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Un render della nuova sede della GAMeC di Bergamo progettata da C+S, che si aprirà nel 2027

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Un render della nuova sede della GAMeC di Bergamo progettata da C+S, che si aprirà nel 2027

Lorenzo Giusti: «Ecco la “mia” GAMeC»

Il direttore da poco confermato a Bergamo, racconta i suoi progetti: «Compito del museo è riaprire spazi di libertà, di dubbio e di “disapprendimento”»

Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Appena riconfermato alla direzione della GAMeC, Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, istituzione che guida dal 2018 (è da poco stato rinnovato per altri cinque anni), Lorenzo Giusti racconta i progetti già portati a compimento e quelli pronti a essere realizzati. E insieme ripercorre il percorso che l’ha condotto sin qui.

Dottor Giusti, parto con un aspetto di lei che mi ha incuriosito: prima il Liceo scientifico, poi la Laurea in Lettere all’Università di Firenze. Un percorso apparentemente anomalo.
Da ragazzi si decide spesso per esclusione o per emulazione, e così è andata quando ho scelto il Liceo scientifico. Del resto in casa non si parlava certo d’arte. E comunque andavo bene in Matematica. Passare alla Storia dell’arte è stato un piccolo atto di ribellione. Forse un modo per affermare un desiderio di senso che non trovava riscontro nei modelli previsti. Detto questo, non rinnego la formazione scientifica. Al contrario, credo che mi abbia dato un senso del rigore e della complessità. E poi mi ha insegnato che anche la poesia ha bisogno di consapevolezze per generare.

Quali sono stati i suoi primi passi nel mondo dell’arte e della curatela?
I primi passi sono stati incerti... Mi appassionava lo studio della storia e della critica (a cui mi sono dedicato fino al Dottorato) ma mi mancava il contatto con i luoghi e le persone. La prima esperienza sul campo l’ho fatta con Arabella Natalini per Tuscia Electa, una piccola biennale d’arte contemporanea nel Chianti senese e fiorentino. Poi con mia moglie, Margherita Romagnoli, ho fondato un’associazione con cui organizzavamo delle piccole mostre in un bar di amici a Prato. La prima occasione importante me l’ha data Franziska Nori, che nel 2008 mi ha fatto proporre e curare una mostra a Firenze a Palazzo Strozzi. La intitolai «Green Platform» e partiva da una rilettura di Gregory Bateson e Félix Guattari in chiave visiva. Bateson è stato il mio primo riferimento per diversi anni. Poi, in tandem con Arabella Natalini, ho lavorato come curatore per un Centro d’arte contemporanea a Firenze, fondato da Sergio Tossi (EX3). Il Centro ha avuto una vita breve e travagliata, ma in quei tre anni, tra il 2009 e il 2011, abbiamo realizzato dei progetti bellissimi, tra cui le prime mostre personali in Italia di Julian Rosefeldt e Ragnar Kjartansson.

Quali sono stati i suoi maestri, accademici e «sul campo»?
Come insegnanti ho avuto Maria Grazia Messina ed Enrico Crispolti. Poi, più che di maestri, parlerei di incontri che hanno lasciato un segno nel mio modo di intendere il lavoro curatoriale e la funzione del museo. Il confronto con gli artisti è sempre stata la fonte primaria di ispirazione. Ho avuto la fortuna di lavorare in Italia e all’estero con centinaia di artiste e artisti di ogni provenienza, e da ognuno di loro ho preso qualcosa. Oggi, devo dire, a ispirarmi in profondità sono soprattutto alcune esperienze personali che, all’apparenza, potrebbero sembrare lontane dal campo museale: il cammino, la solitudine, l’adrenalina, il dolore rielaborato… Credo che il museo debba imparare ad accogliere le condizioni umane più autentiche e radicali e a trasformarle in possibilità di relazione.

