Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image
Image

L'arte è apolitica? Un'idiozia

L'arte è apolitica? Un'idiozia

Massimo Firpo

Leggi i suoi articoli

«L’arte non c’entra con la politica». Capita ancor oggi di udire una simile baggianata dalla bocca di qualche anima bella, tenacemente legata a un’idea tutta e solo estetica dell’arte. Fin dalla preistoria, checché se ne dica, non fu questo lo scopo delle immagini (la cosiddetta Venere di Willendorf non è proprio una bellezza!), che avevano piuttosto intenti propiziatori sulla fecondità delle donne, la caccia degli animali, il corso degli astri. In altri termini, fin dalla notte dei tempi l’arte si è occupata di politica (così come la politica si è occupata di arte), e da allora in poi lo ha sempre fatto. Ed è ben noto che la politica ha sempre coinciso (o almeno si è mescolata a piene mani) con la religione, e che questo connubio ha costituito un potente propulsore di immagini e di arte. A cominciare dai faraoni dell’antico Egitto, che per qualche millennio hanno elevato al cielo le loro immense piramidi, i loro obelischi, le loro possenti statue, o sono stati effigiati nei volti immobili e inespressivi cui sono dedicati i loro templi o le loro tombe. Così l’arte classica, che ha narrato le imprese delle sue divinità e dei suoi eroi, grandi guerrieri immortalati sui vasi attici, vincitori di olimpiadi, filosofi e tiranni, ha esaltato imponenti conquiste su archi di trionfo e bassorilievi celebrativi, ha immortalato consoli e imperatori sulle monete di cui il loro profilo garantiva il valore da un capo all’altro del Mediterraneo.

Su questo universo pagano il Cristianesimo agì come una tempesta iconoclasta, destinata a riproporsi nell’VIII secolo a Bisanzio, così come nel XVI secolo nel mondo della Riforma europea. Ma papa Gregorio Magno si sentì ormai così forte alla fine del VI secolo da affermare la liceità delle immagini come Biblia pauperum, Bibbia dei poveri analfabeti incapaci di leggere, strumento pedagogico per insegnare loro la storia della Rivelazione cristiana. A quella coraggiosa scelta politica l’Europa dovette tutta quanta la sua straordinaria produzione artistica, dai mosaici bizantini a Wiligelmo, da Giotto a Michelangelo, da Van Eyck a Tiziano, da Antonello da Messina a Rubens, da Cellini a Tiepolo, mentre le altri grandi religioni rivelate, Ebraismo e Islamismo, restavano prigioniere del loro monoteismo assoluto e aniconico, continuando a combattere le immagini come superstiziose e idolatriche. Ne sarebbe scaturita la straordinaria raffinatezza decorativa dell’arte musulmana, capace di scrivere e celebrare in ogni possibile modo il nome di Allah, ma pittura e scultura sarebbero restate patrimonio esclusivo dell’Occidente europeo.

Qui l’arte sacra avrebbe accompagnato, legittimato e celebrato l’affermarsi della potenza ecclesiastica lungo tutti i secoli del Medioevo, raccontando le storie bibliche, la passione di Cristo, le vite della Vergine e dei santi, e costruendo in tal modo a beneficio dei fedeli un complesso edificio devozionale di cui la Chiesa si poneva come garante, sfruttandone anche le risorse in termini di offerte, elemosine, pellegrinaggi, voti, obbedienza. Dovunque davanti a quelle immagini i monaci cantavano i salmi, i preti celebravano la messa e i fedeli si inginocchiavano in preghiera. Politica allo stato puro, insomma, come appare in tutta evidenza, per esempio, nel cuore stesso delle liturgie papali, nella Cappella Sistina, i cui straordinari affreschi raccontano la historia salutis del genere umano: la creazione, il diluvio universale e le storie di Noè sulla volta; l’antico patto siglato da Mosè e l’avvento di Cristo sulle pareti, preparato dal silente snodarsi dei suoi antenati nelle lunette e annunciato dai profeti e dalle sibille nei pennacchi; la predicazione di san Paolo e di san Pietro a tutte le genti negli arazzi raffaelleschi e il giudizio universale sulla parete d’altare. Il tutto sotto lo sguardo vigile dei pontefici che sfilano tra le grandi finestre in alto, a garanzia dell’ininterrotta autorità magisteriale della Chiesa di Roma e del suo primato universale, mentre gli stemmi e i serti di quercia dei Della Rovere celebrano i due papi della famiglia, Sisto IV e Giulio II, che avevano commissionato quel ciclopico capolavoro.

