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Maria Vittoria Baravelli
Leggi i suoi articoliDiane Keaton ci ha lasciato. È morta in California (Los Angeles 1946- Los Angeles 2025). Eppure è difficile crederlo davvero. Perché Diane non è mai appartenuta all’idea della fine: troppo viva, troppo ironica, troppo curiosa. Resta come restano certe canzoni, un ritornello che non smette di tornare, nei gilet maschili, nei cappelli di feltro, nelle risate improvvise che riempivano una stanza e la facevano sembrare meno seria, più umana. Nata Diane Hall a Los Angeles nel 1946, scelse il cognome di sua madre, Keaton, come segno d’indipendenza. Cresciuta tra la concretezza di un padre ingegnere e lo sguardo creativo di una madre fotografa, partì presto per New York: Hair a Broadway, poi Play It Again, Sam. Lì comincia davvero la leggenda: la scena, l’arguzia, quella svagatezza che in realtà è lucidità senza corazza, capace di trasformare la confusione in grazia, la timidezza in ironia, la vulnerabilità in forza. Una donna che non aveva bisogno di essere perfetta per essere indimenticabile.
Con Woody Allen il legame diventa un lessico: parole che inciampano e si rialzano, pause che valgono più dei discorsi. E poi c’era Woody Allen, con la sua ironia nevrotica e il bisogno costante di capire ciò che non si può spiegare. Insieme girano Sleeper, Love and Death, Manhattan, Interiors, Manhattan Murder Mystery; ma è Io e Annie (1977) a cambiare la grammatica dei sentimenti. “Annie” era il suo nomignolo, “Hall” il suo cognome: il personaggio le somiglia al punto che Diane non lo interpreta, lo abita. Sul set porta i propri vestiti: camicie bianche, gilet, pantaloni larghi, cappelli. La costumista si lamenta: “Sono imperfetti, la cravatta è annodata male, è storta, lei è impacciata; non è ‘da film’.” Ma Woody la difende: “Lasciatela com’è. È perfetta.” Quell’“imperfezione” diventa il manifesto di Annie Hall: la libertà come stile, la goffaggine come verità, l’eleganza che nasce dal non voler impressionare nessuno.
C’è una scena piccola e perfetta.
Alvy le chiede se è libera venerdì. Annie dice di sì.
Poi chiede sabato. Ancora sì.
E lui, con quella gelosia travestita da ironia:
“Vai a ruba in questo periodo.”
È una battuta sottile, pungente, dolceamara. Dentro c’è tutto: la puntura della paura, l’amore che si difende ridendo, il desiderio di trattenere ciò che per natura è aria e luce.
Diane vince l’Oscar per Annie Hall, ma la sua mappa va ben oltre. È Kay Adams ne Il Padrino, sguardo fermo davanti al potere; è Louise Bryant in Reds, passione politica e sentimento; è la fragilità luminosa di Marvin’s Room; l’intelligenza adulta e desiderante di Something’s Gotta Give; la grinta contemporanea di Baby Boom; la complicità comica di Father of the Bride. Sempre la stessa misura: profonda senza pompa, leggera senza superficialità.
Nella vita, non si sposa mai. Diventa madre per scelta: adotta Dexter e Duke, e racconta la maternità come un gesto d’amore e di curiosità. Parla dell’età senza indulgenza: “Non ho mai capito l’idea che dovresti ammorbidirti invecchiando. Rallentare non mi rappresenta.” È la sua etica: continuare. C’è un’altra immagine che la racconta: il finale di The First Wives Club (Il club delle prime mogli, 1996). Con Goldie Hawn e Bette Midler, Diane canta “You Don’t Own Me”. È un inno, un sorriso che diventa dichiarazione: non mi possiedi, non mi dici cosa fare.
Da la-di-da a you don’t own me passa un’intera rivoluzione: ridere per sopravvivere, cantare per rinascere.
Se ne va una anticonformista di Hollywood: non per posa, ma per sostanza. Ha spostato i confini con un cappello troppo grande, una cravatta annodata male e la libertà di essere esattamente com’era.
E allora, Diane, sì, vai a ruba anche adesso,
perché ogni volta in cui usciamo, non sappiamo cosa dire,
siamo messe sulle spine e ci sentiamo goffe, spettinate e maldestre,
noi ti rubiamo un gesto, una frase,
e pensiamo a te.
Annie Hall ci ha insegnato che la vita non si spiega: al massimo si canticchia; a volte ci dimentichiamo una nota, una parola. A volte sbagliamo il tono della voce o ci dimentichiamo di respirare. Qualunque cosa accada: la di da, la di da, la di da.

Diane Keaton fotografata da Jill Krementz, 1977
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