Nel 2012 era già direttore del Man di Nuoro, un’istituzione che con lei ha conosciuto un’autentica fioritura. Quali sono state le linee guida su cui si è mosso per ottenere, in cinque anni, risultati così significativi?
Al Man ho lavorato su un doppio livello: da un lato il consolidamento dell’istituzione (che era quello che mi veniva richiesto) con mostre su importanti figure dell’avanguardia storica; dall’altro, attraverso un investimento anche personale, sul senso del luogo, sulla sua energia specifica. Mi sono trasferito in Sardegna scegliendo di vivere quella condizione di radicamento che per me è sempre stata alla base di ogni progetto autentico. Con i tanti artisti e artiste con cui ho collaborato ci siamo interrogati soprattutto sul principio dell’insularità. Inteso non come isolamento, ma come spazio di incontro tra diverse forme di distanza e di resistenza. Nella maniera in cui l’hanno raccontato studiosi come Giovanni Lilliu o Ernesto De Martino, per esempio, o amici scrittori come Michela Murgia e Marcello Fois.

Dal 2018, la direzione della GAMeC di Bergamo. Anche qui ha impresso una svolta rispetto al passato. Quali le tappe che ritiene più importanti?
Per me è sempre stato fondamentale sperimentare nuovi format curatoriali e interrogare il ruolo del museo, che ho sempre pensato come un organismo in trasformazione. Alla GAMeC questo è stato possibile grazie alla sensibilità dei suoi amministratori, che hanno avuto fiducia nella mia visione, permettendomi di svilupparla con grande libertà, e all’impegno dello staff. Tra le tappe più significative di questo percorso c’è sicuramente «La Collezione Impermanente», un progetto che ha introdotto una visione multifocale ed eterodossa del patrimonio della città. Un’altra scelta importante è stata quella di utilizzare Palazzo della Ragione, in Città Alta, come un’estensione simbolica e fisica del museo nello spazio urbano, reinterpretando un luogo carico di storia e significato attraverso lavori site specific di consolidati artisti internazionali (Jenny Holzer, Anri Sala, Rachel Whiteread, Sonia Boyce, Ernesto Neto, Maurizio Cattelan…). Un ruolo centrale lo ha avuto anche «La Trilogia della Materia», un ciclo espositivo pluriennale, con una curvatura scientifica.

Nel 2020, a Bergamo, lei ha ideato la piattaforma digitale Radio GAMeC, riconosciuta dall’Unesco come una delle più importanti iniziative museali al mondo durante la pandemia, e premiata anche da «Il Giornale dell’Arte». Ce ne vuole parlare?
Radio GAMeC ha trasformato un momento di distanza forzata in un’occasione di prossimità attraverso la voce. È nata in maniera istintiva, dalla volontà di esserci, con la testa e con il tempo, in un momento di crisi totale, ma sviluppando pensieri e considerazioni elaborate precedentemente. Parlo della possibilità per un museo di abitare il digitale non come mero canale di comunicazione ma come spazio di produzione di contenuti originali. Come un luogo non virtuale, ma concreto del museo stesso. Da lì siamo partiti e ancora oggi portiamo avanti il progetto con format sempre nuovi. Dalle riflessioni condivise in quel periodo è scaturita l’agenda che ci ha portato alla realizzazione del Biennale delle Orobie, che ha segnato un’ulteriore apertura verso il territorio.

Nel 2015, al Man, ha realizzato la prima grande retrospettiva di un’artista allora trascurata e oggi, al contrario, molto celebrata come Maria Lai. L’attenzione alle artiste (nel 2021 fu la volta di Regina Cassolo, futurista, e molte sono le artiste attuali da lei presentate in monografiche importanti) è una costante del suo lavoro curatoriale.
Lo studio e la valorizzazione di vicende come quelle di Maria Lai o Regina Cassolo hanno rappresentato, per me, un modo per fare tesoro degli strumenti della ricerca storico artistica e, al tempo stesso, metterli in discussione, ripensando criticamente la narrazione del Novecento. Dare spazio a figure come queste (lo abbiamo fatto anche con Birgit Jürgenssen nel 2019) non significa solo compiere un atto di giustizia storica, ma anche arricchire lo sguardo sul presente, riconoscere che la storia dell’arte non è una linea retta, ma un territorio da attraversare in più direzioni.

