La Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne ha segnato il lancio della campagna UNiTE (25 novembre-10 dicembre), un'iniziativa di 16 giorni di attivismo che si concluderà nel giorno in cui si commemora la Giornata internazionale dei diritti umani (10 dicembre).
Una mostra su questo tema senza differenze fra Oriente e Occidente è «Alessandro Cardinale. Nüshu - Writing the Void» (catalogo Vanillaedizioni, Albissola Marina, Savona) in corso al Museo d’Arte Orientale di Venezia fino al 12 gennaio 2025. Un allestimento molto potente presenta al pubblico dieci opere scultoree, cinque delle quali inedite, di Alessandro Cardinale (primo premio alla V Biennale di Pechino nel 2012) che nel realizzarle si è ispirato alle donne yao dello Hunan e alla loro scrittura ermetica, una scrittura sillabica di utilizzo esclusivamente femminile, il nüshu (letteralmente «scrittura delle donne»).
La diffusione della morale confuciana presso la popolazione yao della contea cinese di Jiangyong aveva costretto le donne alle «Tre Obbedienze» (al padre, al marito e al figlio una volta rimaste vedove) e a una vita da recluse. Soprattutto verso la fine della dinastia Qing (l’ultima dinastia cinese, caduta nel 1912), le giovani, confinate in casa, costrette a dedicarsi esclusivamente alla tessitura, al ricamo e alle attività domestiche, cominciarono a utilizzare sempre più frequentemente questa messe di segni. Il canto (nuge) consentiva alle fanciulle di avvicinarsi al nüshu e, dopo averne appreso i caratteri, di scrivere poesie, preghiere, storie e canzoni, dando voce alle proprie emozioni. Il nüshu divenne così un codice riservato che consentiva di mantenere la propria identità. «Il nüshu nasce dalle lacrime delle stelle in cielo, non devi avere paura»: questa poetica citazione è riportata da Giulia Falcini, sinologa e studiosa della scrittura nüshu nel suo studio Il nüshu. La scrittura che diede voce alle donne (Csa Editrice, Castellana Grotte, Bari 2023).
Oggi il nüshu non si utilizza più: sopravvivono i versi ricamati e tessuti sulle vesti tradizionali delle donne, antico simulacro di un sistema di segni oggi misterioso. Ma per Alessandro Cardinale il nüshu ha potuto rappresentare una metafora perfetta dell’ambiguità e della polivalenza dell’immagine, della sua inconsistenza e della sua forza, dell’essere fisica e mentale insieme, materiale o immateriale nel suo apparire e scomparire. Per la serie di opere appositamente pensate per il Museo d’Arte Orientale Cardinale ha scelto di «scrivere il vuoto» creando, attraverso sottili strisce di tela sagomate o aste in ferro parallele, un’immagine in grado di apparire e scomparire sulla base della posizione assunta dal visitatore nello spazio. Tutto ciò alimenta l’enigma di un processo quasi iniziatico per afferrare un’immagine che esiste ma fugacemente scompare, proprio come le parole delle donne yao a lungo considerate inaccettabili e dunque, per la cultura ufficiale, del tutto inesistenti.
Abbiamo chiesto alla curatrice della mostra Anna Lisa Ghirardi che cosa l'ha guidata nella curatela della mostra: «Da qualche anno seguo con interesse la ricerca di Alessandro Cardinale e il Museo d’Arte Orientale di Venezia mi è parso sede perfetta ad ospitare il suo ciclo di lavori dedicati al nüshu. Qui la sua opera dialoga in modo effettivo ed efficace con altre testimonianze della ricca e complessa civiltà cinese. Il passaggio dalla forma materiale aniconica della sua opera a quella figurativa legata alla percezione ottica dell’immagine, leggibile solo a una determinata distanza dall’oggetto scultoreo, è di forte attrazione per lo spettatore. Le immagini che compaiono nell’opera di Cardinale testimoniano scorci paesaggistici della provincia di Hunan, territorio direttamente esplorato dall’artista, e rivelano diafani volti di donne cinesi. Lo spettatore ne è ancor più catturato se comprende che non si tratta meramente di un gioco percettivo, quanto piuttosto, attraverso il riferimento al nüshu, della possibilità di leggere il vuoto, ovvero di dare voce e significato a coloro che parrebbero non averli (non dimentichiamo che le donne della cultura yao tardo imperiale non erano considerate, i loro diritti erano calpestati e vivevano in una condizione di semischiavitù). Nella scelta delle opere da presentare al pubblico e della loro disposizione all’interno del museo si è considerato il dialogo con l’allestimento e l’architettura preesistente: nel rispetto dell’armonia dei pieni e dei vuoti, nella cura della disposizione simmetrica o asimmetrica degli elementi, aspetti connaturati alla ricerca dell’artista, senza trascurare la necessità di lasciare spazi liberi affinché lo spettatore possa avere le giuste distanze e tutte le prospettive necessarie per la lettura dell’opera».
L’indagine delle diverse popolazioni della Cina si riconferma con questa mostra un campo di interesse del Museo d’Arte Orientale che già nel 2023 aveva dedicato il suo spazio espositivo alla cultura tessile dei miao. Questa volta la ricerca sulla produzione delle minoranze cinesi passa attraverso il linguaggio espressivo contemporaneo. Sottolinea la direttrice e cocuratrice della mostra Marta Boscolo Marchi: «Questo dialogo tra passato e presente è una delle vie più efficaci per far conoscere la storia dei popoli e avvicinare tempi e luoghi».