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Simone Trabucchi e Simone Bertuzzi

Photo: Alessandro Muner

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Simone Trabucchi e Simone Bertuzzi

Photo: Alessandro Muner

#MaoTempoPresente: Invernomuto

La rubrica di interviste con lɜ artistɜ che reinterpretano il museo torinese attraverso il contemporaneo, a cura di Chiara Lee e Alessandro Muner, in collaborazione con «Il Giornale dell’Arte»

Invernomuto è il nome sotto il quale Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi collaborano dal 2003. Di base a Milano, sviluppano progetti di ricerca a lungo termine che si articolano nel tempo e nello spazio, generando cicli di lavoro interconnessi. A partire da una base teorica condivisa, Invernomuto sviluppa un pensiero aperto e rizomatico, che si traduce in esiti differenti: immagini in movimento, suono, azioni performative e progetti editoriali, all’interno di una pratica definita dall’uso, diffuso ma anche puntuale, di diversi media. Entrambi portano avanti anche linee di ricerca individuali, tramite i rispettivi progetti: Palm Wine e STILL.

Li abbiamo incontrati lo scorso giugno in occasione di «Spellbound!», a cura di ALMARE: un evento di 18 ore nel parco del PAV-Parco Arte Vivente di Torino, dedicato a esplorare le pratiche sonore come strumento di riflessione critica sul nostro rapporto con l’ambiente, realizzato con il contributo di Fondazione Compagnia di San Paolo, Ministero della Cultura, La Beque Résidence d'artistes e il supporto e la collaborazione del Mao. In quell’occasione il duo ha presentato un’iterazione preliminare del loro nuovo progetto, «Triton», sotto forma di sleeping concert.

Sostenuto dall’Italian Council e sviluppato inizialmente all’interno del Principal Residency Programme di La Becque (CH), Triton prende avvio da Pietra Perduca, una formazione rocciosa nella Val Trebbia che ospita due antichi bacini d’acqua abitati da tritoni, creature considerate draghi nel folklore locale. Attraverso composizioni sonore cerimoniali e musica funzionale, Invernomuto indaga come mito, magia ed ecologia si intreccino in questo microcosmo, che diventa il modello per un dispositivo sonoro in continua evoluzione.

Chiara Lee: Partiamo da questa notte: uno sleeping concert per immergersi in un’esperienza sonora legata al vostro nuovo progetto «Triton». Che cosa possiamo aspettarci?

Simone Bertuzzi: «Triton» è un progetto che abbiamo iniziato circa due anni fa. Noi tendiamo a lavorare per cicli di opere più che per progetti chiusi e definiti; quindi questo per noi è un po’ un nuovo ciclo che segue altri lavori realizzati in passato, come «Negus» o «Black Med», per esempio. «Triton» nasce da un’ambizione che è quella di provare a immaginare un device tecnologico che funzioni un po’ come un companion, una sorta di Tamagotchi evoluto, per certi versi, o di Alexa disfunzionale, che stiamo effettivamente progettando e producendo. Il progetto è legato a un luogo che esiste realmente, che si vedrà in parte stanotte. Si chiama Pietra Perduca e si tratta di due vasche scavate nella roccia, in Val Trebbia, in provincia di Piacenza, il luogo da cui proveniamo. Sono due vasche dove, da secoli, a quanto pare fin dall’età del bronzo, vivono queste colonie di tritoni, piccoli anfibi, da cui deriva anche il titolo del progetto, che stiamo osservando: in particolare, abbiamo installato una camera e una serie di sensori in quel luogo, dai quali sostanzialmente prendiamo dei dati che andranno a influenzare il comportamento del nostro device tecnologico. Stasera il progetto vuole, in qualche modo, raccontare soprattutto una parte di ricerca sonora. Sperimenteremo un po’ di patch generative che stiamo costruendo per il progetto; in questo senso, la notte suonerà un po’ come immaginiamo che possa suonare questo device che stiamo progettando.

Photo: Alessandro Muner

C.L.: «Triton» è parte di un progetto più ampio che coinvolge vari partner e che presenterete nel 2026 anche al Mao. Quello di stasera è solo uno dei vari capitoli. Come si sta evolvendo?

S.B.: Come spesso accade, i nostri progetti hanno delle vite abbastanza articolate. Insomma, «Triton» attualmente lo stiamo finanziando con Italian Council, un grant ministeriale, ed è realizzato in collaborazione con una serie di partner e di enti. L’ente proponente è Haus der Kunst di Monaco, che accompagna il progetto dall’inizio e lo seguirà fino all’estate prossima. Poi ci sono una serie di partner, tra cui il Mao di Torino e un museo destinatario con collezione pubblica italiana. Questo è previsto dal meccanismo ministeriale di questo tipo di finanziamento dell’Italian Council, che nel nostro caso è Museion di Bolzano. In qualche modo, quindi, il progetto farà tappa in tutti questi enti, in varie forme, per poi approdare a Museion nell’estate del 2026. Questo device, per chiudere con un elemento progettuale in più che per noi è abbastanza importante, è una sorta di scultura sonora, che però non è progettata per essere esposta in uno spazio museale: non sarà quindi esposta a Museion, per esempio, ma è più pensata per essere presa a noleggio dal pubblico. Chiunque potrà, con tutta una serie di questioni ancora da capire dal punto di vista burocratico, prenderlo, tenerlo per una settimana o dieci giorni, e conviverci in una dimensione assolutamente privata. Questa convivenza verrà registrata nella vita del device, che è quindi un’entità che si evolverà nel tempo.