Lorenzo Giusti. Photo © Paolo Biava

Altrettanto precoce è la sua attenzione per l’ambiente: per tutti, il progetto biennale tuttora in corso «Pensare come una montagna».
La prospettiva ecologica, se così vogliamo chiamarla, è qualcosa che direi strutturale nella mia pratica. Ci sono sicuramente esperienze personali che mi hanno condizionato. Momenti di isolamento e di essenzialità, in montagna soprattutto. Situazioni che ho cercato sin da ragazzo. È in quelle dimensioni che ho imparato a percepire la fragilità come una tensione creativa potente. Culturalmente, mi sento debitore di alcuni filoni di pensiero che hanno messo in discussione l'antropocentrismo, per poi ritrovarlo in forme nuove, interrogative, di pensiero. Un andirivieni attorno all’idea di umanità, utile a smantellare le tante forme di ossessione identitaria che si vedono crescere oggi un po’ ovunque. Progetti come «Il Biennale delle Orobie» nascono da lì.

«Il Biennale delle Orobie» è giunto ora al suo quinto e ultimo ciclo. Ha richiamato a Bergamo e nel suo territorio artisti internazionali di grande valore e ha coinvolto numerose comunità. Vuole tracciarne un primo bilancio?
«Il Biennale delle Orobie» è stato innanzitutto un programma di mediazione creativa, nato con l’ambizione di mettere in discussione il format biennale tradizionalmente inteso. Non un evento ogni due anni, ma un processo esteso, lungo due anni, fatto di progetti su scala, attivazioni territoriali e coinvolgimento di comunità diverse. In questo senso, il progetto si è inserito nel dibattito più ampio sulla crisi di senso e sulla stanchezza del modello biennale. Il percorso è stato lungo e il patrimonio di esperienze che ne è derivato è importante, anche dove le relazioni si sono rivelate complesse. Condividere richiede tempo, e non sempre le persone possono o riescono a concederselo. Credo però che proprio il tempo (un tempo più dilatato, disteso) sia la chiave per ripensare il nostro modo di agire: come individui, come istituzioni culturali e come collettività. 

La traiettoria post-antropocentrica è anche alla base della mostra «All That Changes You. Metamorphosis» (2025) di Isaac Julien che lei ha curato per Palazzo Te a Mantova, anteprima mondiale di un’installazione filmica multischermo (girata a Palazzo Te, protagoniste le attrici Sheila Atim e Gwendoline Christie).
Le ricerche della Scuola di Santa Cruz (Haraway, Tsing, Freccero…) mi hanno molto ispirato negli ultimi anni. Quando mi è stato chiesto di avanzare una proposta in occasione del Cinquecentenario di Palazzo Te che potesse attualizzare il tema della «Metamorfosi» ho pensato che un nuovo lavoro di Isaac Julien che partisse dal ciclo di affreschi di Giulio Romano abbracciando queste ricerche fosse il modo migliore per abitare i rinnovati spazi delle ex Fruttiere. Isaac, che insegna a Santa Cruz, ha raccolto l’invito. Con Mark Nash e Stefano Baia Curioni, direttore di Palazzo Te, abbiamo incontrato Donna Haraway e da quello scambio Julien ha costruito un racconto visivo e narrativo che intreccia l’antropologia post antropocentica con la fantascienza di Octavia Butler, Naomi Mitchison e Ursula Le Guin.

La sede attuale della GAMeC è carica di storia, fascinosa, centrale dal punto di vista urbanistico ma molto «difficile» come sede museale. Sotto la sua direzione, appena riconfermata, è previsto che si apra la nuova sede. Ne abbiamo scritto più volte, ma da lei vorremmo conoscere gli aspetti salienti del progetto, sul quale immagino che i suoi suggerimenti abbiano avuto un notevole peso.
È vero: l'attuale sede della GAMeC, l'ex Monastero delle Dimesse e Servite, ristrutturato da Vittorio Gregotti alla fine degli anni Ottanta, è un luogo interessante, ma con dei limiti strutturali evidenti per un museo contemporaneo. La nuova sede, progettata da C+S, aprirà però nel 2027. Alcune difficoltà sul cantiere e l’esigenza di mettere mano alla piazza (anche questa progettata dallo studio C+S) ci stanno facendo orientare verso l’autunno di quell’anno. Rispetto al progetto preliminare abbiamo suggerito alcune modifiche per renderlo più funzionale, estendere i servizi e rendere gli spazi espositivi il più possibile flessibili.

