Matteo Bergamini
Leggi i suoi articoliBarcolla ma non molla: lontani anni luce i tempi di mascherine e «distanziamenti», non si può dimenticare che Roma, durante il nefasto biennio pandemico, al contrario di molte altre smart cities, era riuscita a fare della cultura del contemporaneo uno dei suoi punti di lotta contro l’annichilimento. Un paradossale panorama di rinascita nella catastrofe di cui ha fatto parte anche il Macro, nel quale entrava a febbraio 2020 l’allora neodirettore Luca Lo Pinto (1981). Fondatore di Nero Magazine e ex curatore alla Kunsthalle di Vienna, lo incontriamo alla fine del suo mandato in un freddo pomeriggio di gennaio proprio negli uffici di via Nizza, sede del Museo di Arte Contemporanea della capitale.
Inutile indugiare sul passato, già che il Macro è in attesa di un nuovo destino, come da sempre accade nella sua storia, ma quel che è certo è che la costruzione e lo sviluppo del progetto espositivo «Museo per l’Immaginazione Preventiva» per Lo Pinto è stata un’esperienza che è andata ben oltre la semplice direzione dell’istituzione, proprio perché si è trattato di rivestire di senso un organismo che non poteva essere trattato come qualsiasi museo «normale»: «Ho lavorato nel solco dell’eccezione sotto tutti i punti di vista, immaginando con estrema onestà che cosa avremmo potuto costruire con la nostra architettura, la nostra storia, le nostre risorse, anziché tentare di imitare o di far finta di essere un’altra realtà», attacca, vulcanico.
Il manifesto del camaleonte
Il Macro, vale la pena ricordarlo, ha vissuto momenti ben alterni dalla sua apertura, nel 2002: oggi gestito da Palaexpo, è stato museo del comune, soggetto all’agenda della città, «strumento di bassi interessi e dinamiche politiche», aggiunge l’ex direttore, con una collezione che appartiene alla Sovrintendenza. Una specie di camaleonte che potrebbe fare di questo istrionismo forzato il proprio manifesto, continuando invece ad apparire come un museo «interrotto», un corpo dalla colonna vertebrale torta, «che puoi riuscire a muovere e perfino a far danzare in un certo modo, ma il problema è che poi, come qualsiasi identità disfunzionale, coltiva la volontà all’omologazione».
Insomma, una realtà più che bipolare sulla quale però Luca Lo Pinto ha costruito un metodo operativo tutto suo, aderendo al contesto, che poi è ciò che fa la differenza, sempre.
«Certamente questo spirito può esistere anche al di fuori del Macro, ma oggi è complicato metterlo in atto perché le istituzioni culturali, i musei in particolare, si stanno ulteriormente normativizzando. Un bel paradosso in un momento in cui si sbandiera grande libertà, fluidità, e dove tutto sembra abbracciare, apparentemente, una non linearità. E qui torniamo a quello che dicevo poco fa, ovvero alla brama di ciò che è considerato il paradigma del successo mentre, per lavorare sui progetti, c’è bisogno di una profonda autoanalisi, di un’autocoscienza e anche di una sorta di autostima che ti permetta di promulgare il tuo metodo. In questo caso di sperimentare. Per mia natura preferisco vivere in una dimensione adrenalinica, e sinceramente sono contento di come sia andata questa esperienza», spiega Lo Pinto, il cui mandato scadrà esattamente alla fine di questo mese.
L’esperienza del museo come magazine
Estesa di due anni a causa del covid, la direzione di Lo Pinto ha costruito l’identità del museo utilizzando la metafora della gabbia editoriale, portando in scena grandi mostre che hanno utilizzato tutti gli spazi dell’ex Peroni, come la prima «Editoriale» e l’ultima «Post Scriptum. Un Museo dimenticato a memoria» (fino al 16 febbraio), a chiudere il cerchio. In mezzo diverse perle: le personali di Emilio Prini, Nathalie Du Pasquier, Cinzia Ruggeri, Elisabetta Benassi, i progetti dedicati a Richard Serra, Salvo, Hervé Guibert...e la percezione che oltre alle sale del Macro, Lo Pinto abbia lavorato sul dislocamento del concetto di museo, investigando quella che è la vita dell’opera, l’idea di esposizione, portando Lawrence Weiner nel cielo sul litorale romano o proponendo il riallestimento di «Yard» di Allan Kaprow, fidelizzando nuovi e giovani pubblici anche grazie a una grafica che aveva fatto storcere il naso, come del resto il programma del giovane direttore, considerato un po’ troppo cool.
Fanno parte di queste esperienze «incomuni» anche i cataloghi realizzati: il primissimo, quello di «Editoriale», era una antologia di racconti dei più interessanti autori italiani dell’attualità, da Emanuele Trevi a Veronica Raimo, passando per Valerio Magrelli, completamente senza immagini; per «Post-Scriptum», invece, i cataloghi sono due, composti solamente di immagini: «Ho ragionato su un modo originale per documentare la mostra, che non segue una narrazione lineare, creando un oggetto editoriale ibrido che potesse sfuggire alla struttura del classico catalogo. Ho coinvolto l’art director Francesca Cefis per realizzare un progetto ispirato al linguaggio dell’editoriale di moda, utilizzando il museo come punto di partenza per produrre una serie di immagini che sono insieme documento e opera». Il risultato, realmente, è encomiabile e infila il dito in un’ulteriore piaga del contemporaneo, ovvero la relazione dell’arte con il mondo del fashion: realizzati in collaborazione con Adidas Originals e Emporio Armani, i due volumi permettono di vedere la stessa mostra attraverso gli sguardi due fotografi differenti, Alassan Diawara e Lukas Wassmann.