Non meno esplicitamente politica sarebbe stata l’arte al servizio delle magistrature comunali, come le pitture infamanti dei rei appesi a testa in giù o l’«Allegoria del buono o del cattivo governo» di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena; oppure al servizio di sovrani, principi, condottieri, dinastie, grandi aristocratici, autorevoli prelati, per evocare non solo il loro potere e la loro gloria, ma la sacralità di quel potere e l’eternità di quella gloria consegnate alla duplicità dei loro corpi scolpiti l’uno sopra l’altro nel fulgore dei loro paramenti e nella decomposizione della loro carne: State portraits da diffondere in tutte le corti, rutilanti armature da parata, bastoni di comando, cavalli rampanti e monumenti equestri, ieratica compostezza o eroico valore in battaglia, scettri, corone, mondi sormontati dalla croce in oro splendente, gesti della sovranità, come le ginocchia esposte a rappresentare la giustizia, teschi e ossa incrociate nei solenni monumenti funebri, apparati celebrativi densi di evocazioni classiche o di simboli esoterici per festeggiarne le joyeuses entrées o le benevole epifanie al popolino fedele e festante. Politica fu l’arte di Caravaggio, non solo con i piedi sporchi dei pellegrini a Loreto esibiti in primo piano (mentre il dilagante pauperismo e le tragedie della guerra dei Trent’anni facevano affacciare sulla scena della pittura i miserabili, i derelitti, gli straccioni), ma soprattutto con i riferimenti alla conversione di Enrico IV di Borbone nelle tele della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Politica fu l’arte di Bernini, con il grandioso colonnato di San Pietro che diventa l’abbraccio universalistico della Chiesa di Roma, mater et magistra di tutte le altre. Anche in futuro tutta politica sarà l’arte, quando tra Sette e Ottocento si vorranno celebrare le virtù laiche e civili dell’uomo comune, del citoyen, o promuovere il culto della dea ragione o degli alberi della Rivoluzione o del Napoleone alla guida della Grande Armée, fino ai goffi panni imperiali in cui si fece immortalare da Ingres e da David. Il che avvenne anche quando la nuova sensibilità romantica scoprì l’evasione bucolica nel paesaggio, la terribile grandezza dei panorami alpestri, gli affetti privati di mogli devote e rosei figlioletti. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati all’infinito.

Certo, non mancano le eccezioni, dalle nature morte olandesi alle scene di genere, che tuttavia a ben vedere sempre e comunque ci raccontano qualcosa del loro tempo e non lo fanno mai in modo neutrale. Anche negli assorti interni di Vermeer compaiono spesso alle pareti le minuziose carte geografiche che celebrano le imprese marinare degli olandesi, mentre nelle silenti cattedrali fiamminghe di Pieter Saenredam la vittoria del Calvinismo si riflette nelle pareti spoglie, deprivate di ogni immagine sacra. Anche l’insulsa pittura accademica dell’Ottocento rivela scelte e orientamenti politici, ora di compiaciuta subalternità sociale ai ceti dominanti ora di passioni patriottiche che vibrano nelle immagini dei fieri garibaldini che costruiscono la nazione o negli episodi di vita dei grandi del passato. E tutta politica, anche nei risvolti sociali della cosiddetta bohème artistica, sarà la reazione ai virtuosismi tecnici di tale pittura, così come la svolta irreversibile imposta a pittori e scultori dalla nuova tecnica fotografica, fino al «Quarto stato» di Pelizza da Volpedo e al «Guernica» di Picasso, alla truculenta satira sociale degli espressionisti tedeschi, alle passioni infantili dei futuristi, alle criptiche allusioni di simbolisti e surrealisti.