Dove e come sarà collocata la collezione permanente del museo, in quali spazi e con quali modalità?
Sarà ospitata nella suggestiva «lanterna» interna del nuovo museo, ricavata nel corpo centrale dell’ex Palazzetto dello Sport. In vista del trasferimento, abbiamo avviato un ampio lavoro di studio e ridefinizione del patrimonio, attraverso il progetto Galassia, coordinato da Anna Chiara Cimoli. Il nuovo allestimento si articolerà in 12 sezioni tematiche, esposte a rotazione per garantire un racconto sempre vivo e attuale. I temi affrontati offriranno una lettura contemporanea e plurale della collezione, capace di dialogare sia con il presente che con il contesto locale e globale.                                                                                  

Che tipo di programmazione pensa di realizzare? E come sono strutturate le aree per le esposizioni temporanee?
La programmazione della nuova GAMeC sarà una riflessione costante sul nostro tempo, capace di interrogare i linguaggi più attuali ma anche di rileggere in chiave critica le espressioni storiche dell’arte. L’obiettivo è quello di rendere il museo sempre più un luogo di confronto vivo e partecipato, in cui le mostre dialoghino con il pubblico, con il territorio e con i grandi temi della contemporaneità. Dal punto di vista spaziale, le aree dedicate alle esposizioni temporanee si articolano lungo i due semicerchi che si sviluppano al primo e al secondo piano dell’edificio, attorno alla «lanterna» che ospiterà la collezione permanente. Sono spazi aperti, che potranno essere allestiti in modo sempre diverso, adattandosi alle esigenze specifiche di ogni progetto espositivo. Questa flessibilità è una delle potenzialità del nuovo museo: ci permetterà di ospitare progetti molto diversi per scala, linguaggio e contenuto, mantenendo alta la qualità e l’intensità dell’esperienza per il visitatore. Apriremo con un progetto corale, che occuperà l’intero museo e che sarà una sorta di dichiarazione d’intenti, un manifesto della visione che animerà questa nuova fase. La collezione arriverà in un secondo momento, ma da quel momento in poi entrerà a far parte di un sistema integrato: mostra temporanea, collezione e public program coesisteranno e dialogheranno tra loro in maniera organica.

Tra la conclusione di «Pensare come una montagna» e il trasferimento nella nuova sede si apre un periodo di transizione. Che cosa ha immaginato per il 2026?
Dopo due anni, il 2024 e il 2025, in cui abbiamo sperimentato nell’ambito della produzione e dopo l’avvio di «Galassia» (il programma che rimetterà in gioco il nostro patrimonio artistico) il 2026 sarà dedicato all’«education». Vogliamo farlo con uno spirito ancora sperimentale, coinvolgendo artiste e artisti che, nel loro percorso, hanno fondato scuole, metodi o comunità di apprendimento. L’idea è aprire un processo condiviso di riflessione: ripensare insieme che cosa significa oggi «educare» in un museo, e quale ruolo può avere l’educazione in una società in rapido cambiamento. Tutto questo anche in vista della nuova sede, che accoglierà le esperienze e le domande di questi anni in un programma più ampio e strutturato. L’educazione è una delle funzioni fondamentali del museo. Ma negli ultimi decenni è cambiata radicalmente. Non parliamo più di una trasmissione di sapere dall’alto verso il basso (dal museo al pubblico) ma di un processo circolare, dove chi entra al museo non è solo «visitatore» ma parte attiva nella costruzione di senso. Ci chiediamo allora: come può il museo smettere di essere solo un luogo che «insegna» per diventare uno spazio che «impara» insieme ai suoi pubblici? La domanda di fondo è questa: educare come e, soprattutto, educare a cosa? In un tempo in cui gran parte delle nostre scelte, dei nostri gusti, delle nostre conoscenze è guidata da algoritmi, forse il compito del museo è proprio quello di riaprire spazi di libertà, di dubbio e di «disapprendimento».

Ada Masoero, 13 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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