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Olga Scotto di Vettimo
Leggi i suoi articoli«Pompeii Threnody», titolo della personale di Cerith Wyn Evans (Llanelli, Galles, Gb, 1958) all’Antiquarium di Boscoreale (fino all’11 gennaio 2026) è la prima mostra site specific realizzata nell’ambito di «Pompeii Commitment. Materie archeologiche», programma di arte contemporanea del Parco Archeologico di Pompei avviato nel 2020 per sviluppare una piattaforma di ricerca, sperimentazione e produzione che facesse dialogare il metodo archeologico con i linguaggi del contemporaneo, al fine di produrre nuove prospettive di conoscenza.
Curata da Andrea Viliani con Stella Bottai, Laura Mariano, Caterina Avataneo e Silvia Martina Bertesago, organizzata con la supervisione generare del Direttore del Parco Archeologico di Pompei Gabriel Zuchtriegel, la mostra ha prodotto 10 nuovi lavori, due dei quali, «Pompeii Threnody (In girum imus nocte et consumimur igni)» e «Pompeii Threnody (The Ancient Cypress Trees of the Sarno Plain)», entrambi del 2025, al termine dell’esposizione entreranno nella collezione Parco Archeologico di Pompei, che già raccoglie i lavori di Simone Fattal, Lara Favaretto, Invernomuto, Luisa Lambri, Anna Maria Maiolino, Anri Sala e Wael Shawky.
Per Wyn Evans le installazioni «funzionano come un catalizzatore: un serbatoio di potenziali significati che si dipanano in molteplici viaggi discorsivi» e le sue mostre costituiscono «un’arena di contraddizioni, in cui desiderio e realtà si abbracciano», afferma il curatore Viliani, che continua: «Con la sua “Trenodia di Pompei”, Evans porta la propria storia e le proprie storie in quella e quelle di Pompei: un dialogo prezioso, o per meglio dire un “feedback” (per citare l’artista stesso), che rievoca e reincanta davvero lo spazio-tempo circolare pompeiano, il contesto dei suoi eterni ritorni, il suo sempre ritornante e sempre vivo percorso verso sé stesso».
Abbiamo rivolto alcune domande all’artista.
Nella sua pratica artistica concettuale costruisce dispositivi installativi che invitano a porsi domande e a condividere riflessioni. Lo stesso titolo della mostra, «Pompeii Threnody», all’Antiquarium di Boscoreale, produce già un primo interrogativo. Evans, può illustraci il significato e il motivo di questa scelta?
«Threnody» come titolo, come tutti i titoli, è in un certo senso un «segnaposto». Rappresenta un lamento per gli antichi morti della città e un codice poetico formale per commemorare le loro vite, e il ruolo/luogo che l’archeologia ha avuto, letteralmente, portando tutto questo alla luce. Un processo che articola le tecnologie del lutto e lo scavo dello spettro della morte nella vita. Molti aspetti di questo vasto spettacolo fanno luce su ciò che diventa la fotografia: prova, ricerca e memento. Esso chiarisce anche il compattarsi e lo stratificarsi della presunzione di linearità del tempo. Nella presenza dell’assenza.

Una veduta della mostra «Pompeii Threnody» di Cerith Wyn Evans nell’Antiquarium di Boscoreale, Parco Archeologico di Pompei. Photo © Amedeo Benestante. Courtesy Cerith Wyn Evans e Parco Archeologico di Pompei
Aveva già visitato in passato il Parco Archeologico di Pompei e, in particolare, l’area archeologica di Villa Regina? Quali sono le sue impressioni e che cosa ha avuto maggior impatto su di lei?
Durante la mia prima visita ho avuto il privilegio di ricevere una visita guidata da una figura leggendaria, Mattia Buondonno, le cui doti di erudizione e il cui fascino gli hanno guadagnato una reputazione che arricchisce ulteriormente il mito dell’«esperienza» di Pompei. Un narratore esperto e divulgatore di dati, abbastanza talentuoso da dare colore e vitalità al racconto. Questo racconto di Pompei, abilmente affinato per coinvolgere anche i non iniziati, attraverso aneddoti legati alla produzione di Pompei hic et nunc. Sono stato attratto dagli spazi interstiziali che lui ha saputo rendere accessibili. La natura della cultura pompeiana. Il suo affollarsi di temporalità, i suoi frammenti perpetui e gli splendori che svaniscono. Le sue erbacce e le sue erosioni… la segnaletica, i vuoti, i calchi e le copie, la sua colpevole virtualità. La sua polvere.
