Francesca Interlenghi
Leggi i suoi articoliFino al 19 maggio il Museo di Fotografia Contemporanea (MuFoCo) di Cinisello Balsamo ospita la mostra «Mario Giacomelli. Questo ricordo lo vorrei raccontare» a cura di Katiuscia Biondi Giacomelli, direttore artistico dell’Archivio Mario Giacomelli, dando conto dell’aspetto più maturo e intimo del grande maestro italiano (Senigallia, 1925-2000), che è stato capace di costruire con le sue immagini un nuovo linguaggio di frontiera.
Il progetto espositivo, realizzato in collaborazione con l’Archivio Mario Giacomelli, occupa entrambe le sale del Museo. L’allestimento al primo piano mette insieme oltre 400 provini originali, un inedito documento video e alcuni materiali provenienti dall’archivio dell’artista, che consentono di ricostruire nei dettagli il suo processo creativo. Al secondo piano è invece presentata la selezione delle opere, 66 stampe vintage, che compongono la serie che dà il titolo alla mostra, creata dall’autore pochi mesi prima della sua morte componendo immagini realizzate negli anni immediatamente precedenti. Una raccolta dal forte accento spirituale, quasi un corpus affidato alla storia, che chiude la vicenda di Giacomelli, svelando al contempo la dimensione di messa in scena e performativa del suo lavoro. La teatralità del vero, perché: «Siamo tutti su questa terra come teatro».
«È senz’altro una storia intima, spiega la curatrice, e sono anche le centinaia di provini in mostra a dircelo. Essi sono straripanti di autoritratti, eppure in “Questo ricordo lo vorrei raccontare” solo raramente l’artista compare; per cui l’autoritratto per Giacomelli non è autocelebrativo ma funzionale all’attivazione di un rituale che necessita della sua presenza fisica sulla scena. Si presenta o di spalle, o sfuggente, o marginale, o sfocato: sceglie quegli scatti in cui la sua identità è in sospeso, perché lì lui non è il fotografo che guarda da una postazione privilegiata, ma un personaggio tra altri, “cosa tra le cose” dice, è tra corpi inanimati (animali finti, maschere, lenzuola) che lui chiama “compagni di poesia” e che sotto il suo sguardo si fanno carichi di vitalità. L’energia passa da una figura all’altra, dai soggetti al paesaggio, dall’interiorità al mondo, in un concatenarsi di immagini come manifestazione dell’inconscio, come in un sogno, emanazione di emozioni di un’intera vita. Ora che la vita si avvicina alla morte, lui dà forma all’ignoto, senza paura (la materia non si distrugge, cambia solo di forma) e fotografa un inno all’esistenza, il suo testamento artistico».
L’unico tragitto possibile per Giacomelli è quello della realtà quotidiana che lo circonda. Ma è la sua realtà, che emerge dal bianco e nero netto ed incisivo, perfino esasperato nel suo stratificarsi, dalla sgranatura e dal mosso, che apre uno spiraglio sull’invisibile, allontanando la sua opera da qualsiasi riferimento al realismo pittorico e al neorealismo cinematografico. Le immagini, volutamente granulose e talvolta imperfette, rivelano la sua predilezione per un vedere interiore e soggettivo, intriso di poesia e malinconia, che dissolve i reciproci limiti tra la fotografia e la vita, quella altrui e la sua, tessendo un intreccio indissolubile e continuo.
L’esposizione nasce dal volume Questo ricordo lo vorrei raccontare, edito da Skinnerboox e appena pubblicato, che «ha un forte impatto emotivo, chiosa Biondi Giacomelli, perché segue nell’impaginazione e nella grafica l’andamento onirico della serie. Ha diversi piani di lettura, i testi critici scendono nelle viscere di questo ricordo che Giacomelli ha voluto raccontarci, tra temi universali quali la dialettica tra vita e morte, l’essenza della percezione umana, delle cose e del tempo, il ruolo dell’arte nella sua messa in ordine del reale. Un libro preziosissimo».
E così, il fotografo che ambiva a fotografare i pensieri e che considerava le sue foto scritture segrete, non belle immagini, non fatte per essere semplicemente capite, ma interpretate, lascia a noi lettori che le guardiamo la responsabilità di scandagliare il fondo dell’esistenza per proseguire il suo di pensiero. Perché, come recita il titolo di un’altra celebre serie, tratto dall’omonima lirica di Cesare Pavese, «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» ma dentro, parafrasando i versi di Michele Mari, a ben vedere ci troverà anche i nostri.
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