Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Mattia Moreni, «Autoritratto n. 3», 1986, collezione privata (particolare)

Image

Mattia Moreni, «Autoritratto n. 3», 1986, collezione privata (particolare)

Mattia Moreni, «spiritato e irrazionale, giovane pittore di sbrigliata fantasia»

In Emilia-Romagna, sua patria d’elezione, una mostra antologica in cinque tappe, con altrettanti curatori e temi, vuole fare riscoprire un artista non adeguatamente considerato soprattutto riguardo al suo ultimo ventennio

Sanzia Milesi

Leggi i suoi articoli

«Spiritato e irrazionale, giovane pittore di sbrigliata fantasia». Il breve ritratto che Italo Calvino tracciò di Mattia Moreni (Pavia, 1920-Brisighella, 1999), alla prima personale di Torino nel 1946, fu quello che lo accompagnò per una vita intera. Moreni fu un artista irrequieto, uscito dai circuiti dell’arte internazionale anziché cavalcarli. All’apice della carriera negli anni Sessanta, abbandonò Parigi e si rintanò in Emilia-Romagna, sua patria d’elezione, precorrendo da lì per grandi cicli le correnti internazionali del tempo. Ma ritiratosi dal mainstream, per critica e pubblico divenne uno «sconosciuto». Proprio da lì riparte allora oggi un monito per la sua riscoperta con «Mattia Moreni. Dalla formazione a L’ultimo sussulto prima della grande mutazione». Sfruttando 75mila euro del fondo Pnrr, e aggiungendone altri 25mila grazie a enti e fondazioni, l’Associazione Mattia (Giuliano Ceccarelli, Antonio Barzanti e Roberto Spaccini, in primis) punta ora a «una sua ripresa a livello internazionale» con questa mostra antologica che è un tour per la regione: cinque mostre e altrettanti musei, curatori e tematiche. 

Chiudono l’11 gennaio 2026, le prime tre tappe: al Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo, dagli esordi ai cartelli, curatore Davide Caroli; al Museo Civico San Domenico di Forlì, la serie delle angurie, curatore Rocco Ronchi; alla Galleria d’Arte Contemporanea Vero Stoppioni di Santa Sofia (Fc), gli autoritratti, curatore Denis Isaia. Mentre a breve si inaugurano gli ultimi due appuntamenti: al MAMbo di Bologna, dal 30 gennaio al 17 maggio, un ricordo della personale alla Gam del 1965, a cura di Pasquale Fameli e Claudio Spadoni, e al Mar di Ravenna, dal 27 febbraio al 3 maggio, l’ultimo periodo della Regressione della specie e degli «Umanoidi», a cura di Serena Simoni. A coordinare l’intero progetto, Claudio Spadoni (Ravenna, 1944), che abbiamo intervistato.

Già negli anni Cinquanta, Mattia Moreni fu pittore di statura internazionale...
Poco più che trentenne, nel 1952, Moreni aveva fatto parte del gruppo degli Otto pittori, con Afro, Birolli, Corpora, Morlotti, Santomaso, Turcato e Vedova: artisti diversissimi, uniti fondamentalmente da ragioni strategiche, che scelsero la tutela critica di Lionello Venturi. Moreni, con la sua pittura di una gestualità divenuta di lì a poco dirompente, da espressionista astratto in sintonia con l’Action painting statunitense, suscitò  l’interesse critico di Michel Tapié che lo presentò nella parigina Galerie Rive Droite, poi nella Sala personale alla Biennale di Venezia del 1956. Poi furono Pierre Restany e Will Grohoman a presentarlo a Colonia, mentre sue opere furono presenti in mostre collettive dalla Francia alla Svizzera alla Germania, attirando l’attenzione di collezionisti europei e della Malboro che gli aveva proposto un contratto, subito rotto da Moreni per non sottostare a clausole mercantili.

Eppure oggi in pochi lo conoscono. Perché?
A Parigi dagli ultimi anni Cinquanta, con abitazione-studio al Moulin Rouge, e d’estate in Romagna, Moreni godeva di grande reputazione internazionale: basti dire della sala personale alla Biennale di San Paulo, della mostra alla Kunsthalle di Basilea accanto a Mathieu, Riopelle, Appel; di Documenta II di Kassel e diverse altre rassegne internazionali, da New York a Ottawa, e nuovamente alla Biennale di Venezia; e in gallerie di Parigi, Basilea, Vienna, oltre all’ampia antologica al Kunstverein di Amburgo. È dal suo definitivo abbandono di Parigi che progressivamente la sua notorietà internazionale entra in un cono d’ombra. Lontano da quella che era una capitale storica dell’arte, e sempre più ai margini del grande mercato, con la decisione di isolarsi alle «Calbane Vecchie», una casa fra i calanchi delle colline fra Brisighella e Riolo, era inevitabile che fosse quasi dimenticato dal mondo ufficiale dell’arte. La sua immagine restava quella dell’artista informale, magari fino alla stagione dei «Cartelli» o delle «Angurie» di una figurazione ambiguamente metamorfica. Ma i tempi erano cambiati e i cicli pittorici successivi, nonostante l’apprezzamento di critici autorevoli da Arcangeli ad Argan, Sauvage e Seuphor, sono apparsi magari come periodi di singolari ossessioni, se non di stravaganze.