Negli spazi dell’Antiquarium di Boscoreale per la mostra sono allestite fotoincisioni, lampade e una installazione luminosa: 12 opere, di cui 10 nuove produzioni. Vuole introdurci a un percorso di visita della mostra, raccontandoci come è strutturata?
Ci sono tre sezioni distribuite all’interno del museo… una sorta di interventi. Tutti, in un certo senso, coinvolgono la luce. Una scultura al neon, simile a una lampada. Un portfolio di nove stampe fotoincise (incorniciate). Una coppia di palme decorative in metallo, «antiche» (anch’esse lampade). Il neon è una versione unica di un’opera più vecchia, ormai ha quasi 29 anni, anche se nel tempo ci sono state diverse iterazioni, per quanto riguarda la scala e il colore. «Neon» è il termine comunemente usato per indicare queste opere composte da gas compresso contenuto in tubi di vetro e caricato con corrente elettrica. Il neon brilla di colore rosso nel vetro trasparente, mentre l’argon appare blu, una tonalità cerulea, paragonabile al cielo azzurro che si può spesso osservare dalla finestra adiacente, come in questo caso. La forma, invece, è linguaggio (un palindromo, per essere precisi), una frase piegata nel mezzo così da poter essere letta nello stesso modo da sinistra verso destra, e viceversa: «In girum imus nocte et consumimur igni», spesso tradotto «giriamo in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco». Il palindromo latino fu usato dallo scrittore e regista situazionista francese Guy Debord come titolo di un film (1978) che esplora temi come il decadimento sociale, la natura ciclica del tempo e il fascino seduttivo dello spettacolo. L’opera è inoltre in compagnia dell’incredibile manufatto che è il carro cerimoniale della sposa, la cui prossimità rappresenta un grande onore e un privilegio. Il neon è sia un riferimento alla vita di Debord, sia una sorta di ovvio epitaffio per la rivoluzione molecolare che è Pompei. Il secondo contributo assume la forma di una serie di fotografie, o più precisamente fotoincisioni (photogravures). I secolari cipressi della Piana del Sarno, gli alberi (radici) scavati e esposti (agli elementi), sono qui documentati, fermati e messi a nudo (all’ambiente fotochimico). La rappresentazione richiama qualcosa del desiderio di contenere e catturare, di reificare e convivere con il feticcio, soffermarsi sulla sua meraviglia organica trascendente, sul suo status e sulla sua capacità di generare stupore. Il tempo qui diventa spazio, mentre la natura evolve in cultura. La storia naturale e l’oggetto si fondono, e le sue leggi sono intrise nella condizione di essere abbandonate in deposito. Nel dietro le quinte, questi esemplari assumono una presenza spettrale, condannati alla riproduzione meccanica e ai suoi codici estetici associati. Rendicontazioni sensuali emergono come particelle ebano e onde di luce, mentre qui lo spazio diventa tempo. Infine, possiamo considerare un’altra «regione del senso». Il piccolo giardino cortile, un capriccio nel nostro progetto. Una vetrina, una scenografia e un palco. Non del tutto qui né lì, ma in qualche modo sia paesaggio che intervallo… I gatti del museo sono attratti dai pesci: troviamo due ospiti nel nostro décor.
Come si inserisce questa mostra nella sua ricerca e quale ritiene sia stato l’impatto prodotto sul suo lavoro dall’incontro con la «materia archeologica»?
Non ne sono sicuro, venite a vedere.

Una veduta della mostra «Pompeii Threnody» di Cerith Wyn Evans nell’Antiquarium di Boscoreale, Parco Archeologico di Pompei. Photo © Amedeo Benestante. Courtesy Cerith Wyn Evans e Parco Archeologico di Pompei