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Maria Vittoria Baravelli
Leggi i suoi articoliSiamo fatti della stessa sostanza dei sogni, afferma Shakespeare, e Margherita Hack ribadisce che quella sostanza è polvere di stelle. Fra queste due verità, una poetica, l’altra scientifica, si insinua la lunga scia delle comete, lampi d’infinito che tagliano il buio solo per lasciare a noi umani un istante di meraviglia. È la stessa scintilla che guida Maria Grazia Chiuri sin da quando, bambina, ascoltava la madre sarta parlare alle stoffe come fossero costellazioni domestiche. Roma le affida il senso della storia, Parigi la disciplina dell’atelier, ma è nel ritorno a casa, con la rinascita del Teatro della Cometa di Roma, che la sua traiettoria si compie. La Cometa, piccolo gioiello voluto da Mimì Pecci Blunt a metà Novecento, è stata pensata come un osservatorio terrestre dove l’umanità potesse interrogare il mistero. Chiuri ne ha curato il restauro non per nostalgia, bensì per riaffermare che il teatro, come la moda, è un luogo dove la bellezza non si incornicia: si indossa, si vive, si partecipa. Ogni sipario che si apre assomiglia alla coda iridescente di una cometa: promette un viaggio, ma soprattutto illumina ciò che di solito resta in ombra: gesti, corpi, idee. Così dagli abiti armatura di Chiuri, t-shirt femministe, giacche e ricami che diventano slogan, si perviene a un progetto culturale speciale, un palcoscenico permanente per l’arte, la cultura, gli incontri e i segreti.
Dai tessuti con riferimenti a Carla Lonzi, le opere di Isabella Ducrot e Mariella Bettineschi, a un teatro nuovo e antico al tempo stesso. Genealogie di donne che, come Pecci Blunt, hanno usato la cultura come arma gentile verso i tempi che corrono. E se il vestito, negli anni, per Maria Grazia Chiuri è diventato «testo politico che cammina», il teatro risulta casa comune di quelle parole traiettoria. Qui, artisti, musicisti, danzatori, novelli astronomi dell’interiorità, ricorderanno al pubblico che siamo attratti da ciò che non comprendiamo: una tela, un movimento, un riflesso di luce. La bellezza, quando vibra sul palco o sulle passerelle, non è ornamento: è bussola. In fondo Maria Grazia Chiuri sembra suggerirci che siamo tutti viaggiatori siderali: polvere di stelle con il cuore pieno di sogni, alla ricerca di un sipario che si apra sull’infinito e sulla rappresentazione. Il Teatro della Cometa, restaurato e riacceso, è quel varco. E ogni abito che sfila, ogni battuta che risuona, ogni mostra ospitata o spettacolo inscenato, ogni archivio riscoperto dentro le sue mura, ci ricordano che tra cielo, stoffa, fotografie e materiale passato, l’uomo continua a cucire significati, a inseguire comete, a restare incantato da tutto ciò che non sa spiegare. Perché, come ci insegnano i poeti, sacro non è raccontare ciò che sai ma quello che ti commuove e non sai perché.
Il Teatro della Cometa: un nuovo progetto dal volto antico. Mi racconti di Miss Pecci Blunt, detta Mimì?
