Durante la conferenza stampa di «Io sono Leonor Fini», aperta a Palazzo Reale di Milano (fino al prossimo 22 giugno, prodotta da Palazzo Reale e MondoMostre, con il supporto dell’Estate di Leonor Fini), il curatore Carlos Martíns ha indugiato molto sull’aspetto di una ideale dichiarazione di identità che presupporrebbe anche una successiva interrogazione, rivolta allo spettatore: «Io sono Leonor Fini, e tu chi sei?». E non sarebbe mica facile competere sul piano della personalità con la «Guardiana dei Misteri», come la definisce nel titolo del suo saggio, inserito nel catalogo edito da Moebius, l’altra curatrice della mostra, Tere Arcq. D’altronde, lei, Leonor Fini, non ha bisogno di molte presentazioni, visto che ogni aggettivo potrebbe avere una propria validità nell’assecondare un contesto della vita e della produzione artistica di una delle personalità più brillanti e, contemporaneamente, oscure, del secolo scorso.
Nata nel 1907 a Buenos Aires da padre italo-spagnolo, apolide, e mamma italiana, Eleonora Elena Maria Fini cresce a Trieste «con un’educazione principalmente impartita da donne: una giovane madre, bella e infantile, e quattro nonne, una vera, le altre in realtà prozie», come lei stessa racconta in un prezioso testo a sua volta raccolto in catalogo. Leonor, ben presto, si fa portabandiera di una libertà sconosciuta alle donne nella prima metà del secolo scorso, fatta di viaggi, incontri e di una sessualità fuori dai parametri borghesi, dove il ménage à trois (con il pittore surrealista Stanislao Lepri e lo scrittore e saggista Constantin Jeleski, ad esempio) era vissuto alla luce del sole, così come la volontà di non essere genitore, anche per attaccare la moralità dell’epoca.
Guardando all’opera e al personaggio di Leonor Fini, lo sguardo inquietante e la passione per l’estate, che le permetteva di «restare con il minor numero possibile di abiti addosso», come lei stessa dichiarava, sono racchiusi nel documentario «Il mondo di Leonor Fini», 1966, realizzato dalla Radio Televisione Svizzera e proiettato ora in mostra.
Insomma, in Leonor Fini non c'è assolutamente caratteristica che possa essere ricondotta ai paradigmi della «normalità», a partire da una pittura talmente libera e fuori dagli schemi che, oltre a strizzare seduttivamente l’occhio a Max Ernst, a Balthus, ai Preraffaelliti o a Brueghel, non apparterrà mai, se non attraverso saltuari inviti e collaborazioni, a nessuna corrente, movimento o gruppo di ogni sorta.

Una veduta della mostra «Io sono Leonor Fini» a Palazzo Reale, Milano. Cortesia Mondo Mostre
Arrivata a Milano a 18 anni per studiare con Achille Funi, ricordava l’artista: «Molto presto fui invitata a esporre con Novecento, un gruppo di ottimi pittori come De Chirico, Carrà, Sironi. Mi adottarono come una di loro, ma le lunghe e indispensabili sedute nei caffè, tutto il “teatro” degli artisti che si riunivano per cambiare il mondo mi stufarono quasi subito […] Fu Filippo De Pisis a dirmi: “Sei fatta per Parigi. Parigi è fatta per te”. Così andai a Parigi. Aveva ragione. Capii all’istante che quella era davvero la città per me». Nella ville lumiére avvengono gli incontri con Elsa Schiaparelli, con Jean Paul Sartre e Jean Genet, «che ha persino scritto un libricino su di me e sulla mia pittura, Lettre à Leonor Fini, in cui però parla soprattutto di sé».
L’autore di Pompe Funebri, romanzo pubblicato nel 1948, due anni dopo continuava infatti nel solco dell’attenzione alla morte e all’inquietudine dell’ombra, per tracciare una «ekphrasis» dell’opera di Leonor: «Il profumo maggiore che ho riconosciuto è quello della morte. La scelta dei colori, l’inquietudine delle scene, l’incontro di una conchiglia con uno specchio, le pieghe delle tende, le vostre maschere, tutto, nel vostro lavoro, testimonia di un intimo teatro macabro. L’epoca che vivete è il Rinascimento [...] illustrate un tema che, storicamente, si chiama Rinascimento Italiano. Lo sfarzo di quell’epoca è lo stesso della vostra opera, voluttuosa e cosparsa di arsenico. Le vostre dame distese nell’alcova, i loro ragazzi eleganti sono imprigionati, colpiti da una peste venuta dalla più alta antichità. Così, al termine ultimo del vostro lavoro, vi preoccupate del mondo reprobo dove il silenzio ha la potenza di una necessità estetica. Forse è lui che vi permetterà di raggiungere una sventura più terrena, più “umana”, più carnale. Se, fino a questi ultimi giorni, avete dato, con la più fine cera, una vita solenne, forse concederete la sventura e la vita alla più infima feccia».
Lirico e decadente, disperato e voluttuoso, Genet si perde tra i demoni e i fantasmi di Leonor seguendo il motto che Alfred Kubin (altro nome che si intravede in trasparenza nelle oscurità di Fini) a sua volta aveva rimarcato nella sua splendida e visionaria autobiografia: la fantasia è il destino. E la fantasia, evidentemente, non conosce il tempo: impressionante, il più delle volte, associare l’anno di produzione di un quadro alla sua rappresentazione; accade, per esempio, con «Donna in costume», modernissimo «ritratto» di una dama (la stessa Fini?) con una armatura a mo’ di corpetto, scollo décolleté vertiginoso, capigliatura «cotonata» quasi di piume corvine: 1938.
A «Il confine del mondo», 1948, si era ispirata Madonna per una scena del video della sua «Bedtime Stories», mentre «La lezione di botanica», olio su tela intriso di simbologia sessuale femminile sembra uscito dai giorni dell’Art Decó e, invece, è firmato nel 1974. Ancora: «La Cerimonia», proveniente dalla Collezione Ghisla di Locarno, dipinto zeppo di gatti e figure feline a inscenare una sorta di sabba rosso vermiglio, è datato 1960, in quell’epoca in cui tra Pop, Optical, Nuovo Realismo e agli albori del Concettuale, la pittura stava per essere relegata alla damnatio memoriae del contemporaneo. «È sempre molto difficile per me sapere quando un dipinto è finito. Succede quando non c’è più nulla da aggiungere, quando non so più nulla, quando so che non sarà perfetto. E cosa c’è dopo? Nell’opera successiva c’è spesso un’eco di una precedente con una composizione simile», spiegava, ancora, Leonor Fini.

