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Uno still dal film «Sotto le nuvole», 2025, di Gianfranco Rosi

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Uno still dal film «Sotto le nuvole», 2025, di Gianfranco Rosi

Memorie dal sottosuolo nell’ultimo film di Gianfranco Rosi

«Sotto le nuvole», l’ultima pellicola del regista italiano che ha ricevuto il Gran Premio della Giuria al Festival del cinema della Biennale di Venezia

Bartolomeo Pietromarchi

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In una delle prime scene di «Sotto le nuvole», il nuovo film di Gianfranco Rosi nelle sale dal 18 settembre, insignito del Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival del Cinema della Biennale di Venezia, incontriamo Maria, archeologa di lungo corso al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. È lei a guidarci, con una torcia in mano, nel buio dei sotterranei del museo, tra corridoi silenziosi e depositi nascosti, dove da decenni riposano migliaia di reperti provenienti da Pompei, Ercolano, Stabia, dai Campi Flegrei e dalla stessa Napoli. Oggetti riportati alla luce dalle ceneri e poi nuovamente sepolti nel silenzio dei magazzini. Tra teli di plastica, strati di polvere, scaffalature imponenti che si perdono nello spazio, riaffiorano braccia, torsi, teste, gambe: frammenti di un’umanità che il tempo ha smembrato, e che solo la luce intermittente della torcia restituisce per un attimo al nostro sguardo. In quell’oscurità, ogni reperto sembra respirare, ogni dettaglio si anima come in un teatro delle ombre. Le figure proiettano sagome misteriose sulle pareti, e la luce e l’immaginazione dello spettatore, come accade nelle celebri fotografie di Mimmo Jodice, li trasforma in presenze vive. Maria, con il suo camice bianco, appare come una sacerdotessa laica che interroga quelle reliquie, annota, osserva, cataloga, lasciando emergere da quel buio una memoria che continua a parlare. 

Questa è solo una delle tante storie di un film composto da un grande mosaico, un racconto corale che si nutre di voci e storie intrecciate, in una Napoli lontana dagli stereotipi e dai consueti voyeurismi turistici. Rosi ci porta in luoghi poco frequentati, tra le pendici del Vesuvio e i Campi Flegrei, dove la vita quotidiana si misura con la fatica, con le lotte invisibili di uomini e donne comuni. Eppure, da queste esistenze ordinarie affiora la materia stessa del tempo: un filo rosso che lega passato e presente, in un viaggio che la circumvesuviana (ferrovia e metafora) accompagna lungo un territorio contraddittorio, sospeso tra norma ed eccezione, stabilità e catastrofe.

Dalle visioni dall’alto dell’impressionante densità abitativa dell’area vesuviana, un brulicare di case che non lascia respiro, ritratte in vedute aeree spettacolari e inquietanti, siamo continuamente ricondotti al richiamo della natura sotterranea: eruzioni sulfuree, terremoti, bradisismi. L’equilibrio precario tra l’ordinario e il catastrofico diventa la cifra stessa del racconto. Il titolo del film, tratto da una frase di Jean Cocteau («Il Vesuvio fabbrica tutte le nuvole del mondo») contiene questa ambivalenza: le nuvole come segno di leggerezza e viaggio, ma anche come metafora di ciò che sovrasta e incombe. E soprattutto quel sotto richiama le «memorie dal sottosuolo»: tutto sembra provenire da lì, dagli scavi, dai depositi, dalle viscere della terra, dalle voci nascoste di un’umanità invisibile che abita l’immensa distesa urbana.

