Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliNel 1997 Georges Didi-Huberman curò per il Centre Pompidou di Parigi una mostra, «L’Empreinte» (l’impronta), dedicata a una voce fondamentale nel dizionario della storia dell’arte e delle sue forme, dalla preistoria alla contemporaneità. Oggi, molto probabilmente, in una mostra su quel tema nessuno avrebbe scordato di includere un artista come Toti Scialoja (Roma, 1914-98), per il quale quella tipologia, a un dato punto della sua vicenda, fu risolutiva. Forse, nel ’97 la dimenticanza o la disattenzione nei suoi confronti erano giunte al punto di causare il più clamoroso degli autogol: una mostra dal taglio culturale tipicamente francese escludeva un artista assai sensibile alla poetica di Alain Robbe-Grillet e al pensiero di Maurice Merleau-Ponty, quest’ultimo amato maestro di un artista che, per sua stessa ammissione, considerava un privilegio avere sempre avuto necessità di maestri. A Merleau-Ponty, tra i maggiori teorici dell’Esistenzialismo e del quale il pittore romano seguiva le lezioni durante il soggiorno parigino del 1961 (si era autofinanziato vendendo un dipinto dell’ancora più amato Morandi), non a caso Giuseppe Appella affida la citazione in esergo al suo saggio introduttivo al Catalogo generale dei dipinti e delle sculture, 1940-1998 di Toti Scialoja (edito da Silvana Editoriale e realizzato dalla Fondazione romana intitolata all'artista): «L’espressione di quel che esiste è un compito infinito».
Come lo stesso Appella sottolineava nel suo libro Maestri, amici. Arte e artisti del Novecento (edito sempre da Silvana nel 2023), ci sono volute l’antologica alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1991 e, nel 1999, «la bella mostra di Verona (alla Galleria dello Scudo, Ndr) incentrata sulle opere tra il 1955 e il 1963» per riportare in primo piano un artista la cui intera vita fu «di difficoltà e di rinunce, di ripensamenti e di mortificazioni, di fatti dolorosi, di oscuri sensi tragici, di solitudine, nonostante le belle amicizie dei poeti e il conforto dei suoi allievi diventati più famosi di lui proprio per quell’ossessione dell’arte a loro trasmessa. Poi, dieci anni prima della sua scomparsa, le risposte del mercato, alcune mostre importanti, l’interesse degli editori per le sue poesie, per il suo diario, e le prime monografie».
2.764 le opere ora catalogate, l’ultima delle quali datata al 1998: un percorso che inizia nell’ambito dell’Espressionismo praticato dalla Scuola Romana ma che già nel ’54 procede con l’abbandono della figurazione. «Una sorta di rinascita», una riscoperta della «tradizione contemporanea attraverso la rigorosa grammatica ritmica del Cubismo analitico», annota l’artista a proposito dei dipinti eseguiti in quell’anno, culminante con un capolavoro, «Asfalto notturno». Da allora in poi le stagioni di Scialoja saranno scandite dalle indagini sulle potenzialità del linguaggio aniconico, laddove, se la nota dominante è quella della gestualità e del materismo d’ispirazione espressionista-astratta, non mancheranno le incursioni nelle composizioni geometrizzanti e «minimaliste» tra la fine degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo.
Il curatore di questo imponente volume cui ha collaborato Onofrio Nuzzolese (763 pp., ill. a colori e in bianco e nero, € 220,00), tuttavia, al di là dei «grandi numeri» di una produzione fatta anche di infinite varianti, offre negli apparati biografici e critici una ricostruzione straordinariamente dettagliata di una personalità poliedrica e complessa, perché, spiega Appella, «se c’è un pittore, nella storia dell’arte italiana di questi ultimi cinquant’anni, che si affida a una rete di pensieri, un pittore sulla scia della tradizione rinascimentale, quindi pensatore, moralista, poeta, questi è Scialoja. Anzi, tra gli artisti della sua generazione, è l’unico ad avere fatto della deduzione critica un mezzo di creatività».
Un pittore che nasce come poeta e critico, che dal 1942 si apre anche «alla scultura, come scenografo e costumista, in quella forma complessa di manifestazione artistica che è lo spettacolo teatrale nel quale poesia, musica, architettura e scultura concorrono fraternamente», è anche uno dei protagonisti di un’epoca spaziante dai giganti della Scuola di New York (la città che esplora già nel 1956, entrando in contatto con Rothko, de Kooning, Kline, Motherwell, Marca-Relli, nei quali Scialoja riconobbe subito i discendenti di Arshile Gorky), all’autunno di ciò che rimaneva dell’École de Paris, in una città dove saranno per lui più importanti i pensatori rispetto agli artisti. Nelle fittissime 200 e più pagine dedicate alla biografia di Scialoja, Appella lo colloca nel cuore dell’arte, della poesia e della letteratura italiana, in dialogo con Libero de Libero, Leoncillo Montale, Gadda, Burri, Pasolini, Calvino, Manganelli, Arbasino.
Documento fondamentale resta il Giornale di pittura, il diario dell’artista dal 1942 al 1962 (ripubblicato da Quodlibet), ma altrettanto preziosa si rivela l’amicizia intercorsa tra l’artista e Appella, il più autorevole «lettore» della sua pittura. E finalmente Scialoja non è più «soltanto» il professore di Kounellis, Pascali e Giosetta Fioroni all’Accademia di Roma, ma un irriducibile e implacabile (soprattutto con sé stesso) interprete dei destini della pittura, di certa pittura, nei decenni in cui questa veniva progressivamente esiliata dalle neoavanguardie pop e concettuali. L’impronta, la «pittura a tampone» risalta dunque come il momento del raggiunto equilibrio tra il «calore» della (parziale) casualità e la presa di distanza rispetto al dato puramente emozionale. Impronta come traccia iterata, registrazione e «documento» della pittura nel suo «farsi» e nel suo «esistere» come esperienza (temi centrali anche per un altro artista molto vicino ad Appella, Guido Strazza, del quale ha curato per Allemandi il catalogo dell’opera incisa) è il frutto del dipingere stampando, laddove «l’immagine, scrive l’artista, viene trasmessa tutta insieme e tutta nello stesso momento (…). Stampare è come riprodurre dal di dentro una luce di lampo che illumina tutte insieme le cose dell’immagine».
È all’insegna di questo equilibrio, ma anche dell’irrevocabilità del gesto che imprime (e che sostituisce, per un lungo periodo, la «ginnastica» manierista della pennellata, così come il tampone intriso di colore elimina il pennello), che può essere individuato un elemento del rigore su cui Scialoja ha basato la sua ricerca. Tutto ciò risalta anche nella sua produzione poetica, convinto com’era che «il verso libero è prosa e il verso non deve essere libero, ma coatto»; la metrica (in pittura, il rigore e il controllo compositivo) è allora lo schema e la regola in cui con maggior forza ed efficacia possa esprimersi la libertà.
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