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Marco Ciatti nel Museo di Orsanmichele

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Marco Ciatti nel Museo di Orsanmichele

Marco Ciatti: il restauro «impossibile» è stato Vasari

All’Opificio delle Pietre Dure va in pensione dopo 38 anni il soprintendente che nell’ultimo decennio ha diretto il prestigioso Istituto, dal 2019 dotato di autonomia scientifica, finanziaria, organizzativa e contabile. Assunti 25 ex allievi 

Dal 2012, per dieci anni, lo storico dell’arte Marco Ciatti è stato il soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure. Dal primo agosto, in pensione, lascia questo Istituto di particolare importanza che dal 2019 il Ministero della Cultura ha dotato di «autonomia speciale»: scientifica, finanziaria, organizzativa e contabile. Ciatti (Prato, 1955) ha cominciato il suo lavoro all’Opificio 38 anni fa e, una volta nominato al vertice, direttore e poi soprintendente dal 2012, ha gestito con competenza e saggezza questa struttura fondamentale per la conservazione del nostro patrimonio artistico. L’Opificio delle Pietre Dure è una delle nostre eccellenze. Dal 1975 Istituto Nazionale, al centro della sua attività sono il restauro ma anche la ricerca, con lo studio dei problemi teorici e pratici posti dalla manutenzione del patrimonio artistico e la didattica, mentre dal 1998 è Scuola di Alta Formazione che rilascia un diploma equivalente alla laurea magistrale. L’Opificio è erede di una storia iniziata nel 1588 quando fu creato da Ferdinando I de’ Medici come manifattura di corte per il cosiddetto commesso fiorentino. Diventò laboratorio di restauro a fine ’800 e dal 1975 le sue competenze si sono ampliate: ha anche un suo museo che espone i preziosi oggetti d’arte in pietre dure prodotti nell’epoca medicea, a decoro delle dimore dei reali europei. All’Opificio si restaura ogni forma d’arte, compresi tessuti, arazzi, tappeti, in una sala di Palazzo Vecchio. La struttura è divisa in 11 settori secondo i diversi materiali da restaurare. Il cuore dell’attività è nei vasti, attrezzati laboratori di restauro della Fortezza da Basso dove, negli ultimi decenni, sono tornati a splendere i capolavori dei massimi pittori di ogni epoca: da Cimabue, Giotto, Beato Angelico, Botticelli, Raffaello, Leonardo, Caravaggio ecc. fino agli artisti contemporanei. La stessa eccellenza vale anche per il restauro innovativo di preziose opere in bronzo, come la Porta del Paradiso di Ghiberti, e le figure dorate di Donatello, ancora in corso.

Professor Ciatti, ha lasciato da poco l’Opificio che ha contribuito a rendere famoso nel mondo. Pensa che continuerà a seguire la strada che lei ha tracciato?
Sono abbastanza tranquillo per il futuro della nostra struttura interna: positiva l’attività dei funzionari e, negli ultimi tempi, la presenza di giovani molto bravi e reattivi, che conoscono bene le tecnologie e il mio modo di condurre le cose. Ho cercato di renderli sempre più partecipi delle decisioni e certo sapranno cosa fare. Il personale tecnico ha avuto di recente un parziale ricambio con il concorso per restauratori. Ne sono stati assunti 25, la maggior parte nostri ex allievi: hanno le competenze tecniche che restano la nostra grande ricchezza. I problemi da noi sono nel settore uffici dovuti soprattutto alla crisi degli organici del Ministero. Li subiamo tutti i giorni. Ho dovuto trovare altre strade per tamponare la situazione, facendo anche ricorso alla società «in house» Ales, come molti altri istituti statali. Siamo comunque fortunati perché il Ministero a livello di finanziamenti ci ha sempre sostenuto. Non abbiamo mai dovuto rinunciare a un progetto.