Mattia Moreni, 1989. Photo: Knapp

Quale impronta ha dato al progetto che coordina e che oggi ce lo fa riscoprire?
Queste mostre che si susseguono in cinque musei pubblici, e ognuna delle quali documenta un tratto della storia di Moreni, con riferimento ai diversi cicli pittorici che la caratterizzano, si propongono di ricomporne l’intero percorso per farne conoscere anche gli aspetti meno noti. Dagli esordi con alcuni dipinti davvero rivelatori al postcubismo (senza tuttavia esserne contagiato), alle composizioni astratteggianti, fino al momento degli Otto pittori. Per passare poi, dopo le ben note stagioni degli anni Sessanta e Settanta, agli ultimi cicli dedicati a quella che Moreni chiamava la «Regressione della specie», fino all’«Umanoide tutto computer». Con un numero enorme di autoritratti, oltre 150, in un’impressionante passerella di figure tra il tragico e il grottesco. La serie delle mostre è nata da un progetto dell’Associazione Mattia (Moreni). Me ne è stata affidata la cura perché ho frequentato Moreni più di ogni altro critico, forse anche più del compianto Enrico Crispolti, autore del catalogo generale dell’artista, che conobbi proprio alle Calbane Vecchie nei primi anni Settanta. Ognuna delle cinque mostre si è avvalsa di un curatore che potesse offrire una nuova lettura di ogni ciclo moreniano.

Nuovi appuntamenti nel 2026?
La prossima mostra al MAMbo di Bologna, un capitolo particolarmente importante, rievocherà l’antologica del 1965 alla Gam-Galleria d’arte moderna di Bologna, curata da Francesco Arcangeli che ne era il direttore. Dunque un duplice omaggio: all’artista e al grande critico bolognese, che quasi un decennio prima aveva incluso Moreni nell’Ultimo naturalismo da lui teorizzato. A parte alcuni dipinti di quell’esposizione finiti in collezioni europee di ubicazione sconosciuta, quelli recuperati per la mostra sono tra i più noti dell’artista. L’ultima tappa del percorso sarà il Mar di Ravenna, nella sede della Loggetta Lombardesca, dove l’artista era stato protagonista di una rassegna dedicata al ciclo delle «Angurie» promossa nel 1975 dal direttore Raffaele de Grada, con una presentazione di Pierre Restany. La dettò telefonicamente alla compagna di Moreni, Poupy Prath, proprio un pomeriggio in cui casualmente ero da loro. 

Ogni mostra è un universo a sé, eppure nel complesso si rivive l’unitarietà del segno moreniano...
Ognuna di queste mostre ha una specificità cronologica e tematica, ma in tutte resta inconfondibile la mano di Moreni, pur nel mutare della stesura pittorica, degli spessori materici, dell’allusività iconografica. Per fare solo un esempio, il rapporto fra il giovanile spiritato autoritratto del 1947 e quelli tragico-grotteschi degli anni Ottanta è evidentissimo.

Dal punto di vista critico, come si inserisce Mattia Moreni nella storia dell’arte del ’900?
Se si considera tutto il percorso di Moreni lo si può definire uno straordinario outsider che dopo il successo internazionale ha scelto una totale autonomia rispetto alle tendenze dominanti di cui era informatissimo, ma senza esserne condizionato.   

Un suo ritratto di Moreni del tutto personale?
Me ne aveva già parlato Arcangeli, ma ci siamo conosciuti allo storico Premio Campigna di Santa Sofia. Fu l’inizio di un rapporto di frequentazione durato una vita. Mi invitava spesso a vedere sue nuove opere, che mi faceva scorrere su un enorme cavalletto nel grande capannone-studio prima di sederci a cena e fare le ore piccole. Ha sempre voluto che ci dessimo del «lei» e ci chiamassimo per cognome «come i nobili dell’Ottocento», diceva. 

Perché oggi Mattia Moreni merita una rivaltazione?
Spero che queste mostre contribuiscano a fare riscoprire un artista non adeguatamente considerato soprattutto riguardo il suo ultimo ventennio. Certo una figura tra le più singolari della sua generazione, un uomo difficile ma di un’acutezza rara, che con largo anticipo aveva prefigurato in pittura le trasformazioni antropologiche e sociali prodotte dall’elettronica: «l’unica avanguardia di una modernità, come scriveva, che non ha ancora avuto luogo».  

Mattia Moreni, «In morte di De Pisis», 1956, collezione privata

Sanzia Milesi, 14 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

Mattia Moreni, «spiritato e irrazionale, giovane pittore di sbrigliata fantasia» | Sanzia Milesi

Mattia Moreni, «spiritato e irrazionale, giovane pittore di sbrigliata fantasia» | Sanzia Milesi