ait Ben Abdallah, a sei anni, già guardava con occhi interessati gli antichi edifici che costellavano la campagna che attraversava con il padre per andare a frequentare la scuola a Marrakech. Oggi è un imprenditore immobiliare cui si deve il recupero e la rinascita di oltre 100 palazzi storici tra riad (dimore giardino) e dar (case) di Marrakech e di Fès che in 35 anni di attività ha riportato agli antichi splendori, salvaguardando non solo un patrimonio, ma anche un’arte di vivere che è parte integrante della tradizione culturale del Paese. Al suo lavoro è dedicata una monografia di Mohamed Ait Laamim, professore all’Università Cadi Ayyad, esperto in conservazione del patrimonio, che sottolinea il contributo di Abdellatif Ait Ben Abdallah alla conservazione della medina, «cornice» di una struttura sociale ben definita.
Le origini della medina di Marrakech, estesa su 700 ettari e Patrimonio Unesco dal 1985, risalgono al VI secolo d.C. «Dopo il protettorato francese, spiega Ben Abdallah, gli abitanti hanno cominciato ad abbandonare la medina per andare ad abitare nella città nuova. Solo le famiglie più modeste vi restavano e si vergognavano di essere costrette a farlo perché era costruita in terra e la gente era abbagliata dal cemento armato. Ora la conversione dei riad in proficue operazioni commerciali ha coinvolto anche i marocchini che stanno facendo ritorno nella medina»: è quanto in Italia è successo a Matera.

Una veduta del riad Dar Bensouda à Fes Medina
Cogliendo l’esigenza attuale di differenziare l’offerta turistica della città, ormai congestionata anche nei periodi di bassa stagione, recentemente Abdellatif Ait Ben Abdallah, con i figli Tarek e Sarah, ha restaurato un palazzo nobiliare del XVIII secolo e lo ha dedicato alla bevanda emblematica della tradizione magrebina, il tè, che proprio nel Settecento ha fatto il suo ingresso in Marocco donato da Anna d’Inghilterra al sultano Moulay Ismail. Gustando i tè delle 12 regioni del Marocco e antiche ricette di pasticceria, i visitatori ammirano una collezione di utensili e servizi, alcuni firmati dall’argentiere britannico Richard Wright. Acquisito nel 2018 e situato nel Triangolo d’Oro della medina, tra la Qubba Mourabitia e la Medersa Ben Youssef, il palazzo è sontuoso. Durante i lavori è stata rinvenuta, in un soffitto in cedro riccamente scolpito, la data dell’avvio della costruzione dell’edificio: 1112 dell’Egira (corrispondente al 1700 del calendario gregoriano). Il recupero del Riad 1112, rispettoso delle forme originali e delle tecniche di costruzione e decorazione tradizionali, ha tuttavia comportato la correzione di alcune sproporzioni esistenti.
Non è sempre facile ritornare fedelmente ai fasti di un tempo, soprattutto se i luoghi hanno subìto rimaneggiamenti. «In mancanza delle planimetrie originarie, afferma Ben Abdallah, si risale strato dopo strato agli elementi architettonici e decorativi più interessanti. Sotto al gesso possiamo scoprire se un dettaglio architettonico è più recente. Cerchiamo di salvaguardare la tradizione, ma eventuali aggiunte o modifiche fatte nel tempo fanno parte anch’esse della storia dell’edificio». È il caso della soletta fatta costruire dal precedente proprietario sopra la «qubba» (tetto originale del palazzo), che Ben Abdallah ha deciso di non demolire inserendovi aperture per ammirare il rivestimento originario in tegole di ceramica di Fès, o di una porticina all’ingresso della «douiria» (piccola dimora adiacente al riad principale per ricevere gli ospiti), un tempo accesso alla bassa corte, poi convertita nel XIX secolo in una moschea domestica. La prossimità spaziale con la Scuola coranica Ben Youssef e l’utilizzo di artigiani che lavorarono alla sua costruzione ha influenzato alcuni elementi decorativi originali. Ben Abdallah li ha ripresi con l’aiuto di esperti «maalemin» (maestri artigiani) che tramandano la tradizione decorativa e le sue caratteristiche storiche, come le «musciarabia» (griglie o parapetti con elementi in legno intarsiato a motivi geometrici), gli intonaci intagliati e dipinti e lo «zellige» (mosaico a tessere). A questo recupero filologico si aggiungono alcuni interventi moderni, come la terrazza in «tadelakt» (rivestimento murale a base di calce) beige: «Non sono storico, né architetto, precisa Ben Abdallah, ma ho ascoltato e imparato parlando con chi nella medina vive da più di sette generazioni».

