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«L’Era Dei Giganti» (2023) di Alessandro Sambini

Cortesia dell’artista e della Galleria Michela Rizzo

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«L’Era Dei Giganti» (2023) di Alessandro Sambini

Cortesia dell’artista e della Galleria Michela Rizzo

Le nuove leve della fotografia in Italia

Insieme a Francesco Jodice scopriamo come gli autori nati durante e dopo gli anni Ottanta sono riusciti a creare un sistema a sé, con spazi, fiere, linee editoriali, mostre e premi ad hoc

Chiara Massimello

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Chi ama e conosce la fotografia potrebbe raccontarla semplicemente per immagini impresse nella memoria e trasformate dal tempo in icone. In Italia, sarebbe una narrazione per lungo tempo in bianco e nero; va a Luigi Ghirri il merito di aver creato un ponte tra quell’immaginario e il colore. Nel mio schedario personale, alla fine degli anni ’90, un giovane artista, Francesco Jodice (1967), inaugura un nuovo «racconto» per la nostra fotografia, con immagini che parlano di paesaggio urbano, antropologia e contemporaneità. Partecipa a documenta Kassel, alle Biennali di Venezia, San Paolo, Yinchuandi, Liverpool e alla Triennale dell’International Center of Photography di New York; espone alla Tate Modern (Londra) e al Prado (Madrid); conquista internazionalità e rispetto con i suoi progetti, interpretando un nuovo modo di vivere e pensare la fotografia.

Oggi, vent’anni dopo, accade nuovamente qualcosa: una giovane generazione di fotografi, italiani di nascita o di adozione, sperimenta, indaga e scava il presente con tematiche diverse, grande curiosità, preparazione e voglia di lasciarsi contaminare dalle nuove tecnologie. «La mia impressione, spiega Francesco Jodice, punto di riferimento per molti giovani artisti, è che la scena della Nuova Fotografia Italiana sia di fatto un corpo solidale, con una struttura e un’identità cristalline pur nell’eterogeneità caleidoscopica delle ricerche individuali. La prima generazione post Ghirri è rimasta schiacciata dalla rappresentazione fantastica del paesaggio italiano dalla quale non è riuscita ad affrancarsi, mentre le generazioni nate durante e dopo gli anni Ottanta hanno rifiutato quella tradizione e reimpostato il linguaggio con autorevolezza. 

Ma che cosa è accaduto in concreto? Prima di tutto hanno messo sotto verifica il dispositivo fotografico in quanto congegno che serve a una determinata funzione e narrazione. Hanno quindi prima ibridato il medium fotografico con gli altri codici dell’arte quali la pittura, la performance, la scrittura e il video dando vita a forme installative promiscue, e poi hanno incrociato il tutto con le nuove tecnologie, non ultime il gaming e l’Intelligenza Artificiale. In seguito, hanno messo in discussione l’apparato culturale: a che cosa servono le fotografie? Quali sono i suoi limiti narrativi e i confini tematici? In questo modo hanno allargato enormemente la latitudine delle trattazioni, spesso confondendo felicemente temi escatologici con una dimensione intima e privata. Infine, riscontrando un generale disinteresse del sistema dell’arte nei loro confronti ne hanno inventato uno proprio. 

Ne sono prova l’incredibile proliferazione di nuove case editrici nate sulla scorta della cultura del self publishing e poi diventate esse stesse delle realtà editoriali di primo piano; la germinazione di nuovi premi (museali, privati o ministeriali) divenuti un osservatorio sulla Nuova Fotografia Italiana; infine, e cosa di gran lunga più illuminante, l’accumulo di tutte queste strategie e culture alternative appena descritte ha generato un nuovo pubblico di età giovane che si alimenta di questo fenomeno in modo così intenso da erigerlo a scuola e fare in modo che un’ulteriore nuova generazione di giovanissimi stia apprendendo e si formi dentro questo sistema e non già nelle accademie, rendendo la rete della Nuova Fotografia Italiana una sorta di sistema autopoietico. Sarebbe tempo che un’importante istituzione italiana, magari non fotografica, ma genericamente dedita all’arte contemporanea, si regalasse l’opportunità di mettere a sistema e dare evidenza a questa stagione straordinaria. Autori quali Alessandro Sambini, Moira Ricci, Ilaria Turba, The Cool Couple, Irene Fenara, Teresa Giannico, solo per fare pochi nomi emblematici tra i tanti validissimi, sono artisti e intellettuali capaci di metterci di fronte a un modificato paesaggio culturale».

A questi nomi ne abbiamo aggiunti alcuni nell’intento di creare un gruppo omogeneo, nonostante le diverse esperienze dovute anche a una diversa maturità anagrafica, consapevoli di averne esclusi molti per esigenze di spazio. Un discorso a parte poi, meriterebbe quel gruppo di artisti, come Jacopo Benassi, Marinella Senatore, Elisa Gradina Papa, Eva e Franco Mattes, Salvatore Vitale, Yuri Ancarani e Christian Chironi, che opera nel mondo dell’immagine, ma con un’estensione verso il mondo del digitale, del video e della performance.