Come già in tutti i suoi film precedenti, Rosi costruisce il racconto con frammenti: dettagli catturati dalla telecamera, brandelli di vita osservati in silenzio, lasciando che il tempo scorra fino a quando l’immagine diventa racconto. La macchina da presa non invade ma attende, si mimetizza, coglie ciò che emerge. «Il film è come un immenso fuoricampo», afferma il regista, «c’è sempre qualcosa che non vedi, ma che riesce comunque a entrare nell’inquadratura». Come nelle sequenze ambientate in un vecchio cinema abbandonato, dove sullo schermo scorrono film d’epoca che parlano di questo stesso territorio, davanti a una platea vuota, riaffiorano le tracce di una memoria collettiva. Sono immagini d’archivio che parlano ancora, che ci raggiungono come echi lontani, documenti di scelte e abitudini passate che diventano contrappunto del presente e suggeriscono nuove vie di lettura, come sottolinea lo stesso regista.

Uno still dal film «Sotto le nuvole», 2025, di Gianfranco Rosi

Il film dunque scorre come un fiume sotterraneo intrecciando storie e voci e in questo errare incontriamo archeologi giapponesi che da vent’anni scavano con ostinata dedizione, carabinieri e magistrati impegnati a contrastare i tombaroli che scendono in tunnel interminabili per inseguire i tesori nascosti, un maestro di strada in un vecchio negozio che cerca di trasmettere conoscenza ai ragazzi delle periferie più fragili, i marinai siriani che trasportano il grano da Odessa in immense navi container. E ancora i vigili del fuoco, sempre in allerta, chiamati a fronteggiare le richieste più disparate e disperate, piccolo affresco di un’umanità ferita ma tenace, che vive in equilibrio tra pubblico e privato, tra istituzioni e singoli, tra legalità e illegalità, trovando nella solidarietà un filo di salvezza comune. Tutto si tiene in un equilibrio fragile, in una tensione costante, in una narrazione mai scontata, fatta di sussurri e di silenzi, di presenze e di assenze.

In questo ordito di frammenti, ciò che emerge è l’interesse di Rosi per la sottile linea che separa il vero dal falso: non una verità assoluta, ma una verità che si costruisce nella trasformazione della realtà e nella sospensione tra passato e presente. È qui che il silenzio diventa parte integrante del racconto: non semplice assenza, ma respiro che lega una storia all’altra, pausa necessaria che permette alle immagini di sedimentare. Persino i suoni, magistralmente realizzati da Daniel Blumberg come un «paesaggio sonoro», sono trattati come materia viva: lungo tutto il racconto come accenni che discretamente sottolineano e legano, o evocano come nella scena finale del film, tra le rovine sommerse di Baia, amplificano questa idea di sospensione, come se i suoni stessi provenissero dal fondo della memoria.

Ed è in questa dimensione che Rosi appare come un moderno viaggiatore, un esploratore che ci guida «in viaggio» e che si sente, come lui stesso ci dice, «come un nomade con la macchina da presa: come uno straniero che viene accolto dai suoi personaggi, che diventa complice delle storie che raccontano dinanzi all’obiettivo». È questa la chiave con cui bisogna guardare ciò che Rosi ci fa vedere. Ogni film è un attraversamento e una esperienza vissuta, un viaggio che diventa metafora del mondo e della vita: il raccordo anulare di «Sacro GRA», i confini di «Notturno», l’approdo/naufragio di «Fuocoammare», il viaggio stesso del papa in «In viaggio». Qui, in «Sotto le nuvole», la circumvesuviana diventa un filo che lega persone e luoghi, mentre la nave che trasporta grano dall’Ucraina proietta improvvisamente questo racconto locale nella dimensione della «Storia» universale e dell’attualità più bruciante. È in questo continuo attraversamento di geografie, di tempi e di coscienze che si colloca la forza poetica del film: un’opera che non si limita a osservare, ma che ci conduce dentro il viaggio stesso, trasformando lo sguardo in esperienza e l’esperienza in memoria condivisa.

«Sotto le nuvole» è allora un racconto che lega tempi e spazi (il sopra e il sotto, il passato e il futuro, la memoria e l’oblio) e che intreccia destini e coscienze. In questo grande affresco in bianco e nero, Gianfranco Rosi ci consegna ancora una volta non solo un film, ma un’opera che è al tempo stesso testimonianza, visione e capolavoro d’artista del nostro tempo.

Bartolomeo Pietromarchi, 30 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

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