Non era un’aria esattamente mesta quella che si è respirata a Madrid (forse anche a causa di una pioggia quasi incessante) durante la settimana della 44ma edizione di ARCO, ma quel che è certo è che tra le mostre in città si sono viste annate migliori. Un clima ben pacato avvolge infatti molte delle istituzioni della Capitale spagnola, a partire dal Reina Sofía: se l’anno scorso la retrospettiva dedicata a Antoni Tàpies aveva impressionato tutti, quest’anno è ben difficile superare la meraviglia brutale del maestro catalano. Ci provano Huguette Caland (Beirut, 1931-2019) e Laia Estruch (Barcellona, 1981) con una serie di rivisitazioni dello spazio e le sperimentazioni di un’arte sonora, vocale e corporale.
Ma ci prova ancora di più la grande mostra «En el aire conmovido...», curata dal pensatore francese Georges Didi-Huberman, stavolta ispirato dalla poesia di Federico García Lorca per riflettere su come le emozioni non solo trasformino l’atmosfera, ma siano il passo fondamentale per la nascita della politica, delle rivoluzioni, della presa di coscienza. Nonostante possa essere intellettualmente ineccepibile, «En el aire conmovido...» appare già un po’ datata, visto che le varie sezioni sembrano rifuggire l’emozionalità e la commozione contemporanea, con le sue isterie e la sua deriva di immagini dove la poetica non sempre si fa politica: Didi-Huberman invece annoda i fili del passato con Lucio Fontana e Giacometti, con Joan Miró e James Ensor, con Pasolini e Guareschi. Ottime le intenzioni per una mostra decisamente antimonumentale, per sguardi decisamente allenati.
Ispirato dalle «Pinturas Negras» di Goya, Pol Taburet (1997) al Pabellón de los Hexágonos, promosso dalla Fundación Sandretto Madrid, si è lasciato incantare dal maestro spagnolo come Sigmar Polke (Oels, 1941-Colonia, 2010), la cui mostra, «Afinidades reveladas», è ancora in scena al Prado: un dialogo (curato da Gloria Moure) che mette al centro l’attrazione e la visionarietà che Goya ha esercitato sul pittore tedesco, a più di 150 anni di distanza. Una mostra non particolarmente grande, che si apre con il dipinto «Le vecchie e il tempo» (1810-12) di Goya , in prestito dal Musée des Beaux-Arts di Lille, che rappresentò una vera e propria ossessione per Polke quando lo scoprì nel 1982. Seguendo il filo dell’attrazione, in un allestimento in cui tutta la storia dell’arte è un gioco di sguardi, una seduzione di temporalità, un indefinibile amalgama di storie che si cristallizzano, «Nachtkappe I», 1986, appartenente alla Fondation Louis Vuitton, è imperdibile: attraverso la tecnica della dissoluzione della pittura con l’alcool, Polke crea un vero e proprio riassunto informale dell’estasi del colore, una prospettiva di cielo senza alcuna figurazione, un approccio visionario che appartiene anche a El Greco, altro protagonista del Prado dove sono riunite le otto pale d’altare del convento di Santo Domingo el Antiguo a Toledo.
Quel che è certo, però, è che in entrambi i casi stiamo parlando di vere e proprie icone della storia dell’arte: difficile sbagliare il tiro anche se, a voler fare gli avvocati del diavolo, il progetto dello scorso anno dedicato ai «Reversos» dell’arte era sembrato più audace.
Ma andiamo avanti: ci spostiamo poco oltre Plaza de España, in Calle de la Princesa, dove si trova il Palacio de Liria. Dimora nobiliare dei Duchi di Alba e ancora abitata dalla famiglia (ma dal 2018 aperta al pubblico), contiene nelle sue sale una delle collezioni private di arte classica spagnola più incredibili del Paese: qui, da una sala all’altra, si incontrano Rubens, Zurbarán e ancora Goya e El Greco. Quest’anno però il Palacio de Liria dà il calcio d’inizio a un programma d’arte contemporanea, dove le opere sono chiamate a dialogare con gli interni e con la storia che in queste sale si respira. Affidata a Joana Vasconcelos (Lisbona, 1971), artista che già rappresentò il Portogallo alla Biennale di Venezia e che era stata tra le protagoniste delle commissioni di Versailles, per cui aveva realizzato il suo intervento nel 2012, «Flamboyant» (titolo del progetto per il Palazzo madrileno, supportato da Dior e Mastercard, tra gli altri) è decisamente quello che si avvicina di più a ciò che ci si aspetterebbe dagli «eventi collaterali» di una fiera in fatto di spettacolarità.
Spettacolare è infatti «Flaming Heart» (2019-24), un immenso cuore di tessuti rossi che ha permesso per l’occasione anche la riapertura della Cappella privata del Palazzo, mentre nonostante non siano progetti site specific, appaiono perfettamente integrati nelle sale le due grandi scarpe col tacco realizzate con pentole e coperchi, «Marilyn» (2019) nella Sala da Ballo, a riflettere sulla dualità della condizione della donna e del lavoro domestico, come ricorda l’artista, così come lo splendido «Black Independent Heart» (2006), scultura realizzata con oltre 4mila forchette e coltelli assemblati a creare un oggetto lirico, che ruota sulle note di una canzone di Amalia Rodriguez che racconta come cuore e mente non sempre vadano di pari passo.
