Louise Giovanelli, «Prairie», 2022

© L’Artista; foto © White Cube (Ollie Hammick)

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Louise Giovanelli, «Prairie», 2022

© L’Artista; foto © White Cube (Ollie Hammick)

Louise Giovanelli: «Dipingo l’estasi, il desiderio e la quotidianità»

All’Hepworth Wakefield, nel nord dell’Inghilterra, la prima grande mostra museale della pittrice inglese ossessionata da temi quali bocche aperte, tende chiuse e capelli

La carriera di Louise Giovanelli (Londra, 1993, vive e lavora a Manchester) è in ascesa da quando è stata uno degli artisti di spicco dell’importante mostra di pittura «Mixing it Up: Painting Today» alla Hayward Gallery nel 2021. Nel 2022 è entrata a far parte della scuderia della White Cube (che la rappresenta insieme a Grimm, con sede ad Amsterdam) e ora, fino al 21 aprile, presenta la sua prima grande personale istituzionale, «A Song of Ascents», all’Hepworth Wakefield, nel nord dell’Inghilterra.

Nei suoi dipinti raffiguranti superfici riflettenti, capelli scintillanti e il tipo di tende di velluto pesante che si trovano nei vecchi club per operai, Giovanelli percorre la linea tra la cupa quotidianità e la rivelazione spirituale. In una delle opere esposte all’Hepworth, resa in toni nebulosi che ci fanno dubitare della realtà di ciò che vediamo, ci chiediamo se una giovane donna stia aspettando di ricevere la Comunione, se sia selvaggiamente intossicata o se sia persa in un abbandono orgasmico. Il talento di Giovanelli sta nell’identificare e complicare i nostri desideri, fin troppo umani, di stati di coscienza più elevati, siano essi elementari o profondi.

A che cosa si riferisce il titolo della sua mostra «A Song of Ascents»?
È tratto da uno dei salmi penitenziali usato nelle liturgie cattolica, ebraica e luterana, e che ha anche ispirato il De Profundis di Oscar Wilde. Suppongo di aver avuto molti degli stessi pensieri che ebbe lui mentre era rinchiuso in prigione per aver amato qualcuno che non avrebbe dovuto. Wilde parla di sé stesso come di un cattolico che non crede, ma lui è spirituale: l’idea dell’ascensione, della visionarietà e del raggiungimento di un livello superiore mi sembrava appropriata.

È curioso che molte delle sue opere includano questo elemento cattolico. Alcune si riferiscono a bocche aperte, che esprimono un forte senso di erotismo, ma che in realtà riguardano l’Eucarestia o fanno riferimento all’autodafé medievale, al rogo di un eretico da parte dell’Inquisizione spagnola. Come trova nuovi modi per avvicinarsi a queste antiche immagini e iconografie?
Sono stata cresciuta con un’educazione cattolica (mia madre è irlandese e mio padre italiano), ma ora mi definirei una cattolica-atea. Crescendo, ho trascorso molto tempo in chiesa e ho ricevuto la cresima, ma poi, negli anni della mia adolescenza più ribelle, ho maturato un vero e proprio rifiuto quando, in chiesa, mi sedevo a leggere L’illusione di Dio di Richard Dawkins. Ora, quando ci penso, mi sembra ridicolo, ma inevitabilmente quell’educazione ha lasciato un’impronta, perché ci torno in forma visiva. Negli ultimi anni ho cercato di reimmaginare quelle idee antiche di visionarietà e rivelazione nel mondo contemporaneo, riferendomi ai riti laici di oggi, alla saturazione di icone, idoli e forme di culto. L’istinto umano non è cambiato affatto, ma i fenomeni sì; il desiderio c’è, ma l’oggetto di quel desiderio si è trasformato.

Morrissey, frontman degli Smiths, cantava che il pub ti distrugge il corpo mentre la chiesa vuole i tuoi soldi. Nel catalogo della mostra, ci sono due collaborazioni straordinarie: una è un’enigmatica poesia in prosa di Helenskià Collett, la padrona di casa del vostro bar preferito; la seconda è una sorta di pub-quiz di Charlie Fox, chiaramente senza risposte «giuste», che si ispira a una serie di risposte che lei ha dato riguardo al film horror «Carrie». Come sono nati questi due testi?
Il pub o il bar sono anche luoghi di culto, ovviamente; sono luoghi per bere, per allontanarsi dalla vita normale, per trovare una nuova comunità cui appartenere. A causa delle tende e degli orpelli raffigurati nei miei dipinti, la gente pensa sempre che io sia cresciuta in un club di operai, ma in realtà non è così. Quando a 18 anni mi sono trasferita al nord, questi luoghi mi hanno davvero affascinata, perché contengono promesse e teatralità, dove chiunque può avere il suo momento. Sono attratta dal carattere democratico di questi club e dei centri di aggregazione. Il fascino che provo nei confronti dei sipari spazia tra cultura alta e bassa: a volte si tratta di luoghi stravaganti e performativi; luoghi dietro ai quali ci sono molti soldi. Tornando al catalogo, sono molto soddisfatta dei contributi. Il testo di Charlie è ambizioso ed esprime un concetto bizzarro, mentre il contributo di Helen è più simile a una poesia astratta o assurda.