Proprio qui, del resto, si cela il significato stesso dell’arte come veicolo di messaggi, come strumento di potere, come espressione della storia e dei suoi incessanti cambiamenti che non si esauriscono nel mutare delle categorie estetiche né in un’arida successione di stili, di gusti, di tecniche, ma riflettono identità, bisogni, progetti, valori, credenze, miti, rapporti e gerarchie sociali ecc. Il che in una certa misura vale ancor oggi, nonostante l’inarrestabile subalternità dell’arte contemporanea a leggi di mercato non sempre trasparenti, che sfrangia e decompone i messaggi accontentandosi di essere provocazione, dalla «Merda d’artista» di Manzoni ai bambini impiccati di Cattelan. Né può essere molto di più se il potere che la muove non è quello della politica ma quello del denaro. Il che tuttavia, alla lunga, la rende un po’ noiosa.  

Il testo, intitolato "L’arte non c’entra con la politica", è pubblicato nel volume "Il pregiudizio universale". Un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni, appena edito da Laterza

Il Giornale dell’Arte ha chiesto a critici, storici e politici che cosa ne pensano

Sempre autonoma ed eteronoma. C’è poi l’arte che «fa politica» Non c’è arte che possa prescindere dal contesto sociale, culturale, religioso in cui l’artista si trova ad operare ma, come scriveva il grande e dimenticato Luciano Anceschi, l’arte è al tempo stesso autonoma ed eteronoma. Dobbiamo, insomma, imparare a distinguere. Distinguere tra autonomia ed eteronomia dell’arte, ma anche tra arte impegnata politicamente e arte disimpegnata. E ancora distinguere tra politica e ideologia. Tra arte disponibile a lasciarsi contaminare dalla politica, pur di autorealizzarsi, e arte che invece si assume il compito di «fare politica» (caso esemplare, Jacques Louis David). C’è poi ancora da distinguere tra artisti che accettano di produrre opere politiche, condividendo il punto di vista dei committenti, e artisti che invece lo fanno senza un’intima condivisione (caso esemplare, Canova e il suo «Ercole e Lica»). Ma non basta: in genere la politica invade solo la sfera dell’iconografia artistica, lasciando intatta la sfera stilistica. Anche qui, il caso di David è unico, perché le sue svolte politiche sono sempre caratterizzate anche da parallele svolte stilistiche. Non meno esemplari, per dimostrare l’assoluta intercambiabilità di uno stile, pur cambiando radicalmente l’iconografia, sono le incisioni del mediocre «voltagabbana» Michele Ilari, che dopo aver proposto monumenti pubblici inneggianti alla Rivoluzione giacobina, non appena il papa torna a Roma si precipita a proporne di inneggianti alla restaurazione pontificia, limitandosi a cambiare il soggetto, senza neanche modificare l’apparato decorativo del piedistallo. C’è, infine, un’ultima precauzione da prendere, forse la più importante: relativizzare il proprio punto di vista, cercando, se si può, non solo di contestualizzare l’opera nella cultura e nello Zeitgeist del suo tempo, ma domandandosi se la nostra interpretazione di essa sia scevra da pregiudizi ideologici, estetici e, perché no?, anche politici, indotti dal nostro odierno (e mutevole) contesto.
Antonio Pinelli professore emerito di Storia dell’Arte moderna, Università di Firenze

L’arte è da sempre idealità e visioni del mondo Se solo la poesia si unisse alla politica...Nessun fatto di vita si sottrae alla politica. Non credo esista o sia mai esistita un’arte totalmente distaccata, disimpegnata e radicalmente fuori dal contesto sociale in cui viene concepita. Può essere avanguardia e condizionare i tempi e la temperie epocale. Oppure può essere conformismo e declinare sensibilità, gusti e visioni politiche della propria epoca. O rappresentarne il dissenso più radicale o rifugiarsi in un aristocratico distacco. Ma non può prescinderne. D’altra parte la politica come costruzione e difesa della bellezza non può che esser anticipata dall’arte che ne rappresenta il modello archetipico. L’arte e l’architettura hanno sempre «parlato» di visioni del mondo e rivoluzioni. Quindi di politica. Per questo non ho mai avuto simpatia alcuna per la tesi della neutralità dell’arte: un’opera d’arte, per esser tale, reca sempre traccia del suo tempo, del contesto sociale, delle idealità e dei fermenti dell’epoca. Anche in una natura morta del Seicento, dove la centralità assegnata al mondo degli oggetti, alle loro forme, ai volumi, alla materia e alla reazione alla luce, sembra escludere la presenza dell’uomo e delle sue dinamiche, quelle forme e quelle materie prescelte ci raccontano del «tempo» e degli uomini, dei traffici e delle rotte, dei commerci e dei costumi. Ed è facile pensare al significato che nel Rinascimento viene attribuito alle opere in quanto espressione del potere dinastico e strumento di propaganda e di legittimazione stessa del potere.
Fabio Granata già assessore di Beni culturali della Regione Siciliana, 2000-06