L’Opificio è un organismo grande e complesso, un insieme di uffici, laboratori con campi d’azione diversi e perfino un museo. Esiste qualcosa di simile?
C’è l’Istituto Centrale del Restauro di Roma, che ha una struttura abbastanza simile alla nostra e con il quale abbiamo sempre collaborato. Tutti gli altri, sparsi nel mondo, sono espressione di un museo. Certo, alcuni, come i laboratori di restauro della National Gallery di Londra, sono apprezzati a livello internazionale, ma tutti restano legati alle proprie collezioni. Unica eccezione il Belgio che ha creato una struttura pubblica, l’Istituto Reale per il Patrimonio Artistico (Kik-Irpa).

La sede, e l’attività, dell’Opificio è sempre stata Firenze. Come sono i vostri rapporti con la città?
L’Opificio ha alcune grandi fortune: la prima è quella di essere sentito da Firenze come un suo fiore all’occhiello: la città e le sue istituzioni tengono a noi. Molto importante il ruolo della nostra principale fondazione bancaria, la Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. Da qualche anno ha creato addirittura una sua funzione operativa, la Fondazione Opificio, per collaborare con noi. Non soltanto eroga ogni anno fondi che vanno soprattutto al personale necessario in ruoli per noi strategici, ma partecipa a iniziative comuni delle quali si fa carico per la parte economica e gestionale. Una seconda fortuna è per noi la presenza a Firenze di tanti istituti scientifici e di ricerca che lavorano sui beni culturali. Con il tempo si è formata una rete consolidata con l’Area di Ricerca del Cnr e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) che, a seconda delle esigenze, sono nostri partner abituali. Ma da diversi anni la nostra rete di istituti di ricerca è estesa a tutta Europa. Purtroppo il laboratorio scientifico dell’Opificio ha ridotto la sua attività per carenza di esperti: secondo l’organico dovrebbe averne 11 ma ne ha soltanto tre.

Anche per questo dovete ricorrere a quella che lei chiama «rete»?
È così. Del resto lo sviluppo tecnologico è continuo, ad esempio nell’uso dei laser. Con tre esperti scientifici è impossibile seguire ogni innovazione ed essere efficienti. Anche per questo ci rivolgiamo alla «rete», quella fiorentina, ma anche italiana ed europea, per i tanti, diversi tipi di analisi delle quali abbiamo bisogno. Quindi la parola d’ordine è «collaborazione», questa è la chiave per gestire l’Istituto com’è oggi. Non siamo né un grande museo che ha il suo istituto, né ci spettano i diritti di tutela che possiede una Soprintendenza territoriale. Noi lavoriamo solo se qualcuno ce lo chiede e ci coinvolge. Capacità di collaborare e competenza sono le nostre qualità fondamentali.

Quali sono le istituzioni e i musei, italiani e stranieri, che collaborano con voi e per le quali l’Opificio è punto di riferimento? 
L’elenco di quelle istituzioni sarebbe lunghissimo, esteso a tutto il mondo. Cito, nella sola Firenze, la Fondazione Palazzo Strozzi e le tre principali «Opere» della città, quelle di Santa Croce, del Duomo, di San Lorenzo. Molto stretta è poi la collaborazione con gli Uffizi, per i quali facciamo consulenze per i problemi di conservazione delle opere anche se non eseguiamo tutti i restauri: impostiamo invece le gare per la scelta delle ditte di restauro che poi seguiamo durante il lavoro. Con gli Uffizi abbiamo da poco anche un accordo per il biglietto unico che ha portato un incremento di visitatori nel nostro piccolo Museo delle Pietre Dure.

Per le sue tecniche ma anche per gli studi e le teorie sul restauro, l’Opd è diventato un modello per le grandi istituzioni del mondo. 
Due elementi hanno favorito la fama dell’Opificio: la continuità di indirizzo, dovuto a personalità che l’hanno diretto, come Antonio Paolucci, Giorgio Bonsanti, Cristina Acidini, e anche il fatto che io sia rimasto all’Opificio per tanti anni.

Lei ha detto che l’Opificio svolge un vero «servizio pubblico». Una definizione impegnativa. 
Crediamo in questo tipo di lavoro proprio come servizio pubblico. Lavoriamo soprattutto per lo Stato, con soldi dello Stato. Ma operiamo anche per il territorio, per le Soprintendenze e abbiamo un’ampia diversificazione. C’è una grande apertura: in un piccolo borgo della Val di Pesa c’è una chiesa dell’Arciconfraternita della Misericordia con un’importante croce dipinta da Simone Martini, in degrado. Al grido di allarme abbiamo risposto ed eseguito il restauro. Anche questo è servizio pubblico. A noi resta la soddisfazione: assistere alla festa del paese al ritorno della croce dopo il restauro. A quell’opera di Simone Martini sarà dedicato il prossimo volume della nostra collana.