Alessandro Sambini

Classe 1982. Esplora esigenze e modalità che regolano la produzione di nuove immagini, la loro circolazione e diffusione e i diversi ambiti di relazione tra l’immagine e il pubblico. Nel contesto delle nuove grammatiche narrative deistico-psichedeliche attivate da strumenti quali la realtà virtuale o l’Intelligenza Artificiale, si interessa all’applicazione di metodologie mutuate dal mondo algoritmico, cercando di trattarle non come semplici strumenti, ma come maestri silenti (si veda «Human Image Recognition», progetto cominciato nel 2019).

«I do smell war» (2023) di Fatma Bucak. Cortesia dell’artista e della Galleria Simóndi

Fatma Bucak

Classe 1984. Vive e lavora tra l’Italia, Londra e Istanbul. Le sue opere affrontano una pluralità di tematiche attraverso fotografia, performance, suono e installazione video. I temi dell’identità politica, della memoria storica e di genere sono fondamentali per la sua ricerca, mentre nei lavori recenti si concentra sull’intersezione tra potere politico e cambiamento climatico. Nominata una delle «cento eroine» della Royal Photographic Society, quest’anno è tra i borsisti dell’American Academy di Roma.

«“Untitled 2,” dalla serie “Hierarchy of Genres”» (2021) di Alessandro Calabrese. Cortesia dell’artista e di Viasaterna

Alessandro Calabrese

Classe 1983. Vive e lavora a Milano. La sua ricerca affonda le radici nello studio dell’architettura e nella storia della fotografia di paesaggio, ma progressivamente nei suoi progetti si è palesata una riflessione sulla fotografia stessa, scevra da ogni intenzione narrativa e figurativa, alla ricerca della creazione di nuovi immaginari. Nel suo lavoro somma, giustappone e mescola le immagini da cui siamo circondati ogni giorno. Dal 2015 è docente all’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo. 

«A Long Term Friendship» di Adji Dieye. © ar/ge kunst. Foto: Tiberio Sorvillo, 2022. Cortesia dell’artista e di Una Gallery

Adji Dieye

Classe 1991. Vive e lavora fra Milano e Dakar. Con le sue opere, spinge i confini della fotografia nel tentativo di indagare gli archetipi della cultura visiva africana. Con particolare attenzione ai materiali d’archivio, all’architettura e alla pubblicità, Adji Dieye si interroga sul rapporto tra la nostra comprensione ontologica e i paradossi insiti nella creazione di un immaginario nazionale di progresso. Il suo lavoro è stato presentato al Fotomuseum Winthertur (2023), alla Fondation H (2023), al C/O Berlin (2021) e al Foam Museum (2020).

«Supervision» (2024) di Irene Fenara. Cortesia dell’artista e Zero..., Milano

Irene Fenara

Classe 1990. Nel suo lavoro indaga l’atto del guardare, la base di ogni operazione fotografica. In particolare osserva, investiga e interpreta il modo in cui guardano le macchine. Si concentra sulle telecamere di sorveglianza, dispositivi introdotti e diffusi per ragioni di controllo e sicurezza, ovvero per proteggerci dagli altri, che tuttavia innescano a loro volta una serie di insicurezze. Le immagini spesso non sono chiare, come i nostri occhi (ri)vedono e trasformano la realtà, catapultandoci in un universo alternativo e misterioso. 

«Grace» (2023) di Teresa Giannico. Cortesia dell’artista e di Viasaterna

Teresa Giannico

Classe 1985. Si muove tra spazio, scultura e fotografia. Affermando l’incapacità del mezzo fotografico di rappresentare la realtà, il suo processo creativo prevede la creazione di un archivio digitale frutto del download nel tempo di centinaia di foto trovate su vari motori di ricerca. Da queste estrae e assembla frammenti per creare luoghi e persone immaginari, attraverso una tecnica che avvicina pittura, fotografia e collage. Una riflessione sul ruolo della fotografia e sulle implicazioni che il web ha sulla nostra percezione del mondo. 

«Cold as you are (Pub in London)» (2022) di Rebecca Moccia. Cortesia dell’artista e di Mazzoleni, London - Torino

Rebecca Moccia

Classe 1992. Vive e lavora a Milano. Nella sua pratica transdisciplinare esplora la materialità degli stati percettivi ed emotivi che possono scaturire da determinate caratteristiche dello spazio fisico e sociale. Definisce il suo lavoro «la creazione di atmosfere, che circondano i corpi, li attraversano e interagiscono con essi». È interessata a creare situazioni che si collocano in contesti socioculturali e psicofisici specifici, lavorando anche con elementi temporali ed effimeri, spesso con installazioni context specific.