Entrambe mirano alla felicità delle personeForse bisogna partire dal significato delle parole, come raccomandava Norberto Bobbio. Per me «politica» significa governo della cosa pubblica, consistente in una vocazione e in una prassi che riuniscano tutti quei pensieri e quelle attività che mirano a una convivenza giusta e il più possibile felice. Sempre secondo me, l’arte consiste nella costante ricerca, da parte di chi è dotato «dalla natura» di capacità di rappresentazione, delle modalità più efficaci per aiutare (anche a costo di grandi sofferenze personali) le persone che non posseggono quelle capacità a essere consapevoli e il più possibile felici. Arte e politica convergono perciò, ontologicamente, nell’obiettivo finale di promuovere la maggiore felicità possibile in questo mondo. Ciò non significa che debbano necessariamente incrociare i loro percorsi durante il lungo e accidentato viaggio verso lo scopo finale. Ci sono momenti della politica che possono non avere nulla a che fare con l’arte; così come ci sono momenti dell’arte che possono non avere nulla a chefare con la politica. Soprattutto sarebbe bene che non ci si affannasse troppo a porsi quesiti come q uello a cui sto rispondendo: credo che possano confondere le idee. Sono convinto che i politici e gli artisti debbano innanzitutto cercare di svolgere onestamente il loro lavoro: certamente avranno modo di scoprirsi, apprezzarsi, abbracciarsi quando saranno riusciti a confluire, come due torrenti ricchi di acque, nel grande lago della (relativa) felicità umana.
Fiorenzo Alfieri già assessore alla Cultura di Torino, 2001-11

Ancora parva aesthetica? Picasso è morto... L’artista. Se da una sua opera discendono pensieri o emozioni in affinità con la politica o addirittura che provocano azioni politiche, quell’artista può essere stato creativamente «irresponsabile». Se avesse voluto fare un’opera in cui si leggessero anche incombenze politiche assunte da altri, subito o chissà quando, come «messaggio» con «intenzione simbolica», è impresa poche volte ottenuta. Artisti politicamente responsabili. Fidia? Michelangelo con il David repubblicano ma senza lo Schiavo morente? Oppure, con lo Schiavo ma morente per chi o per cosa? Delacroix con «La Libertà che guida il popolo» e «Il massacro di Chio», lasciate nelle vecchie sezioni comuniste a «immagine collettiva di un’epoca»? Goya e Manet con le loro «fucilate»? E poi, la Fucilata di Manet è più progressista della sua «Colazione sull’erba»? Ancora: Picasso con «Guernica» da una parte e dall’altra la «colomba»? Forse che «Les demoiselles» non aprono a successive, scardinatrici (politiche su di un altro piano?) rivoluzioni estetiche, che però di certo anticipano, senza voler essere «quella» Guernica ma solo una Guernica dell’arte, o meglio, della storia dell’arte? Cinema. Qui il fortino inespugnabile di veicoli politici. Tv, cellulari, internet eccetera collocano documentari politici nello spazio delle nostre cose. Ma rientrano in «parva aesthetica»? Mio Dio, mezzo secolo dopo di nuovo con Adorno. Contenuto, significato, abolizione dell’arte, lo sfrangiamento della politica, fino ad Aleppo. Picasso è morto.
Franco Miracco già consigliere Biennale di Venezia 

