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Nicoletta Biglietti
Leggi i suoi articoliLa realtà non è gentile, non è simmetrica, non è rassicurante. E Diane Arbus l’ha affrontata attraverso la macchina fotografica, scegliendo il margine, l’estraneo, l’imperfetto. Esporre ciò che la società rifiuta è stato il suo gesto più radicale. I suoi soggetti sono «strani», «anormali», «inquietanti», eppure esistono davvero. E ci costringono a vedere, a sentire, a giudicare. Susan Sontag, citata da Gerry Badger in una frase ch'egli stesso definisce come un lapsus freudiano, osserva: «Fotografando i nani, non si ottengono maestà e bellezza, si ottengono nani». Perché nelle mani di Arbus, la macchina fotografica restituisce la realtà senza abbellimenti o idealizzazioni. Ogni scatto diventa responsabilità, etica. È un confronto diretto con il reale, con l’altro e, soprattutto, con la coscienza visiva dell'osservatore.
La mostra «Diane Arbus: Konstellationen», al Gropius Bau di Berlino fino al 18 gennaio 2026, porta al pubblico questa visione radicale nella sua forma più ampia e complessa. Con 454 stampe, molte delle quali esposte per la prima volta, l’esposizione rappresenta una delle retrospettive più complete mai dedicate all’artista. Curata da Matthieu Humery in collaborazione con LUMA Arles, la mostra rifiuta qualsiasi percorso cronologico o tematico prestabilito. Le fotografie sono disposte come una vera e propria «costellazione visiva». Un ambiente labirintico che invita lo spettatore a muoversi liberamente, a perdersi, a costruire relazioni autonome tra immagini, soggetti e sensazioni. Non c’è una narrazione imposta, ma una pluralità di traiettorie possibili. L’allestimento non ordina, non spiega, non guida, ma rispecchia il modo in cui Arbus guardava il mondo: per frammenti, incontri e attrazioni improvvise.
Nata a New York nel 1923, da una famiglia ebrea colta e benestante, Arbus cresce immersa nell’arte: il fratello maggiore, Howard Nemerov, sarà poeta di fama; la sorella minore, Renée, scultrice; il padre, dopo gli affari, pitture a tempo perso. Diane fin da giovane mostra talento e curiosità per l’arte, frequentando scuole prestigiose e prendendo lezioni di disegno. L'infanzia la trascorre sotto una sorta di «campana di vetro»: il mondo le appare quasi irreale, troppo perfetto e troppo bello però per essere vero. Questa percezione segnerà infatti la sua futura indagine artistica, sempre attenta «all’imperfezione» della società. Ma sarà a quattordici anni l’incontro con Allan, fotografo pratico e diciannovenne, a trascinarla fuori dalla sua «gabbia dorata». Insieme, giovanissimi, iniziano poi a lavorare per le principali riviste di moda – come «Glamour» e «Vogue» – ma Diane si sente soffocare: quelle immagini, lucide e perfette, erano l’antitesi del mondo che cercava, lontane dalla «vera autenticità» che la attraeva. Così, nel 1956 prende una decisione rivoluzionaria: abbandona la fotografia di moda, prende in mano una macchina che le permette una connessione profonda con i soggetti e inizia a percorrere le strade di New York. Qui scopre una bellezza non tradizionale, non convenzionale e imperfetta, ma reale. La sua ricerca si concentra su chi è al di fuori delle norme sociali. Il cambiamento è, però, anche personale: sotto la guida di Lisette Model, sua mentore, abbraccia la necessità di osservare la crudezza del mondo, lasciandosi alle spalle qualsiasi «compromesso artistico». Frequenta circhi, comunità psichiatriche, ospedali e ambienti transgender. Ogni incontro è uno studio di autenticità. È una ricerca della verità che va oltre l’apparenza, per raccontare storie non di dolore, ma di umanità.
Arbus è infatti affascinata dai volti e dalle storie che essi raccontano. Usa una Rolleiflex per mantenere il contatto visivo con i soggetti, evitando di guardarli dall’alto. Ogni fotografia è il risultato di una relazione autentica, in cui ogni dettaglio è chiave di lettura della vita dell’altro. Fotografa persone che la società etichetta come «diverse» – nani, giganti, transgender – ma che per lei sono i veri custodi della realtà. «Sono privi di maschere, dirà, autentici». Le sue fotografie diventano quindi un invito a riflettere su pregiudizi, paure e timori verso chi non rientra nella cosiddetta «norma». Perché Arbus vuole che le sue fotografie stimolino la riflessione e l'indagine di ciò che la società evita – come ipocrisie, timori e vulnerabilità.
Nel 1963 ottiene la Guggenheim Fellowship, che le permette di sviluppare il progetto «American Rites, Manners and Customs» sull’America profonda. La sua poetica diventa visibile: ciò che appare inquietante o «anormale» non è difetto, ma verità da osservare. Come Toulouse-Lautrec documentava la vita dei cabaret parigini senza filtri, Arbus cattura i margini di New York con uno sguardo etico e diretto. Come lei stessa diceva: «in una fotografia non si vede solo ciò che è rappresentato, ma anche noi stessi e il nostro modo di percepire il mondo». E le sue immagini non sono solo «semplici» documenti visivi, ma porte aperte a mille interrogativi. Non c’è fretta, non c’è invasione, solo possibilità per lo spettatore di mettersi in gioco e interrogarsi sulla visione.