La cosa incredibile è come, attraverso la ricerca sul teatro, siamo arrivati a conoscere la storia straordinaria di questa donna solo dopo la sua morte, nel 1973. Mimì nasce in una nobiltà non particolarmente ricca e non ha un’educazione accademica, ma possiede una grande curiosità per l’arte. Arriva a Parigi dove, grazie all’aiuto di parenti facoltosi e all’ospitalità delle suore, riesce a partecipare a numerosi balli e a entrare in società; «dopo 17 fiaschi», sottolineava lei, sorridendo del fatto di non essere una donna molto bella. Lì conosce e sposa Cecil Blumenthal, ricco banchiere americano appassionato di arte, sancendo l’inizio della sua emancipazione: una meravigliosa casa in rue de Babylone, la possibilità di conoscere gli artisti dell’epoca e soddisfare ogni curiosità. Si sposta poi a Roma, acquista un bellissimo palazzo, frequenta l’ambiente artistico romano, crea scambi e inviti. Parigi era stata la sua università, ma è Roma che la fa innamorare. Colleziona vedute romane, un’enorme raccolta che alla sua morte dona al Museo di Roma, e tra il 1936 e il 1938 è tra i primi a comprendere l’importanza delle neonate avanguardie, al punto da decidere di aprire una galleria d’arte. Invita artisti, tra cui gli allora poco noti Cagli, Afro e Mafai, ma anche scrittori come Ungaretti, incarnando quel clima di passione condivisa della Roma degli anni Trenta raccontata da Libero De Libero. Con lo stesso spirito, pensa anche a un teatro e nel 1937 scrive al marito per convincerlo a comprare uno spazio dove poter riunire i suoi «parenti illustri»: gli artisti. È una pioniera in una città complessa, ricca di storia, eppure capace di cercare la novità nelle avanguardie del tempo. Amava tanto l’arte quanto la musica e l’operetta, e voleva farle collaborare, ricreando un circolo culturale simile a quelli di Parigi. La sua storia mi ha affascinata fin da subito.
Come sei venuta a conoscenza di questa storia?
Ne avevo sentito parlare, ma non ne avevo compreso la portata. Poi, quando abbiamo iniziato le ricerche, abbiamo incontrato un architetto che negli anni Ottanta era un giovane tecnico di scena: lavorava per l’ingegnere che gestiva il teatro. Da lui abbiamo avuto notizie preziose riguardo la storia di Mimì e la sua genealogia, perché prima del 1985 la memoria era sfumata. Non si percepiva che il teatro fosse stato pensato già nel 1937, né che lo avesse gestito lei stessa fino al 1968, anno in cui è bruciato in un incendio. Alla sua morte gli immobili sono stati ereditati dalla figlia Viviana, che l’ha riaperto nel 1985. Abbiamo lavorato con Open Care a Milano e l’architetto, indagando sugli arredi e i lampadari, per capire se fossero autentici, ritrovando gli schizzi di Tomaso Buzzi e facendo enormi ricerche d’archivio per ridare al posto lo spirito originario senza tradirlo. All’inizio avevamo ricevuto varie proposte, ma abbiamo capito subito che non funzionavano. Siamo andati negli archivi della famiglia a Marlia, alla Villa Reale; un luogo stupendo, acquistato 11 anni fa e restaurato, appartenuto alla sorella di Napoleone, con 16 ettari di parco e un teatro di verzura in stile neoclassico, dove Mimì riceveva i Balletti Russi, ospiti illustri, amici come Jean Cocteau. Davvero un luogo d’altri tempi.

Mimì Pecci Blunt sul palcoscenico del Teatro Della Cometa di Roma nel 1960. Photo: Slim Aarons/Getty Images
Come sei arrivata fin qui nella tua carriera?
Io navigo a vista, senza piani. È tutto consequenziale, legato a interessi personali. Lo stesso amore per la moda è nato da passioni personali, non da un progetto predefinito. L’arte mi è sempre piaciuta, ma è rimasta un hobby, non una professione.
Esiste, secondo te, una sindrome di Stendhal? Che cosa ti trasmettono le opere?
Credo che ogni persona possa avere reazioni diverse davanti all’arte. Ciò che vedi ti risuona, ti fa riflettere, ti offre un punto di vista sempre diverso. Per me storia e arte sono intrecciate ed è il loro intersecarsi che ci aiuta a capire il tempo in cui viviamo.
C’è un’opera che ti ha commosso o segnato in modo particolare?
Dipende dall’età e dal momento. Sicuramente «Straniero ovunque» di Claire Fontaine, perché riflette il nostro tempo e anche me, e perché credo che tutti alla fine ci sentiamo stranieri ovunque.