C.L.: Una sensibilità ecologica espansa, capace di riconoscere non solo gli ecosistemi materiali, ma anche i paesaggi culturali, simbolici e sonori, è uno dei nuclei tematici di «Spellbound!», il festival curato da ALMARE. In che modo il vostro lavoro si intreccia con questi temi?

Simone Trabucchi: Di base, questo progetto nasce proprio dall’osservazione di un ecosistema molto delicato e, al tempo stesso, piuttosto immortale. La parte di leggenda e mistero legata a queste Vasche dei Santi, come venivano chiamate, è quasi legata al fatto che l’acqua non evapora e rimane quasi sempre alla stessa temperatura e i tritoni sono stati quindi in grado di mantenersi vivi così a lungo. Quindi, in realtà, anche il lato della sopravvivenza è importante rispetto a questa storia, perché sono creature che, grazie a questa particolarità dell’ecosistema, sono state capaci di mantenersi nel tempo. L’idea di installare una webcam, idea che a noi inizialmente sembrava anche abbastanza banale, in realtà è stata giudicata dai diversi studiosi con cui ci siamo confrontati come la cosa più sensata. Perché effettivamente ci permette di raccogliere tutta una serie di dati di osservazione che altrimenti sarebbe stato impossibile ottenere e che, comunque, non erano mai stati raccolti fino ad ora. Il progetto parte quindi da questo ecosistema, per noi in forma di ispirazione, anche astratta, se vogliamo, non oggettiva, ma con tutti questi dati che, in realtà, stanno sotto a fare un po’ da magma, da cui poi nascono altri output.

Photo: Alessandro Muner

C.L.: Nei vostri lavori emerge spesso la volontà di coinvolgere altri attori e di favorire lo scambio di conoscenze, penso ad esempio a «Black Med» che intende il Mediterraneo come un’entità fluida che favorisce la formazione di reti e di scambi e che nelle sue varie interazioni contiene voci e identità multiple. Quanto è cruciale per voi costruire e mantenere questi legami?

S.B.: Il lavoro di apertura ad altri contributi esterni per noi è fondamentale da sempre, anche perché sarebbe riduttivo da parte nostra immaginare un progetto come «Black Med» senza il contributo di altri punti di vista. È un progetto che ha a che fare con il Mediterraneo, o con un’idea anche immaginaria o metaforica di Mediterraneo, e di conseguenza questa macroarea ha bisogno di essere osservata da più punti di vista. Anche su «Triton», e in generale nella nostra pratica, l’idea è quella di aprire per provare ad avere prospettive e traiettorie diverse che si incrociano. Nel caso di «Black Med», se vuoi, è quasi più letterale, nel senso che diventa anche una questione legata a urgenze politiche contemporanee o degli ultimi decenni. È un progetto che ha molto a che fare con questi aspetti, o con l’idea di confini e di attraversamento di confini. Quindi, chiaramente, dal nostro punto di vista privilegiato sarebbe impossibile poter raccontare la storia in maniera completa: sarebbe una narrazione parziale, e quindi chiaramente abbiamo bisogno di farla raccontare in tanti modi diversi.

C.L.: Perché la scelta di fare proprio uno sleeping concert legato a questo progetto?

S.T.: Abbiamo già fatto altri sleeping concert in passato ed è un formato che in realtà abbiamo conosciuto e vissuto a Raum (lo spazio di Xing a Bologna) anni fa, quando facevano questa serie di concerti ormai leggendari chiamati «Hypnomachia». È quindi un formato che per noi è stato molto importante per la nostra crescita. Anche il discorso dell’ambient viene approfondito in maniera un po’ diversa: non diventa musica di sottofondo, ma musica funzionale al sonno e a un certo tipo di sonno. È quindi curioso come formato e ci permette di fare diversi esperimenti.

S.B.: In più, la lunga durata, l’estensione così esasperata, per certi versi, funziona molto bene con il progetto. L’idea di questo device, «Triton», è che emetta sostanzialmente suono, in maniera perpetua e costante. Quindi è una sorta di flusso infinito. Poi c’è anche l’urgenza di avere un output performativo per noi. Sono progetti che magari hanno aspetti di ricerca molto approfonditi, molto complessi e questo tipo di attività, soprattutto la parte di listening session che faremo all’inizio, vuole essere anche abbastanza divulgativa, nel senso che c’è un testo, quasi dei micro-saggi, che raccontano tutti i brani che suoniamo, e l’idea è quella di aprire la ricerca. Il progetto è assolutamente in fieri: non è proprio agli inizi, ci stiamo già lavorando da un po’ di tempo, però chiaramente questo formato è un modo per presentare un work in progress e iniziare, da un lato, a farci i conti e alfabetizzare un po’ noi stessi con queste tematiche, e dall’altro a portarlo fuori da noi, raccogliendo feedback dalle persone che lo vedono e lo ascoltano.

Intervista a cura di Chiara Lee
Riprese e montaggio a cura di Alessandro Muner

Chiara Lee, 15 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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