Una veduta del Giardino Segreto. Foto: Mareianne Majerus
Oltre alla sua innata sensibilità, è tuttavia l’incontro con l’architetto belga Quentin Wilbaux ad avergli offerto preziosi spunti tecnici e creativi. Wilbaux si interessa a Marrakech e al suo patrimonio architettonico sin dagli anni Ottanta. Tra il ’90 e il ’91 ha catalogato e schedato centinaia di riad e ha dato il via alla «resurrezione» di tante e magnifiche dimore in rovina. Gli stranieri, che durante il Protettorato ignoravano la medina seppure dotati di capitali da investire e già avvezzi nei propri Paesi alla conservazione del patrimonio, sono poi diventati il motore di un fenomeno che in soli vent’anni anni ha portato Marrakech in vetta alle destinazioni più attraenti, con rivalutazioni dei prezzi di mercato del mille per cento. Con due piani urbanistici importanti, uno nel 2014 con un investimento di circa 600 milioni di euro e uno nel 2017 in occasione della Cop22, e con l’ampliamento dell’aeroporto internazionale (circa 120 milioni di euro), anche il Governo ha avviato una complessiva riqualificazione di Marrakech, anche al fine di valorizzare il suo tessuto urbano tradizionale. Prendono vita progetti imponenti come la ristrutturazione della medina (non da tutti apprezzata per come in concreto è stata realizzata), nonché nuovi progetti museali (ad esempio il Museo Mohammed VI sulla tradizione delle risorse idriche).
Più agili si sono invero rivelati i restauri conservativi e di riconversione firmati da investitori stranieri. Tra questi, il Giardino Segreto che, dopo un lungo lavoro di recupero ultimato nel 2017, è oggi tra i siti più visitati della città, grazie all’impegno di Lauro Milan, imprenditore italiano a Marrakech da oltre vent’anni, e di Sante Giovanni Albonetti, con un investimento di 4 milioni e mezzo di euro. Un progetto consistito dapprima in lavori di demolizione delle sovrastrutture fatiscenti che rendevano irriconoscibili le tracce del grande riad originale. Se questi restauri riscuotono un unanime plauso, altri hanno suscitato perplessità, come quello della Medersa Ben Youssef, esempio cinquecentesco di architettura arabo-andalusa. Riaperta nel 2022 dopo cinque anni di restauri, ha visto la sostituzione degli elementi decorativi originali, quali pavimentazione e zellige, porte scolpite e boiserie, incisioni di versetti del Corano su legno e persino le iscrizioni sui muri delle celle risalenti al XIX secolo.
Se l’ultimo censimento conta circa 28mila abitazioni nella medina, tanti sono i palazzi ancora in attesa di ritrovare i fasti di un tempo, specialmente dopo il sisma del 2023. È il caso di Dar Tiskiwin, dimora-museo del collezionista olandese Bert Flint, oggetto di una donazione ereditaria del proprietario all’Università Cadi Ayyad. Il museo, che ospitava una delle maggiori collezioni di manufatti artigianali berberi e africani, ha subìto gravi danni e da allora è chiuso e la collezione inaccessibile. Gli eredi Flint stanno lavorando alla ristrutturazione di un riad del XIX secolo con l’obiettivo di aprire a breve un nuovo spazio espositivo per la loro collezione privata. L’auspicio è che la recente assegnazione dei Mondiali di calcio del 2030 non finisca per invertire questa virtuosa tendenza conservativa per inseguire profitti e logiche economiche incompatibili con l’anima tradizionale della città.

Una veduta della dimora-museo Dar Tiskiwin. Cortesia di Joost Flint
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