Lo dici a livello culturale oppure anche per il fatto che hai giocato la tua esistenza tra l’Italia e la Francia?
Entrambi. È difficile avere realmente una «comfort zone»: la verità è che forse dovremmo abituarci a considerarci stranieri ovunque e con tutti, anche con noi stessi, e convivere con questa sensazione.
Tu con l’arte hai un rapporto particolare: ogni fase della tua vita si chiude con un’opera.
Non sempre me ne rendo conto, ma è vero. Alla fine di ogni capitolo della mia vita c’è un’opera che lo sintetizza. Mio figlio un giorno mi ha detto: «Hai una collezione». Io nemmeno ci pensavo. Negli anni ho acquistato senza sapere chi fossero gli artisti, solo perché le opere mi parlavano. Per me non era una collezione, ma una visualizzazione di momenti, molto biografica. Ho comprato due opere di Franco Angeli senza sapere chi fosse Franco Angeli; solo in seguito ho scoperto, capito, approfondito. È arrivata prima l’opera. Per me è il rapporto personale a essere fondamentale. Ho conosciuto e girato un film con Giosetta Fioroni, «Sul ramo d’oro». Con Dior ho vissuto un’esperienza bellissima: si è creata una community con molte artiste come Marinella Senatore, Fulvia Carnevale, Marinella Bettineschi, Robin Morgan, Elena Bellantoni; rapporti rimasti nel tempo. Ho comprato alcune opere pensando a mia figlia o a mio figlio, come le fotografie di Deborah Turbeville in Messico che ho preso per Rachele, e prima di Dior ho acquistato il manifesto di Lucia Marcucci. L’ho visto e l’ho comprato subito, d’impulso. Anche Ketty La Rocca. Non mi interessavano autentiche o dati: non era collezionismo, non chiedevo le autentiche: era un fatto personale, una questione di cuore. In un quadro vedo mio figlio, in una fotografia mia figlia. Non è una logica di mercato, ma emotiva, di puro istinto.
So che i libri hanno un grande valore per te. Spesso dici che si riesce a sognare molto più attraverso i libri che attraverso le immagini. È vero?
Sì, perché le immagini ti condizionano, definiscono dei contorni, inscatolano un pensiero, mentre i libri ti lasciano immaginare. Ho imparato moltissimo da tutti i libri che ho letto, ma da un punto di vista personale il personaggio di Goliarda Sapienza mi ha incantata al punto da voler arrivare a produrne il film. Ho persino chiamato per sapere chi ne deteneva i diritti. È stata una delle mie follie, meno male che li avevano già comprati! Quando ho deciso di acquistare il teatro, mio marito non era certo che mi rendessi conto della portata della mia scelta: «Nessuno si compra un teatro, che cosa stai facendo?». E una volta iniziati i lavori temeva si sarebbe rivelata una fabbrica di San Pietro. Fa parte delle mie follie: seguo l’istinto. Ma anche se si può fallire, è fondamentale agire senza limitare i propri entusiasmi. Certe volte siamo noi stessi a porci dei limiti perché abbiamo paura, perché sembra difficile o troppo utopistico. Forse la mia generazione, e credo ancor di più quella di Mimì, era più incosciente, perché non avendo accesso a così tante informazioni si lanciava di più, rischiava di più. I giovani di oggi, invece, valutano subito tutti i potenziali rischi; si tutelano, certo, ma in qualche modo si limitano anche.

Un tableau vivant organizzato il 25 giugno 1930 da Mimì. By Paul O'Doyé Parigi. Archivio Grönberg-Villa Reale di Marlia
Hai curato l’introduzione del libro «Processo alla minigonna», che raccoglie articoli di moda scritti da Oriana Fallaci negli anni Cinquanta. Che cosa puoi dirmi di questa esperienza?
