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Giovanni Pellinghelli del Monticello
Leggi i suoi articoli«Barocco globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini», alle Scuderie del Quirinale di Roma fino al 13 luglio, mostra nata dagli sforzi uniti di Scuderie del Quirinale, Galleria Borghese e Gallerie Nazionali Barberini Corsini, esplora (ed è la prima volta) le relazioni fra Roma «Caput Mundi» barocca e il resto del mondo nel XVII secolo declinandole sul concetto di globalità. Una rassegna che riunisce dipinti, sculture e varie opere dei grandi del Barocco: Bernini, Van Dyck, Poussin, Pietro da Cortona, Lavinia Fontana, Nicolas Cordier, Pier Francesco Mola, Valentin de Boulogne, Simon Vouet ecc. di provenienza europea e non.
Si racconta così, partendo dai risultati del programma diplomatico (e fideistico) di Paolo V Borghese che fece di Roma il motore di relazioni diplomatiche e transculturali mondiali, quanto la vocazione cosmopolita di Roma e quella universalistica dei papi abbia influito sull’arte del Seicento, ed è quel che evoca il titolo della mostra: il rapporto fra Roma nel Seicento, fulcro del canone artistico occidentale, e gli universi culturali esterni ed estranei a quel canone, nell’ampio contesto di Americhe, Africa, Asia: il Globo intero.
«Tutto parte da Paolo V Borghese, illustra Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese e curatrice della mostra con Francesco Freddolini (Roma-La Sapienza), il pontefice che da Roma, fra 1605 e 1621, vide una sfolgorante ripresa dei rapporti con i Paesi extraeuropei. Politicamente Paolo V era costretto a destreggiarsi fra tracotanza e aggressività delle grandi potenze europee mentre il mondo oltre l’Europa gli era scenario in cui la fede, il sapere e il carisma di Roma avrebbero trovato più largo orizzonte, d’accudire con più immaginazione e più ardire. Le scoperte geografiche, il confronto con le culture altre avviato dai viaggiatori al loro ritorno, l’incanto d’un Oriente favoloso quanto il mito antico, l’arrivo e lo studio di fiori, frutti e animali sconosciuti, tutto contribuiva ad ampliare i confini visivi anche di chi non si era mosso da Roma ma a Roma vedeva arrivare il mondo. Fra turbanti turcheschi, piume e pellicce, sete fruscianti e abiti di fogge mai viste, materiali preziosi, animali rari, i cortei, costumi e doni degli ambasciatori “venuti da lontano”, riuniti dallo sguardo degli artisti a dare nuove idee e ispirazioni, risorse e immagini in quella Roma paolina che, incontro vivace di culture e storie distanti e diverse, si avvia a diventare la “Roma globale” della mostra».

Gian Lorenzo Bernini, «Rio della Plata (bozzetto preparatorio per la Fontana dei Fiumi)», 1649-50, Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro. © Direzione regionale Musei Nazionali Veneto “su concessione del Ministero della Cultura
Il percorso è articolato in 9 sezioni: la prima si intitola «Roma Globale», in cui l’audacia inclusiva della mostra trova sintesi scenografica, estetica, storica e simbolica nell’opera di Francesco Caporale (attivo 1608-50 ca), capofila della scultura policroma protobarocca a Roma. Apre il percorso espositivo il busto in marmo nero e altri colori di Antonio Manuel Nsako Ne Vunda, principe de Nfuta ambasciatore del Regno del Congo (Roma, Santa Maria Maggiore), primo diplomatico africano alla Santa Sede e primo africano decorato di un monumento funebre pari a quelli dell’aristocrazia romana. Antonio partì nel 1604 come plenipotenziario del re del Congo Alvaro II (1565-1614) per ottenere l’indipendenza da Filippo II di Spagna col sostegno della Santa Sede. Sfinito dalle peripezie del viaggio, a stento raggiunse Roma a fine 1607, dove fu curato per ordine di Paolo V che il 5 gennaio 1608 si recò addirittura al suo capezzale a riceverne le credenziali. Poche ore dopo il colloquio, Antonio morì. Per l’origine esotica e il simbolismo della missione diplomatica (intesa a Roma come ritorno del Re Mago di pelle scura, Balthazar, anche per coincidenza di date), Paolo V volle per lui funerali fastosi che riempirono le cronache e affidò a Francesco Caporale la realizzazione del busto in marmi policromi, specialità dello scultore.
