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Éric de Chassey
Leggi i suoi articoliLo scorso mese una mia cronaca su casi recenti di censura di opere d’arte in spazi pubblici a causa di un’iconografia antisemita è stata essa stessa vittima di una sorta di censura.
Avevo scritto che l’immaginario dell’opera «Giustizia del popolo» di Taring Padi, esposta a Documenta 15 a Kassel e subito ritirata, faceva riferimento a «stereotipi utilizzati nelle feroci campagne antisemite condotte incessantemente a partire dagli anni Cinquanta del Novecento dai regimi dittatoriali di numerosi Paesi arabi e musulmani». Una correttrice di bozze ha pensato bene di modificare l’ultima parte della frase con un impreciso «da diversi regimi dittatoriali», senza ritenere necessario confrontarsi con me.
È vero, avrei dovuto precisare che quell’immaginario, da me ricondotto alla propaganda nazista, non era appannaggio unicamente dei «regimi dittatoriali di numerosi Paesi arabi e musulmani», ma che tra gli anni Sessanta e Settanta era stato anche recuperato dalle caricature della stampa sovietica, epoca in cui quest’ultima portava avanti una losca battaglia: l’antisionismo serviva allora da copertura a un antisemitismo che condannava al carcere o rinchiudeva in presunti ospedali psichiatrici numerosi dissidenti ebrei.
Non credo però che la modifica del mio testo possa giustificarsi con quell’imprecisione, dovuta non già a una dimenticanza ma all’esigenza di rispettare un numero limitato di caratteri. Mi sembra piuttosto che la modifica sia passata come una forma di autocensura per paura che la pura enunciazione dei fatti potesse prestarsi a un’interpretazione stigmatizzante, nello specifico islamofoba. Va da sé che non era questa la mia intenzione.
Si trattava semplicemente di puntualizzare qualche cosa che seppur spiacevole rimaneva un fatto. Si spiega così, almeno in parte, il motivo per cui il collettivo indonesiano autore dell’opera selezionata per Documenta non avesse pienamente percepito la portata di quella iconografia antisemita, tanto essa risultava naturale al loro sguardo nutrito da quel tipo di propaganda.
Autocensure volontarie o inconsce
Bisogna sempre pensare che in ossequio al buonismo corriamo il rischio di distorcere il reale e i suoi effetti, riducendo la complessità del mondo a opposizioni binarie tra Bene e Male, ovvero proprio ciò che le opere d’arte evitano, o rifiutano. Da qualche tempo a questa parte non mancano autocensure volontarie o inconsapevoli, in tutti i campi artistici.
Nel campo delle arti visive questa dialettica ha causato la cancellazione o lo slittamento di alcune mostre (come quella di Philippe Guston alla Tate, spostata al 2024) così come il proliferare di opere caratterizzate da una binarietà moralizzante talmente accettata che ci si ferma all’identità dell’autore o dell’autrice per sapere se le sue opere possono essere degne d’interesse, senza prendere in considerazione che cosa esse mostrino realmente.
Nell’ambito dello spettacolo le autocensure si manifestano con una marcata tendenza a rivisitare le grandi opere del repertorio antico o classico espurgandole tanto letteralmente quanto per mezzo di una messa in scena che trasforma le questioni sovente contraddittorie e aperte di cui sono portatrici (originariamente o per lo stratificarsi d’interpretazioni elaborate nel corso del tempo) in opposizioni semplificate, aderenti a quelle messe in circolazione nello spazio mediatico globale (dove, va detto, l’antisemitismo e l’anti islamismo vanno per la maggiore, quantunque velatamente).
Sussistono allora due pericoli paralleli da cui dovremmo guardarci. Da un lato, la tendenza a credere che tutto sia opinabile mentre in ogni singola opera d’arte esiste una fattualità per così dire tangibile e verificabile (la materialità di una pittura, per esempio, o la letterarietà di un testo).
Dall’altro lato, il dimenticare che tra tutte le modalità di comunicazione le opere d’arte si distinguono per la loro capacità di porre domande più che di fornire risposte (il che fa sì che, a volte, a dispetto delle intenzioni dichiarate del loro creatore o patrocinatore, esse possano toccarci in condizioni molto diverse da quelle che le hanno viste nascere).
Traduzione di Mariaelena Floriani

«Giustizia del popolo» di Taring Padi, esposta a documenta fifteen e subito coperta