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Arianna Antoniutti
Leggi i suoi articoli«Inaugurare la mia prima mostra al MaXXI L’Aquila ha per me un significato speciale, dice Emanuela Bruni, presidente Fondazione MaXXI, “True Colors” è un’esposizione che parla di legami, e questo museo è il simbolo del legame profondo tra il MaXXI e la città. La mostra è un’esplosione di trame, colori, intrecci». Il filo, è il caso di dire, che tiene unite le opere, esposte fino al 16 novembre, è la loro natura tessile. Come precisa il sottotitolo «Tessuti: movimento, colori e identità», i lavori esposti a Palazzo Ardinghelli, sede aquilana del MaXXI, sono tutti realizzati utilizzando fibre e stoffe. Ma se questo è il vincolo del materiale, esso è declinato in molteplici forme, in un caleidoscopio di segni e significati, dai ventuno artisti partecipanti: Dana Awartani, Marion Baruch, Yto Barrada, Jacopo Belloni, Sanford Biggers, Alex Cecchetti, Adelaide Cioni, Olga de Amaral, Isabella Ducrot, Gelatin, Sheila Hicks, Kaarina Kaikkonen, Kimsooja, Abdoulaye Konaté, Claudia Losi, Hassan Musa, Marinella Senatore, Paola Pivi, Yinka Shonibare, Rosemarie Trockel, Franz West. Abiti, mobili, arazzi, installazioni, danno soffice corpo alla collettiva, curata da Monia Trombetta (con Chiara Bertini, Fanny Borel, Donatella Saroli, Anne Palopoli), che attraversa sinuosa, come stoffa, lo storico palazzo, dalla corte a esedra fino al primo piano, per poi ridiscendere nella Sala Studio.
Come sottolinea Francesco Stocchi, direttore artistico del MaXXI, tutte le opere sono state realizzate dal 2000 in poi. «Sono lavori di creazione recente, che parlano del nostro tempo, del nostro presente. “True Colors” restituisce chiaramente ciò che è l’arte contemporanea». Il punto di partenza è dato dai lavori in collezione MaXXI, intorno ai quali sono stati richiesti prestiti e, soprattutto, sono state commissionate nuove opere. Infine, sono per la prima volta presentate al pubblico nuove acquisizioni del museo. «Solitamente, continua Stocchi, quando si acquisiscono nuove opere, trascorre molto tempo prima che esse siano esposte. In questo caso, per “Turbante” (2014) di Isabella Ducrot e “Untitled (Checkers)” (2024) di Yto Barrada (del quale stiamo ancora perfezionando l’acquisto), è stata una questione di pochi mesi. Abbiamo creato un contesto che non si esauriva con la collezione, ma che la trasformava in incipit. La mostra è diventata così un serrato dialogo, una continua relazione, innanzitutto con l’edificio, data la natura ambientale di gran parte delle opere. C’è poi l’aspetto determinante della relazione diretta con il pubblico, penso ai lavori di Kaarina Kaikkonen, dei Gelatin e di Marinella Senatore, che si fondano integralmente sui meccanismi dell’interazione. È una mostra che fa vedere il mondo sotto altri occhi. Io l’ho fatto, ed è emozionante».

Adelaide Cioni, «Song for a Square, a Circle, a Triangle», 2023. Photo: Tim Smyth
È «Towards Tomorrow» di Kaikkonen ad aprire il percorso, con i suoi lunghi festoni di abiti colorati, appesi nel cortile porticato. L’opera, del 2012, è stata totalmente ricreata per l’occasione dall’artista, che ha chiesto alla popolazione locale di donare abiti usati di bambini da 0 a 5 anni. «Da parte degli artisti, racconta Monia Trombetta, c’è stata un’adesione entusiasta, da tutti i punti di vista. Gli artisti con cui avevamo lavorato in precedenza hanno avuto la possibilità di tornare sulla propria opera con letture inedite, con una freschezza nuova. Come nel caso di Kaikkonen, o di Paola Pivi, che ha riallestito “Share, but it’s not fair” del 2012, realizzato per la sua personale al MaXXI di Roma, qui in relazione con la sala della Voliera». Nell’ambiente più ampio del museo, trecento cuscini sospesi al soffitto, realizzati con abiti di monaci tibetani, modificano la percezione dello spazio, creando un ricamo di luci e ombre. «Sempre sulla scia della relazione, aggiunge Trombetta, abbiamo prodotto “Protest Forms: Memory and Celebration” di Marinella Senatore, che ha coinvolto gli abitanti de L’Aquila con una call. L’artista ha raccolto frasi, motti, poesie, canzoni, per realizzare i suoi banner, che per lei rappresentano un modo di protestare, ma anche di manifestare, di comunicare, di tenere insieme». «Il piacere è potere», «La pluralità esplode», sono alcuni dei motti ricamati sui banner in forma di stendardi. «Allestiti in una sala del museo, commenta Trombetta, sono quasi un manifesto della comunità aquilana».
Nel caso dei Gelatin, «Vorm Fellows Attitude» (2018), il visitatore può invece entrare fisicamente nell’opera, indossando i costumi esposti in mostra e divenendo così parte attiva dell’esposizione. Oppure, sempre come autentici performer, ci si potrà sedere sulle sedie e sui divani disegnati da Franz West. Le suggestioni sono moltissime: si passa dai movimenti impercettibili dei personaggi di Jacopo Belloni, ai suoni cosmici di Alex Cecchetti, si attraversa l’installazione ambientale di Adelaide Cioni o, ancora, ci si interroga sul contenuto dei fagotti di Kimsooja. Scarti e residui tessili danno vita alle eleganti composizioni di Marion Baruch, mentre migliaia di fili di cotone rivestiti di gesso rendono tridimensionali le poetiche geometrie di Olga de Amaral.
Lino e fibre sintetiche regalano matericità alle linee di Sheila Hicks, linee che, per Rosemarie Trockel, diventano rilettura dal processo creativo della tessitura. Claudia Losi affida al ricamo di sedici donne peruviane e marocchine il compito di raccontare la propria storia e, infine, Dana Awartani, in un’opera appositamente realizzata per la mostra, ha rielaborato, su seta, i danni subìti da Palazzo Ardinghelli durante il sisma del 2009. «Partendo da foto dell’edificio, spiega Monia Trombetta, l’artista ha rilevato i contorni delle lesioni, e le ha ricucite. Le sue sete, tessute a mano, create a misura per le finestre del museo, ci mostrano i rammendi di una ferita. Perché con l’arte si può ricucire, si può curare». Nel periodo di apertura della mostra, sono previsti workshop e performance: dopo gli interventi performativi di Adelaide Cioni e Harriet Riddell, seguiranno nei prossimi mesi le performance di Silvia Gribaudi e Adriano Bolognino, oltre ai laboratori curati da Jacopo Belloni e Claudia Losi.

Olga de Amaral, «Brumas Q, Brumas R, Brumas T», 2014. Photo: Lucky Productions. Courtesy Fondazione MaXXI