«C’è una retorica nel mondo dell’arte che non sopporto, e ci sono innumerevoli inibizioni da sciogliere: qualsiasi curatore, museo o rivista afferma di essere pronta a sperimentare ma poi, innegabilmente, si ritorna alla questione dell’omologazione. Parlare di “ricerca” continua a suonare come una questione noiosa o autoreferenziale, ma la verità è che tutti dovremmo prenderci la responsabilità nel difendere le nostre posizioni, per poter cambiare almeno un poco il modo in cui ci rapportiamo a tutto, aprirci a un confronto con il mondo reale. E ti assicuro che, essendo io il più feroce critico di me stesso, ho sempre ascoltato con grande curiosità chi criticava un progetto proprio perché la critica ti colpisce molto di più e ti rimane dentro: è qualcosa di prezioso», continua l’ex direttore.
Il museo degli artisti e del confronto
Fondamentale, in questa traiettoria, il rapporto con gli artisti o, per dirlo in altri termini, la capacità di Luca Lo Pinto di averli fatti risuonare nello spazio, quasi scomparendo lui stesso: «Tutti hanno percepito che c’era un museo realmente pensato per accoglierli, che parlava la loro stessa lingua, possibilità non indifferente visto che abitualmente il museo parla con i codici della storia e non degli artisti, idioma che ha altre regole, altri toni, un’altra grammatica. Ho chiesto a tutti loro un confronto, senza farli semplicemente accomodare. Anche in questo caso si tratta di definire un atteggiamento che non si limiti né all’essere eccessivamente presenti e costringenti, né all’anarchia».
In soccorso viene anche Werner Herzog, considerato da Lo Pinto come massima ispirazione e figura che ha fatto della sua intellettualità una freccia in grado di colpire l’immaginario collettivo ad ampio raggio: un’aspirazione che dovrebbe essere di tutti coloro che si occupano di arte, per trasformare l’ostico «concettuale» in una dimensione più accogliente, ma non per questo meno potente.
«Io sono il primo a preferire la voce degli artisti e delle opere, indagate attraverso filtri che non appesantiscano la forza della poetica; dagli artisti ho imparato a non aver paura delle idee, a esporle nonostante le possibilità di fraintendimento», risalta Lo Pinto, evidenziando come la struttura della libertà non sia definita dal caos quanto da una profonda conoscenza dei «segni», come accade nella pratica di Simone Forti, altra figura omaggiata dal «Museo per l’Immaginazione Preventiva».
Eppure, continuando a parlare del benedetto Macro, Luca Lo Pinto fa di nuovo ammenda, alzando il tiro su quella che dovrebbe essere l’identità dei musei che, condizionale d’obbligo per la maggior parte delle istituzioni italiane, necessiterebbe di andare oltre la biografia dei propri «funzionari», come del resto di questi tempi dovrebbe fare l’arte: «In un certo senso questo progetto è nato sbagliato, proprio a causa della sua profonda radicalità; il museo in sé dovrebbe valere più del suo programma, dei suoi continui cambiamenti di passo. Pensa al Pompidou: quasi non sai chi sia il direttore, vive autonomamente, è parte della comunità e dell’immaginario a prescindere».
Insomma, alla fine della chiacchiera, qual è la morale? Forse il fatto che, a proposito di disinibizione, sarebbe utile superare l’ansia da prestazione per evitare di trasformarsi negli impiegati dell’arte che lo stesso ex direttore citava in una vecchia intervista con un altro dei suoi amori, Lisa Ponti. E in effetti, conversando e conversando, il futuro per Lo Pinto appare come una prateria da attraversare senza fomo («fear of missing out», ovvero «paura di essere esclusi», Ndr): «Non ho nessun programma al momento: sto lavorando a una serie di cose, tra cui al libro dedicato a Emilio Prini, insegno e ho progetti di mostre in mente. Sai, non mi sono mai mosso nell’ottica delle dinamiche del mondo dell’arte, ovvero quelle dell’occupare posizioni. Non è una attitudine speciale, semplicemente io sono fatto così: tutto quello che ho percorso è stato un cammino di incontri e coincidenze. Forse l’unica cosa che ho deciso, ancora studente, è stata quella di creare una rivista con amici, mentre a Vienna ero finito perché avevo partecipato a un bando, esattamente come al Macro, senza avere l’ambizione forzata di dirigere un’istituzione. Ad ogni modo sono felice perché ho potuto offrire qualcosa di cui mi sento capace, ma ci sono persone molto più brave di me a farlo in altri modi». In altri modi forse sì, ma in questo solo Luca Lo Pinto.
P.S.: A conclusione dell’esperienza quinquennale del «Museo per l’Immaginazione Preventiva», prima dell’ultimo weekend della mostra «Post scriptum. Un museo dimenticato a memoria», il prossimo 14 febbraio, dalle ore 18, al Macro si terrà la presentazione del doppio catalogo della mostra e, alle ore 19, una live performance di Charlemagne Palestine. Dalle 22 la festa di chiusura, Octopus Love Party, al Teatro delle Bellezze.
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