Diane Arbus, «Identical Twins» (dettaglio), Roselle, New Jersey, 1967.
Il concetto di «normalità» è, infatti, centrale nella sua ricerca. Michel Foucault offre una chiave di lettura per il lavoro di Arbus, affermando che la normalità non è una legge naturale, ma una costrutto culturale, un insieme di convenzioni e controlli sociali. «Scuola, famiglia, medicina, istituzioni definiscono ciò che è accettabile e ciò che è marginale, creando un ordine apparentemente stabile». Arbus sfida questa costruzione: con il flash della sua macchina fotografica illumina ciò che di solito resta nascosto, mostrando che chi viene etichettato come «diverso» è spesso solo un’altra forma di normalità. In questo senso, il suo lavoro è intrinsecamente politico, perché mette in crisi stigmi e esclusioni.
Ma anche Sigmund Freud, nel suo saggio «Il Perturbante», aiuta a comprendere l’inquietudine che le immagini di Arbus suscitano: un dettaglio fuori posto, un gesto innaturale, un volto che non rientra nelle aspettative crea una tensione ancestrale tra il «familiare» e lo «sconosciuto» Ma lo sguardo di Diane non è voyeuristico. Come ricorda infatti Emmanuel Levinas «l’incontro con l’altro è momento di responsabilità etica, perché osservando il suo volto siamo chiamati a riconoscerne l’umanità». E Arbus ci «costringe» a vedere l’individuo, sì, ma anche a confrontarci con i nostri pregiudizi e le nostre «categorie» di giudizio, perché ogni scatto diventa un ponte tra la realtà del soggetto e la nostra coscienza etica.
Erving Goffman, ne «La vita quotidiana come rappresentazione», mostra come le identità siano «performance sociali, maschere adattate al contesto». E le fotografie di Arbus rivelano cosa accade quando queste maschere non esistono: i suoi soggetti non cercano di conformarsi, ma mostrano la loro autenticità, trasformandola in resistenza. Come lei stessa diceva: «I freaks sono aristocratici; hanno vissuto esperienze che noi non possiamo nemmeno immaginare». La bellezza, per Arbus, infatti, non è più la perfezione idealizzata, ma un aspetto che emerge dall’autenticità, dall’accettazione della complessità e della vulnerabilità umana – e, in questo senso, il suo lavoro risuona in critiche contemporanee di pensatori come Byung-Chul Han, che analizzano l’ossessione contemporanea per l’omologazione estetica e la perfezione superficiale.
Ma è anche il confronto con Cindy Sherman che permette di osservare meglio la ricerca di Arbus: dove la prima costruisce identità, interpreta ruoli e mette in scena stereotipi con autoritratti concettuali, la seconda osserva e restituisce. Sherman manipola il reale per interrogarci sui codici culturali della bellezza e del genere; Arbus, invece, documenta ciò che esiste, assumendosi il peso etico del reale. Entrambe mettono in crisi la percezione convenzionale della bellezza, ma lo fanno con strumenti diversi, antitetici – Sherman con il travestimento, Arbus con l’empatia e la verità del soggetto.
Oggi, il confronto si potrebbe estende alle immagini generate dall’intelligenza artificiale. La tecnologia permette di costruire mondi e identità visive, di modellare la realtà secondo parametri estetici o narrativi, ma spesso a scapito della complessità e della verità etica dell’individuo. Arbus ci ricorda che la fotografia è prima di tutto «incontro tra soggetti»: l’immagine è responsabilità, relazione, confronto con il reale. L’AI può riprodurre, manipolare e simulare, ma non può sostituire l’atto etico del «vedere l’altro nella sua autenticità». In questo senso, il lavoro di Arbus diventa un paradigma per riflettere sul ruolo dell’immagine nella società contemporanea: osservare non basta, bisogna comprendere, assumersi il rischio di riconoscere l’altro e sé stessi.
Perché ogni ritratto porta con sé responsabilità e pericolo: il fotografo controlla il soggetto, ma i desideri possono non coincidere. Susan Sontag riconosce questa ambiguità morale: la macchina fotografica «annienta i confini morali e le inibizioni sociali». Se Walker Evans e August Sander – per la Sontag – restano «dalla parte degli angeli» Arbus esplora il margine, sospesa tra empatia e trasgressione.
La vita di Diane si chiude tragicamente nel 1971, ma la sua eredità resta indelebile. Ha insegnato un modo nuovo di vedere e restituire la realtà senza filtri, senza paura, senza compromessi. Ogni scatto è atto etico, confronto diretto con ciò che esiste, con l’altro e con la nostra coscienza visiva. Con la mostra «Konstellationen» questa verità prende forma: invita ciascuno a camminare nel labirinto delle immagini e a confrontarsi con la realtà per quella che è, ricordandoci che guardare è già responsabilità, ma «vedere davvero» è una scelta.
Diane Arbus, «Young Man and his Pregnant Wife in Washington Square Park», New York, 1965. Copyright 1970, The Estate of Diane Arbus.
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