«The Storyteller» (2019) dalla serie «Diachronicles» di Giulia Parlato

Giulia Parlato

Classe 1993. Vive a Londra. È da sempre interessata al potere immaginifico del passato, la cultura materiale e i diversi linguaggi utilizzati dalla fotografia documentaria nel tempo. Lo stato malinconico e frustrante, causato dell’impossibilità umana di comprendere la storia, costituisce il fondamento del suo lavoro. Utilizza la fotografia in modi diversi, che le consentono di stare con le immagini e tra le immagini in maniera complementare e varia. È inoltre una «high end retoucher», e passa molto tempo anche con la fotografia di moda. 

«Da buio a buio (Bambina cinghiale)» (2009) di Moira Ricci. Cortesia di Elisa Santini

Moira Ricci

Classe 1977. Spesso autobiografico, il suo lavoro sonda l’identità individuale e sociale, la storia familiare, la casa e i legami con il territorio attraverso l’uso di fotografia, video e installazione. Per lei la fotografia è il mezzo più immediato per archiviare ciò che attrae il nostro sguardo. «Una fotografia ci ancora a un tempo passato dandoci anche la possibilità di riflettere sull’immagine nella sua interezza. È anche uno dei tanti mezzi che ti permette di creare, elaborare e fantasticare la realtà», spiega.

Veduta dell’installazione di Silvia Rosi al Jerwood Arts, Londra. Con il supporto di Jerwood/Photoworks. © Anna Arca

Silvia Rosi

Classe 1992. Vive e lavora tra Londra e Lomé, in Togo. Finalista al MaXXI Bulgari Prize nel 2022, continua la sua ricerca sul tema dell’identità personale, con uno sguardo inedito sulle tematiche legate alla decolonizzazione ispirato alla fotografia classica di studio dell’Africa Occidentale. A fine aprile inaugurerà una personale nella Collezione Maramotti di Reggio Emilia. I suoi lavori saranno anche al Brooklyn Museum a New York.

«The Cute and the Useful, Untitled» (2022) di The Cool Couple. Cortesia degli artisti e di Mlz Art Dep

The Cool Couple

È un duo di base a Milano, fondato nel 2012 da Niccolò Benetton (1986) e Simone Santilli (1987). Fare fotografia per loro significa fare ricerca sui contenuti e sul linguaggio, accogliendo le contaminazioni e le aperture, ma soprattutto osservando con attenzione quello che accade tutti i giorni nella loro incessante relazione con le immagini. Fotografare, nel senso più comune del termine, è solo una parte della loro pratica. Stanno lavorando a due progetti inediti tra due realtà artistiche svizzere: MBAL-Musée des Beaux-Arts di Le Locle e Monte Verità ad Ascona.

«Le désir de regarder loin - Collectif Jeunes de la Busserine, Marsiglia» (2019) di Ilaria Turba. © Ilaria Turba

Ilaria Turba

Classe 1978. Costruisce progetti di arte partecipata e relazionale coinvolgendo persone, comunità e gruppi in territori specifici, intrecciando tra loro varie discipline (arti performative, storia orale, scienze sociali). La fotografia è sempre presente nei suoi progetti come veicolo per creare e definire immaginari collettivi, come oggetto di scambio, relazione e riflessione, come forma di documentazione del processo di ricerca artistica. Si sono appena concluse «Sogni», all’Accademia dei bambini di Fondazione Prada, e «Che Lotteria!», nell’ambito del Mufoco20FEST.

«Vis Montium (Parmesan)» (2019) di Jacopo Valentini. Cortesia dell’artista e di Galleria Antonio Verolino / Modena

Jacopo Valentini

Classe 1990. Vive e lavora tra Modena e Milano. Attraverso la fotografia riflette su tematiche legate al paesaggio e sul dislocamento territoriale all’interno dell’immaginario comune. Nel suo lavoro la messa in scena cambia da progetto a progetto e da spazio a spazio: «È importante non ripetersi mai e cercare di dare nuove percezioni delle ricerche, per esempio tramite la progettazione di allestimenti e display sempre proiettati all’evoluzione», spiega. In autunno si inaugurerà un’esposizione presso il Museo Archeologico della Fondazione Oderzo Cultura.

«Selfportrait in Arin#1» di Lorenzo Vitturi. © Lorenzo Vitturi. Cortesia di T293 gallery

Lorenzo Vitturi

Classe 1980. Vive tra Venezia e Londra. Il suo lavoro è basato su interventi site specific sempre in equilibrio tra fotografia, scultura e performance. Concepisce la fotografia come uno spazio in trasformazione in cui le differenti discipline si fondono per rappresentare una realtà nuova e articolata. Sta lavorando al progetto «Caminantes» che esplora origini, incontri culturali e formazione dell’identità, prendendo come punto di partenza la storia della sua famiglia. Espone nella personale «Metamorphosis» a Mumbai (India) e nella collettiva «Glass Stress 2024» a Venezia.

Chiara Massimello, 13 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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