«Carnaval, Tlaxcala» (1974) di Graciela Iturbide (particolare)

Cortesia di una collezione privata. © Graciela Iturbide

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«Carnaval, Tlaxcala» (1974) di Graciela Iturbide (particolare)

Cortesia di una collezione privata. © Graciela Iturbide

L’immaginario di Iturbide alla Photographers’ Gallery

Una mostra chiave per entrare nella complessità del Messico, luogo «istintivamente surrealista», nonché paese d’origine della fotografa

Dal 14 giugno al 22 settembre la Photographers’ Gallery presenta una grande mostra dedicata alla ricerca di una delle più importanti e influenti fotografe latino-americane, Graciela Iturbide (Città del Messico, 1942). Quello dell’autrice messicana è un immaginario affascinante quanto stratificato, che coniuga un approccio documentario rigoroso e mai superficiale con una grande libertà nel processo di costruzione delle immagini. Fotografie dal sapore magico e spesso surreale (non a caso Iturbide si è formata accanto a Manuel Álvarez Bravo, di cui è stata anche assistente), che vengono definite dall’artista stessa come «astrazioni della mente». L’esposizione presenta alcune delle sue serie più iconiche, che esplorano tematiche legate all’identità e al senso di appartenenza culturale, e vogliono essere dei passepartout per cercare di comprendere la totalità e la complessità del suo Paese d’origine, il Messico (definito da André Breton come un luogo «istintivamente surrealista»). 

Durante la sua lunga carriera, l’artista ha lavorato e vissuto a stretto contatto con alcune delle popolazioni indigene della zona, documentandone la cultura e la quotidianità con attenzione e sensibilità. «Vivevo con loro nelle loro case, racconta Graciela Iturbide, così potevano vedermi sempre con la mia macchina fotografica e sapere che ero una fotografa. In questo modo, siamo riusciti a instaurare un clima di complicità». Tra i lavori esposti a Londra, «Juchitán de las Mujeres», realizzato tra il 1979 e il 1989, che costituisce un’immersione nella società matriarcale degli Zapotechi del Tehuantepec, nel sud-est del Messico e che racconta di tutti gli aspetti della loro vita sociale, dall’economia ai rituali religiosi. 

Tra gli altri soggetti della sua instancabile e approfondita narrazione del mondo latinoamericano, ci sono anche il popolo Seri, gruppo di pescatori nomadi del deserto di Sonora, nel nord-ovest del Messico, e le cholo gangs messicano-americane di Los Angeles e Tijuana. «Graciela Iturbide: Shadowlines», curata da Alexis Fabry in collaborazione con Anna Dannemann, traccia l’evoluzione dell’universo visivo dell’autrice, caratterizzato da un potente utilizzo del bianco e nero che conferisce alle sue fotografie un intenso impatto visivo e una buona dose di fascino. Seguendo il percorso espositivo, diventa evidente il progressivo abbandono dell’interesse per la figura umana a favore di materiali, texture e soggetti naturali tra cui paesaggi vuoti e cactus. Nonostante questo cambiamento, un elemento rimane sempre costante: l’attenzione e l’interesse per la luce e per le ombre. Per l’artista, che ha come ideale punto di riferimento anche Henri Cartier-Bresson, la fotografia è infatti uno strumento poetico di introspezione: «La fotografia non smette mai di sorprendermi, afferma Iturbide, continua a darmi una ragione per apprendere sempre qualcosa sul mondo e su me stessa». 

«Giardino botanico di Oaxaca, Messico» (1998-99) di Graciela Iturbide. Foto © Graciela Iturbide

Bianca Cavuti, 27 giugno 2024 | © Riproduzione riservata

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