Andrea del Sarto o Ai Weiwei sono comunque parte del contesto sociale Se un’opera d’arte fosse considerata un testo poetico che, invece d’esprimersi in parola come succede con la poesia scritta, s’esprima in figura, credo che i quesiti posti qui risulterebbe oziosi. La storia dell’arte, specie in Italia, è storia di lingua; quasi mai di pensiero. Se si fosse spesa un po’ d’acribia nelle indagini sui contenuti (che sono ineluttabilmente esiti d’una disposizione ideologica), non sarebbe venuto in mente a nessuno di chiedersi se possa esistere «un’arte totalmente disimpegnata e fuori dal contesto sociale». La critica dell’arte contemporanea, dovendo chiosare soprattutto idee, può insegnare che, senza una riflessione sui pensieri sottesi alle creazioni, quasi non c’è spazio per l’esegesi. Faccio un esempio. A Firenze sono ora esposte alcune invenzioni di Ai Weiwei. Chi mai potrebbe sospettare che i gommoni dei migranti messi a incorniciare le finestre di Palazzo Strozzi siano avulsi dal «contesto sociale»? S’obietterà che il contemporaneo è un caso a sé. L’arte però è sempre stata contemporanea, come in inglese recitava un neon azzurro di Maurizio Nannucci, che non a caso volli brillasse di notte, alla stregua d’un monito, sulla serliana degli Uffizi. Quel che vale per i tempi nostri vale anche per il passato. Porto un altro esempio. La «Madonna delle arpie», dipinta nel 1517 da Andrea del Sarto, ha le sembianze di una soave «sacra conversazione»: la Madre dolcemente pensosa, il Figlio che le si stringe al collo, e poi san Francesco e san Giovanni che le fanno amabilmente contorno. Figurazione che parrebbe buona per un «santino» da lasciare sulle panche per la recita del rosario. E invece, come denunciano le «arpie/cavallette» e il fumo che sale in volute bambagiose, si tratta di un’illustrazione del nono capitolo dell’Apocalisse, effigiata proprio nell’anno in cui la Chiesa fiorentina proibiva la predicazione apocalittica, che troppo affliggeva la città. Era l’anno in cui s’attendeva la venuta dell’Anticristo; lo stesso anno delle tesi di Lutero. La «Madonna delle arpie», allora, da «santino» diventa manifesto d’una religiosità di frontiera. Non conosco arte (che sia arte) fuori dal suo «contesto sociale».
Antonio Nataligià direttore degli Uffizi, Firenze, 2006-15

Ma l’«activist art» può davvero cambiare il mondo?Fondamentalmente la politica è il luogo della relazione, è la piazza, è lo spazio pubblico.Tra le varie forme che gli esseri umani hanno elaborato per parlarsi, c’è quello che dal Settecento nella cultura europea chiamiamo «arte», cioè una forma di filosofia empirica in cui si riflette sulla percezione e su come questa si trasformi in conoscenza attraverso tecniche, mezzi e materiali diversi all’interno degli specifici contesti sociali in cui emerge. L’arte è quindi politica per sua natura, perché è spazio di relazione. La questione che ci si pone oggi, però, è se esistano opere d’arte con uno specifico potenziale di agire nel mondo, cioè se esistano opere attiviste («activist art») o se anche le opere più esplicitamente impegnate siano invece incapaci di cambiare il mondo, nonostante il loro intento. La tecnologia digitale e la globalizzazione ci fanno assistere a catastrofi su catastrofi, comunicate con immediatezza agghiacciante, e si ha la sensazione che il tempo della riflessione, il tempo dell’arte, sia fuori gioco. In realtà, credo che il potenziale di cura che l’arte offre di fronte al trauma non sia mai stato più forte, anche se potrebbe sembrare il contrario. Mente cadevano le bombe, Morandi dipingeva bottiglie, e Matisse usava colori che, nella loro capacità di attivare la visione e la mente, parlavano di vita e di vitalità. Lo scopo fondamentale della politica non può essere altro che l’incremento della vita, della vitalità e della gioia nel mondo. A volte la politica non lo ottiene, l’arte sempre.
Carolyn Christov-Bakargiev direttrice Gam Torino e Castello di Rivoli
 

Massimo Firpo, 10 gennaio 2017 | © Riproduzione riservata

L'arte è apolitica? Un'idiozia | Massimo Firpo

L'arte è apolitica? Un'idiozia | Massimo Firpo