Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Le materie sono le più diverse: carta, foglie, pareti bianche, porcellana, vetro, ghiaccio, cera, metallo, perfino sapone. Identico, invece, il processo con il quale, da queste materie eterogenee, Elisabetta Di Maggio (Milano, 1964; vive e lavora a Venezia) ricava le sue «trine», che sono in realtà circuiti, griglie, mappe. Forme dall’apparenza preziosa ma concepite in realtà per evocare ed esplorare le reti che alimentano ogni forma di comunicazione: biologica, sociale e urbanistica. Identico è anche lo strumento, un affilatissimo bisturi con cui l’artista intaglia i diversi supporti, mettendo in evidenza l’«anatomia» segreta sottesa alla loro apparenza, come negli «scorticati» modellati dagli antichi ceroplasti, che portavano alla luce il sistema dei vasi sanguigni.
Così accade nelle foglie di Di Maggio, incise meticolosamente mettendo a nudo i canali in cui scorre la linfa e trasformate in reti trasparenti, che conservano però evidente la traccia di ciò che erano state prima. Come sostiene lei stessa, «i fili delicati del mondo vegetale e i circuiti del corpo umano evocano relazioni, ricordando le intricate reti della comunicazione umana, quando si parla di circuiti o di reticoli, pensiamo, ad esempio, alla struttura complessa dei vasi linfatici delle foglie, al reticolato disegnato sull’epidermide umana, oppure ai tracciati delle metropolitane, o alla complicatissima sagoma di una cellula nervosa: se osservati da vicino, questi elementi apparentemente lontani rivelano numerose assonanze. Tutta la mia ricerca è una riflessione metaforica sulla nostra esistenza come parti di un tutto».
A sei anni dalla sua prima mostra qui, Elisabetta Di Maggio torna, sino al 31 maggio, da Christian Stein, a Milano, con un nuovo progetto, «Punto improprio», stimolato dalle grandi finestre della galleria affacciate sul giardino nel cuore di Milano. È proprio per intercettare la loro luce che l’artista ha realizzato, su una rete di fibra di vetro, una sorta di grandioso «arazzo» (oltre 4 metri per 6) fatto di frammenti di cristallo che si accendono al riverbero della luce esterna. Questo di vetro; di cera invece i mosaici di «Cosmographiae #02», 2025, sei tondi realizzati con garza medica tesa sui telai circolari per il ricamo a piccolo punto, una tecnica che da sempre affascina Elisabetta Di Maggio per i suoi disegni schematici e naturalistici insieme: i suoi sono mappe? Mondi in formazione? Non lo sappiamo, sebbene il titolo (dalla Cosmographia di Tolomeo) offra indizi per decifrarli.
«Annunciazione #02», ancora in fieri mentre scriviamo, è formata invece da grandi ali che scaturiscono dal muro. Fatte di sottilissimo rame ossidato («verdi come spesso erano le ali degli angeli medievali e rinascimentali», suggerisce l’artista), queste forme trasparenti mimano, con il loro materiale alchemico, le nervature perfette delle ali ialine delle libellule. In mostra tornano poi le foglie disidratate e incise con il bisturi, come galleggianti su un fondo di carta su cui proiettano la loro ombra, e tornano i «Vuoti d’aria» (qui il «#08» del 2024, ideato e realizzato per questa mostra), in cui un tralcio di foglie, anch’esse traforate con il bisturi e poste dentro una piccola teca, s’intreccia con i fili di rame che lo tengono in precario equilibrio: «Una riflessione, commenta l’artista, sulla difficoltà e sulla fatica di trovare una centratura nella relazione col mondo».

Veduta della mostra «Elisabetta Di Maggio. Punto improprio» alla Galleria Christian Stein, Milano, con «Punto improprio», 2025; «Annunciazione #02», 2025; «Senza titolo», 2024; «Senza titolo», 2025. Courtesy Galleria Christian Stein, Milano. Foto: Agostino Osio