L’Opificio è quindi anche editore? 
Mantenere e far conoscere i nostri beni culturali è «servizio pubblico». Con le nostre pubblicazioni vogliamo aumentare la consapevolezza e aiutare questo mondo, che non sa più da dove viene e dove vuole andare, a conoscere le proprie radici. Anche per questo nel 1986 siamo partiti con una rivista annuale, «OPD Restauro», che da allora esce tutti gli anni. Dal 1990 abbiamo anche una collana monografica, «Problemi di conservazione e di restauro», e adesso abbiamo addirittura cinque collane di studio.

In quei volumi si parla anche dei progressi e dell’evoluzione delle tecniche di restauro. Sono stati fatti grandi passi avanti?
Oltre ai cambiamenti delle tecniche e dei materiali, nel restauro sono cambiate le idee. Non ci siamo accontentati dei risultati già raggiunti. Abbiamo cercato sempre più di affinare, di cercare materiali meno invasivi ma più mirati, più efficaci. Quindi sono stati trovati materiali nuovi, ad esempio per la pulitura dei dipinti. Adesso è comune l’uso dei laser e si applicano procedure particolari per la pulitura dei metalli, anche dorati. Ricordo il complesso restauro della Porta del Paradiso di Ghiberti, che stava perdendo la doratura ed era stata danneggiata dall’alluvione del 1966: ha segnato una svolta con un know-how che ha rivoluzionato il modo di restaurare i grandi bronzi. Quel restauro, iniziato negli anni ’80, è durato vent’anni, ma per le due successive porte del Battistero, con le nuove tecniche ne sono bastati sei. Per servizio pubblico intendo anche questo. Circa le nuove tecniche per i dipinti ricordo il caso straordinario dell’«Ultima Cena» di Giorgio Vasari, anch’essa danneggiata gravemente dall’alluvione. Era rimasta nei depositi per 40 anni, perché giudicata non restaurabile. Lo considero il caso più difficile che abbiamo mai affrontato. Sembrava impossibile, ma non ci siamo arresi: ci sono voluti più di dieci anni di lavoro ma grazie al nostro progetto di restauro e alle nuove tecniche, nel 2016 l’«Ultima Cena» è tornata in Santa Croce.

Si parla molto delle grandi difficoltà nel restauro dell’arte contemporanea. Per quale ragione?
La prima difficoltà è capire quali devono essere le scelte teoriche. La teoria per il restauro di opere del passato è ormai nota e chiara. Bisogna vedere come adattarla a opere di oggi, molto diverse. Per esempio: per l’arte del passato la materia e la mano dell’artista sono insostituibili. Un’opera di Raffaello ha un valore enorme perché fatta da Raffaello. Ma quando si tratta di installazioni ha lo stesso valore? Anche se si tratta di oggetti comprati e messi insieme? E quando quegli oggetti sono deperiti in modo irreversibile ha ancora senso parlare, con quella materia, del corpo dell’autore che dà valore all’opera? Oppure il valore dell’opera è nell’idea e quindi, ove si trovasse lo stesso materiale, lo si potrebbe sostituire e far esprimere di nuovo all’insieme lo stesso concetto? Quesiti che sono ancora argomento di dibattito.

All’Opificio si restaurano da tempo opere contemporanee.
Abbiamo un servizio trasversale per l’arte contemporanea. Per alcune opere il nostro know-how funziona bene. È accaduto per esempio con un quadro di Pollock, tra i suoi primi lavori dell’Informale. Ma si trattava sempre di una tela con gocciolature di colore sopra. Per il restauro di altre opere contemporanee, dipende dai materiali. È sempre necessaria una fase di studio del materiale. Oggi viene usata una varietà di materiali molto più ampia di quelli del quali abbiamo ormai esperienza.

Edek Osser, 01 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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