La seconda sezione, «L’Africa, l’Egitto, l’Antico», il continente africano è presentato nelle varie accezioni con cui venne percepito nel XVII secolo, dalla curiosità etnografica per i personaggi di pelle scura («Allegra compagnia con cartomante», 1631, di Valentin de Boulogne, Vaduz, Collezioni Principe di Lichtenstein) all’evocazione dell’Antico Egitto che, rivisitato d’eleganza e linguaggi «antiquari» a Roma costellata di obelischi egizi, ispirò a Pietro da Cortona la monumentale tela di squisito classicismo «Cesare rende il trono a Cleopatra» (1637 ca, Lione, Musée des Beaux-Arts).
«Bernini, l’Africa, l’America» celebra il caso d’iconografia barocca più letteralmente e geograficamente «globale»: la Fontana dei Fiumi (1651) in Piazza Navona di Gian Lorenzo Bernini col disegno berniniano dei quattro giganti ispirato all’antico realizzati da altri scultori (Antonio Raggi, Claude Poussin, Giacomo Fancelli, Francesco Baratta) e il confronto tra fontana e scenico modello in terracotta, legno intagliato, ardesia, oro e argento (1647-50, Roma, Collezione Forti-Bernini).

Peter Paul Rubens, bottega, «Ritratto di Nicolas Trigault», 1617 ca, Douai, musée de la Chartreuse. © Ville de Douai, musée de la Chartreuse / Photographe: Image & Son
«La Chiesa e il Mondo» discute il ruolo degli ordini religiosi e delle missioni nei rapporti culturali e politici fra Roma e il mondo non cristiano con opere di origine o sapore lontani: dal missionario e letterato belga Nicolas Trigault (1577-1628) in abiti cinesi nel disegno di Pieter Paul Rubens (1617, Douai, Musée de la Chartreuse), all’«Adorazione dei Magi» simbolo di riconciliazione dei popoli, pala d’altare di Giacinto Gimignani (1634-35, Roma, Propaganda Fide) alle versioni dell’icona bizantina Salus Populi Romani (Roma, Santa Maria Maggiore) realizzate in Cina da artisti locali o la versione pittorica della Santa Cecilia scolpita da Carlo Maderno della pittrice indiana Nini (ca. 1610), attiva alla corte della Dinastia Moghul.
«Natura in espansione» vede Roma centro di studi di scienze naturali a diffondere le più remote flora e fauna e indurre il principe Federico Cesi (1585-1630), sodale di Galileo, a fondare a Palazzo Cesi nel 1603 l’Accademia dei Lincei e creare uno dei primi Orti botanici, avviando il collezionismo di piante e animali rari, indice d’illuminata distinzione sociale e curiosità attiva per il non europeo.
«Roma e la diplomazia globale» descrive le fantasmagoriche ambascerie a Roma, cuore del Cattolicesimo, dai regni islamici: Persia savafide, India moghul, Africa e Impero Ottomano. Primi gli affreschi del 1615-16 nel Salone dei Corazzieri al Quirinale dove Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco, Carlo Saraceni dipinsero gli inviati orientali ricevuti da Paolo V, riapparendovi il congolese Antonio ne Vunda accanto al samurai Hasekura Tsunenaga (1571-1622), fra 1613 e 1620 capo della missione nipponica in Spagna, Roma e Francia e Àli-qoli Beg, ambasciatore a Roma nel 1609 di Abbas I Shahanshah di Persia (1571-1629), inedita opera di Lavinia Fontana da poco ascritta alla pittrice bolognese. A confermare quanto scrive Michel de Montaigne (1533-92) nel Journal de Voyage en Italie en 1580 et 1581 sull’amichevole disposizione dei Romani ai forestieri, molti furono gli «apparati funebri» dedicati agli ospiti stranieri dell’Urbe: spicca il catafalco per il funerale solenne in Santa Maria in Aracoeli nel 1627 di Sitti Maani Gioerida, moglie cristiana di Siria del nobile romano Pietro della Valle (1586-1652), viaggiatore protoarcheologo che fu in Persia fra 1614 e 1626.