È stato difficile, non penso che la scrittura sia il mezzo di comunicazione adatto a me, preferisco leggere, ma ci tenevo molto perché Oriana Fallaci per la mia generazione e per quella di mia madre è stata davvero emblematica, un simbolo. Ho letto tutti suoi libri, che vedevo in casa fin da bambina. Era un’ispirazione: donna, scrittrice, inviata speciale, coraggiosa, indipendente. Dava l’idea che le donne potessero fare tutto: scrivere e andare in guerra, truccarsi e vestirsi bene, ma anche alzare la voce contro i potenti. È stata una donna italiana ma internazionale: aveva il senso della storia del mondo.
Sei stata tra le prime a rendere tangibile il «female gaze». Che cosa ci insegnano le «vecchie zie» e che cosa invece le nuove generazioni?
Sì. Ero esasperata dallo sguardo stereotipato dei fotografi uomini. Con Valentino ho lavorato con Deborah Turbeville, poi con Sarah Moon e Brigitte Lacombe. Da Dior sembrava che non esistessero fotografe donne, persino nei libri di fotografia ce n’erano pochissime, invece bisognava solo cercarle. Feci una scelta precisa: fotografare solo con donne. Mi dissero che era una scelta discriminatoria, e ad aumentare i malumori ero anche il primo direttore creativo donna, ma per cambiare le cose era necessario che qualcuno imponesse per un po’ una scelta esclusiva, per poi renderla pratica normale. Credo che il confronto intergenerazionale sia fondamentale: le «vecchie zie» hanno una forza e una perseveranza che molto spesso manca alle nuove generazioni e al contempo le nuove generazioni hanno sicuramente uno sguardo diverso, più adatto a leggere il presente. Tuttavia, sono dispiaciuta: certi diritti che negli anni Ottanta pensavamo ormai fossero acquisiti oggi si sono rivelati solo un’illusione, bellissima, ma una grande illusione.
Se Emily Dickinson diceva che la nostra vita è un fucile carico, l’arte e la cultura fanno parte dell’illusione o possono diventare armi per cambiare le cose?
Sicuramente, l’arte e la cultura sono da sempre motori di speranza, prospettiva, cambiamento.
C’è una frase che ti accompagna?
A volte cambiano le case, il mio studio, eppure ho una stampa che mi segue ormai da anni: «Donne non si nasce, si diventa».
Come vieni a patti con l’eredità culturale che stai trovando in questo teatro, con un archivio che va raccontato senza tradirlo? C’è della nostalgia?
No, non guardo a queste cose con nostalgia, ma con interesse e curiosità. È ispirazione per leggere l’oggi. Non sono una persona che vorrebbe vivere negli anni Trenta, Cinquanta o Settanta; anzi, il passato ci consente di percepire in modo diverso le opportunità del presente. Nel caso del teatro, quello che apprezzo di più è poterlo restaurare, rinnovarlo, ridargli la vita, ma poi andare avanti, passare ad altro. Forse questo è l’aspetto della moda che mi piace di più, il cambiamento continuo, la velocità, la capacità di rigenerarsi sempre. È così noioso essere sempre uguali. Il cambiamento dà energia, dà vita e andrebbe sempre abbracciato.
Che cosa ti ferisce e che cosa ti seduce?
Mi feriscono le persone poco empatiche e al contrario mi seducono l’empatia, la capacità di creare un dialogo, di dirsi e darsi qualcosa e capirsi. Non sentirsi accolti è ciò che fa più male.
Alla fine torniamo ancora allo straniero ovunque, la nostra chiacchierata si è aperta così e si conclude così.
Esatto. La ricerca nella vita è quella per tutti: sentirsi accolti. Quando le persone qui a teatro mi dicono di sentirsi come a casa, è il più bel complimento che mi possano fare.

Uno dei tableaux vivants che lo scorso maggio, durante la mostra inaugurale, hanno evocato il Bal Blanc parigino della contessa Pecci Blunt. Photo: Laura Sciacovelli
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