Helen è anche il soggetto di un’opera in mostra, «The Painting’s Landlady» (2024). Molti dei suoi soggetti sono tratti da documentari o film pulp, mentre in questo caso è raffigurata una persona per lei importante. Come cambia il rapporto con il suo soggetto?
È la prima volta che succede. Non dipingo mai autoritratti e finora non ho mai realizzato ritratti di persone che conosco. Ciò che trovo interessante nel ritratto di Helen è che i suoi occhi guardano fuori dal dipinto, in modo piuttosto conflittuale. Non lo faccio mai, perché non appena gli occhi incontrano l’osservatore, allora il dipinto diventa un ritratto. Non amo che venga data questa interpretazione e quindi, se gli occhi guardano altrove, il tono è diverso. Helen mi sembra un po’ un mio alter ego, che può fare cose che io non posso fare. Nella mia serata inaugurale all’Hepworth, ha realizzato una torre di bicchieri da Martini e ha recitato una poesia surrealista per gli ospiti. Questo ha conferito verità all’opera, visto che il bar che gestisce a Manchester è una sorta di opera d’arte vivente, che a sua volta ha ispirato il mio lavoro. 

Un aspetto del suo lavoro, che penso colgano molte persone, è il livello di difficoltà esecutiva. Lei dipinge cose difficili da raffigurare: capelli, tende, oggetti di vetro. Perché cercare questa difficoltà?
Sono attratta dai tessuti, dai riflessi e dal vetro, così come dai colori dorati e lucenti, e dalla sfida e dall’alchimia di queste cose. Mi chiedevo spesso: «È possibile fare questo con la pittura?». E naturalmente sì, è sempre possibile, perché ne ho avuto prova nei dipinti del passato! Tuttavia, ho spesso pensato a come sia possibile farlo con quello che è essenzialmente fango colorato. Mi ha sempre sorpreso il fatto che la gente impazzisca per il soggetto delle tende: sì, sono seducenti per lo sguardo, ma ad attrarre il pubblico è soprattutto il fatto che le tende respingono tutto, e soprattutto le persone. Agiscono come una sorta di barriera perché non si apriranno mai.

Questo è vero, ma c’è un dettaglio nel dittico «Decades» (2024), in cui, se si guarda da vicino, si nota che i lati del dipinto sono colorati, e così, quasi impercettibilmente, si ha la sensazione di vedere attraverso l’ignoto, tra i dipinti, come se ci fosse una piccola fessura.
Spesso dipingo su un fondo che ho precedentemente colorato. Questo fondo è importante per la resa del valore tonale. Quindi, anche se si trattava di un dipinto in scala di grigi in argento, c’era bisogno di un colore che trasparisse, ed è il colore ocra che si vede, ma lo si vede solo attraverso la fessura, e solo perché l’opera è composta da due pannelli. Quello che vedete è il primissimo strato, è il primo segno di qualcosa, un punto di origine che vi porta oltre. 

Con Ian Hartshorne e Alice Amati, lei ha fondato l’Apollo Painting School per artisti emergenti. Si tratta di un atto importante, vista la lenta, e poi improvvisa, scomparsa della scuola d’arte inglese nell’ultimo decennio. Che cosa ha imparato dall’apertura di questa scuola?
Al primo anno Apollo ha riscosso un grande successo e abbiamo avuto un brillante gruppo di allievi: Ally Fallon, Isaac Jordan, Deborah Lerner, Hannah-Sophia Guerriero e Isobel Shore. L’idea è quella di trascorrere due mesi insieme, nel mio studio di Manchester, con conferenze di artisti e professionisti del settore, e poi andare per tutto agosto a Latina, in Italia, per la residenza. Stiamo cercando di colmare il vuoto che riteniamo esista nell’educazione artistica nel Regno Unito. Essendo state integrate nelle università, le scuole d’arte ora sono contemporaneamente troppo grandi e troppo deboli, sono troppo costose e non hanno abbastanza laboratori e risorse né abbastanza tempo per i tutor. Gli studenti che non dispongono di un alto reddito non possono permettersi di frequentarle. All’Apollo abbiamo un modello di finanziamento a prova di reddito, per cui gli artisti che guadagnano meno di 40mila sterline, e quindi tutti, non hanno bisogno di pagare. È più simile al sistema delle Royal Academy Schools o della Städelschule in Germania, e volevamo scegliere gli studenti per i quali sarebbe stato più significativo iscriversi. Ian, Alice e io ci siamo incontrati a Manchester e siamo molto legati a questa città, dove si respira un’atmosfera di Zeitgeist per la pittura.

Ha affrontato la sua mostra all’Hepworth con uno spirito simile? Voleva fare qualcosa di diverso?
Sì, certamente. Con le mostre in sedi private, come quelle con le mie gallerie Grimm e White Cube, si può essere un po’ più audaci, ma nel caso dell’Hepworth, ho dovuto tener conto del fatto che molti visitatori avrebbero visto il mio lavoro per la prima volta e quindi ho dovuto presentarmi. Abbiamo scelto di esporre cinque serie distinte, tra cui nuovi dipinti e alcuni prestiti, facendo però emergere il legame tra i dipinti, vecchi e nuovi, e l’ossessiva ripetizione di soggetti come bocche aperte, tende e immagini tratte da vecchi B-movies. Sto tessendo una storia e voglio che il pubblico abbia qualcosa di familiare a cui aggrapparsi. Voglio che le persone camminino per la mostra, si fermino e si chiedano: «Oh, aspetta, dove l’ho già visto?». Crea un clima psicologico che mi piace.

Louise Giovanelli, «Entheogen», 2023. © Dacs, cortesia dell’artista; foto: Michael Pollard

Matthew Holman, 09 febbraio 2025 | © Riproduzione riservata

Louise Giovanelli: «Dipingo l’estasi, il desiderio e la quotidianità» | Matthew Holman

Louise Giovanelli: «Dipingo l’estasi, il desiderio e la quotidianità» | Matthew Holman