Lavinia Fontana, «Ritratto dell’ambasciatore persiano ‘Ali-qoli Beg», 1609, Parigi, collezione Pinci
«Collezionare il Mondo» riunisce oggetti d’arte etnica di terre lontane la cui presenza nelle raccolte papali già dal primo Cinquecento origina il collezionismo esotico esploso nel Seicento, fra cui la maschera di Yacateuctli (Cultura Nahua, Puebla, Messico, XV-XVI secolo, Roma, Museo delle Civiltà) e parati liturgici in piume multicolori di manifattura centroamericana: la spettacolare mitria che Pio IV Ghislieri donò a Carlo Borromeo (Milano, Veneranda Fabbrica del Duomo) o i paramenti di Santa Maria in Vallicella (Roma, Tesoro della Confederazione di San Filippo Neri).
«Alterità fra immaginazione e letteratura» riapre l’analisi sulla definizione culturale ed etnologica dell’«altro» nelle arti: il «Guerriero Orientale» (1650, Louvre) di Pier Francesco Mola ben poco ha della fisionomia maghrebina del pirata barbaresco che ritrae e nel 1669 Carlo Maratta dipinge Maria Mancini (1639-1715, nipote del Cardinal Mazarino) in veste di Armida (Roma Palazzo Colonna) senza curarsi della pelle della maga mora della Gerusalemme Liberata limitandosi a un abito vagamente arabeggiante. L’equivoco etnico trionfa con la grande tela «Andromeda» (1611-12, Roma, Galleria Borghese) di Rutilio Manetti, in cui per l’ennesima volta la carnagione di Andromeda appare «d’une blancheur éclantante». Fin dalle origini, pittori e poeti aggirarono le evidenze del mito: principessa etiope, Andromeda avrebbe dovuto essere di pelle scura, ma i pittori non se ne curarono, dipingendo bellezze più confacenti alla canonica tradizione estetica e socioculturale.
«Roma crocevia di culture» presenta i celebri ritratti di Sir Robert Shirley (1581-1628), cattolico inglese ambasciatore in Persia, e di sua moglie Teresia Sampsonia (1589-1668). Sir Robert non solo fu inviato nel 1608 da Abbas I a trattare con Giacomo I d’Inghilterra e altri sovrani europei un’alleanza contro i Turchi ma migliorò e modernizzò sul modello britannico l’esercito persiano garantendo da allora ai Safavidi una forza pari al loro arcirivale Impero Ottomano. Alla morte del marito nel 1628 e di Abbas nel 1629, Lady Teresia lasciò la Persia per Roma, lì ritirandosi in convento. I ritratti, fra i molti della coppia e inediti in Italia, dipinti a Roma nel 1622 dal giovane Antoon van Dyck durante il suo tour italiano testimoniano il ruolo cruciale della pittura nella divulgazione culturale.
A conclusione della mostra e pendant all’introduttivo busto del moro Antonio, è il dipinto «Annibale attraversa le Alpi a dorso di elefante» (1625-26, Collezione di Alberto II di Monaco) di Nicolas Poussin: non quadro storico bensì vero e proprio ritratto animalier dell’elefante Don Diego giunto a Roma nel 1630 dopo un lungo tour nelle corti d’Europa, animale forestiero amato dall’immaginario della Chiesa controriformata perché simbolo di pace e pazienza e nemico del drago, simbolo del male. Giunto a Roma dall’India, primo esemplare di elefante a Roma dopo oltre un secolo, Don Diego ebbe sontuoso alloggio nei giardini di Palazzo Venezia dove fu ammirato dai romani festanti. Poussin lo ritrasse su committenza del nobile piemontese Cassiano dal Pozzo (1588-1657), viaggiatore, collezionista d’arte e scienziato, opera che resta unica nella sua carriera, più affine agli animali che ornavano i volumi di scienze, preciso interesse di Cassiano, che alle tele di classicismo storico che caratterizzano la sua poetica.

Anthony van Dyck, «Sir Robert Shirley», 1622, National Trust Collections, Petworth House (The Egremont Collection (acquired in lieu of tax by H.M.Treasury in 1957 and subsequently transferred to The National Trust)