Una veduta della mostra «Io sono Leonor Fini» a Palazzo Reale, Milano. Cortesia di Mondo Mostre
Eterodossa ed eccentrica, erotica ed eretica, l’universo notturno di Leonor Fini si svela a Palazzo Reale attraverso nove differenti sezioni.
Si parte da «Gli esordi di un mondo», dove già compaiono riferimenti al travestitismo e all’identità fluida (siamo nel 1932) con il ritratto di André Pieyre de Mandiargues con un uccello colorato poggiato sul proprio indice destro, e una strana «Maternità», 1933, proveniente dalla Galleria Minsky di Parigi, dove la genitrice è catturata con lo sguardo nel vuoto, le mani appoggiate al collo della figlia: il titolo originale, come riporta Tere Arcq, era «Femme étranglant son enfant».
«Il confine del mondo», che apre la scena alle opere concepite a cavallo della Seconda guerra mondiale, è invece una summa dell’attrazione di Fini per il macabro, il morboso, l’orrorifico che si svela nei dettagli cupi di alcune nature morte, come «La grande radice», 1952. La torre di San Lorenzo ad Anzio, vero e proprio laboratorio di Fini nei primi anni ’50, si mostra invece ne «La scala della Torre», ancora del ’52, dove torna il motivo del guscio d’uovo ma al quale si aggiunge un gallo vivo appeso a testa in giù, colto nell’attimo prima di un ineluttabile sacrificio. A quale divinità non ci è dato saperlo, anche se del 1960 è «Mefisto (Angelo-Diavolo)», dipinto congiuntamente con Lepri. A chiudere la sezione «Un intrattenimento, forse», 1995, dove di nuovo il voyeurismo del male torna a fare capolino come accadeva con la filicida di quasi cinquant’anni prima: qui, in controluce, due sagome umane sono mostrate nell’atto del delitto, sotto gli occhi di una donna di spalle collocata alla sinistra del dipinto.
Continuano nella divisione della mostra gli spazi della sessualità, dell’androginia e della visione del corpo maschile, gli archetipi del potere femminile che svelano bagnanti, amazzoni, sfingi, principesse, per arrivare al tema dei rituali e delle metamorfosi.
In realtà, verrebbe da dire, le suddivisioni, nonostante creino una migliore possibilità di fruizione, non contengono la linfa ammaliante e corrosiva di Leonor Fini, che si espande senza soluzione di continuità in ogni angolo: impossibile arginare, ascrivere, categorizzare la debordante poetica dell’artista; le date si confondono; i soggetti si intercambiano: conchiglie, ossa, sguardi vitrei e austeri, felini e creature dell’altrove si rincorrono e vivono indipendenti, carichi della loro storia e dell’inquietudine che sollevano tutte le esistenze non allineate, straordinarie nel bene o nel male.
Infine, ne la «Scena o Bouduoir», ultima sala di «Io sono Leonor Fini», tra i costumi e i bozzetti per Fellini per le opere di Mozart e Wagner e il celeberrimo «Autoritratto con cappello rosso», 1968, che è anche l’immagine-guida della mostra, un ultimo stralcio d’immaginazione, offerto ancora dalla stessa Fini attraverso le linee della sua biografia: «Iniziai a progettare e realizzare bambole di grandi dimensioni, più simili a marionette giganti, non solo con la stoffa ma anche con il cartone, la lana, il metallo, ogni sorta di cianfrusaglie. Non assomigliavano a nient’altro al mondo e impressionavano molto tutti quelli che le vedevano». Andate completamente perdute, se socchiudiamo gli occhi possiamo quasi immaginarcele, forse simili alla Poupée di Hans Bellmer, o forse meno lascive e più arrabbiate, come quelle di Hannah Höch. O forse, più facilmente, inconfondibili «sfingi finiane», misteriche e senza parentele di sorta, come ci appare la loro creatrice a oltre un secolo di distanza. E ad anni luce da qualsiasi definizione.

Una veduta della mostra «Io sono Leonor Fini» a Palazzo Reale, Milano. Cortesia di Mondo Mostre