«Oltre a essere una condizione della portoghesità, quella di lasciare la propria piccola terra e salpare per un mare immenso e sconosciuto, mettendo in moto così quel sentimento che si definisce “saudade”, c’è anche l’aspetto più collegato al fado tradizionale, quello si ascolta anche nei ristoranti, dove i cantanti e i musicisti vengono annunciati dal tintinnare di posate su piatti e bicchieri: una performance popolare. L’idea che sta dietro a quest’opera è mettere insieme tutti questi aspetti della nostra cultura e tradizione. E emozione», spiega Vasconcelos.
E l’artista, così, entrando nelle sale con i suoi oggetti mette in scena una propria storia della musica (visto che la biblioteca del Palacio de Liria, ad esempio, ospita il primo documento della «Carmen» di Bizet), dell’arte e della società spagnola ed europea in generale; ad esempio basandosi sugli animali da compagnia, nella fattispecie i cani ,«Pack of dogs» (2005), che da sempre hanno rappresentato le antiche corti e, di conseguenza, gli Stati europei attuali. Appartenente, quest’ultima installazione, alla collezione di Helga de Alvear e del suo museo-fondazione a Cáceres, «Flamboyant» è in generale un riassunto della carriera di Vasconcelos, una delle voci più originali dell’area latina, anche se da molti considerata eccessivamente «barocchista».

Una veduta della mostra «Convergencias / Divergencias. Dos estéticas en diálogo» alla Casa de América
Un poco fuori Madrid, a Móstoles, c’è invece il Centro de Arte dos de Mayo (CA2M) che ospita a sua volta due mostre non immediatamente gratificanti a livello visivo, nonostante la loro complessità: la prima è dell’artista David Bestué (Barcellona, 1980) e l’altra è la prima personale del messicano Jorge Satorre (1979).
«Flor Hispana» è il progetto di Bestué che, attraverso opere della collezione del CA2M e della Fundación ARCO, riflette sulla città di Madrid come epicentro reale e immaginario della Penisola Iberica, con stereotipi che le appartengono da sempre e che, contemporaneamente, vivono anche nella maggior parte delle altre capitali europee, come la persistenza dell’asse nord-sud come segno-frontiera distintivo tra il popolare e il nobiliare, tra gentrificazione e caratteristiche del luogo, in un percorso tra materiali, fotografie, pitture, oggetti che, probabilmente, Didi-Huberman amerebbe.
«Ría», titolo della prima personale di Satorre in terra ispanica, indaga la storia non mappata e considerata minore attraverso una serie di opere che abbracciano gli ultimi 12 anni di produzione dell’artista e che si costituiscono di una estetica povera, di materiali comuni come argilla e cemento, disegno e legno, costruendo dispositivi che mimano architettura e gesti quotidiani, cantieri e possibilità di regolamentazioni del carattere della natura.
Tornando in città, e riprendendo idealmente il filo di «Wametisé: ideas para un amazofuturismo», la sezione di ARCO dedicata all’Amazzonia come Paese ospite, alla Casa de América (in Plaza de Cibeles) «Convergencias / Divergencias. Dos estéticas en diálogo» è una dissertazione curiosa tra l’estetica ye’kwana, originaria della foresta amazzonica, e quella dell’Astrazione Geometrica moderna e contemporanea attraverso una selezione di opere della collezione dell’imprenditore venezuelano Juan Carlos Maldonado. In scena più di cento pezzi di artisti come Carlos Cruz-Diez, Josef Albers, Mathias Goeritz, Mira Schendel in dialogo con oggetti vari (ceste, panche e vasi) della comunità amazzonica raccolti dall’esploratore venezuelano Charles Brewer-Carías nel corso di 30 anni e acquisiti da Maldonado. Un’occasione per riflettere sullo statuto dell’Arte applicata, considerata da sempre «inferiore» a dispetto della tensione spirituale che pervade le creazioni indigene.
Tra le mostre più interessanti nelle gallerie madrilene, Jorge Pardo (1963) da Elba Benítez, con una serie di opere realizzate attraverso la scomposizione vettoriale di fotografie dell’artista cubano, ma soprattutto il pop-up della galleria messicana Karen Huber che porta in scena una serie di pittori, per la maggior parte figurativi, su un tema comune e sempre curioso: «Aspettando la primavera». Da segnalare, tra gli altri, il figurativo ironico-espressionista di Yann Leto, artista francese di base a Roma, e la potenza metafisica di Ian Grose.
Anche per Karen Huber, la scelta è stata simile a quella dell’italiano Tommaso Calabro e del suo progetto newyorchese che debutterà a maggio, in occasione di Frieze: «Abbiamo sempre partecipato ad ARCO, ma quest’anno abbiamo scelto di installarci un mese a Madrid, perché le fiere, oltre a essere un rischio a ogni edizione, sono estremamente rapide e estremamente costose. Passando un po’ di tempo in città riusciamo ad ammortizzare le spese e a raggiungere più tranquillamente i collezionisti che ci visiterebbero in fiera», ci racconta il gallerista.
Chissà...Se la moda delle gallerie pop-up prenderà seriamente piede, per le capitali europee sovraffollate di Airbnb, questa possibilità potrebbe diventare un ulteriore, piccolo ma importante, segmento del mercato immobiliare degli affitti brevi. Design Week docet, e altro che requiem alla gentrifricazione.

Yann Leto, «La Mascara», 2024. Cortesia della Galleria Karen Huber