Liliane Lijn, «Conjunction of Opposites: Woman of War and Lady of the Wild Things», 1983-86

Foto: Thierry Bal; © Bildrecht, Wien 2024; cortesia di Liliane Lijn e Sylvia Kouvali, London/Piraeus

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Liliane Lijn, «Conjunction of Opposites: Woman of War and Lady of the Wild Things», 1983-86

Foto: Thierry Bal; © Bildrecht, Wien 2024; cortesia di Liliane Lijn e Sylvia Kouvali, London/Piraeus

Nel Mumok di Vienna il femminismo tecnologico di Liliane Lijn

In primavera si trasferirà alla Tate St Ives la retrospettiva dell’arista pioniera nell’uso della luce, del movimento e dei più innovativi materiali plastici e artificiali. Sono in uscita anche le sue memorie

Da oltre sessant’anni Liliane Lijn lavora alla confluenza tra arte visiva, poesia, performance e scienza. Nata a New York nel 1939 e residente a Londra dal 1966, il suo lavoro poliedrico spazia tra scultura, installazione, collage, pittura, video e performance. Non ha mai smesso di sperimentare e di superare i limiti della sua pratica. Lijn è stata una pioniera nell’uso della luce, del movimento e dei più innovativi materiali plastici e artificiali, oltre ad aver osservato, spesso in prima persona, le nuove scoperte presso lo Space Sciences Laboratory dell’Università della California, a Berkeley, e presso l’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare (Cern) in Svizzera. Allo stesso tempo, è stata profondamente influenzata dalle civiltà antiche, dalla mitologia e dalla filosofia orientale.

Ora, l’intera gamma del suo lavoro è visibile in «Liliane Lijn: Arise Alive», una vasta retrospettiva aperta fino al 4 maggio nel Mumok di Vienna, che dal 24 maggio al 5 ottobre si trasferirà nella Tate St Ives. Inoltre, ha partecipato a un paio di importanti mostre collettive: «Radical Software: Women, Art and Computing 1960-91» al Mudam Museum of Modern Art di Lussemburgo da poco conclusa ed «Electric Dreams: Art and Technology Before the Internet», in corso alla Tate Modern di Londra fino al primo giugno. Il suo libro di memorie, Liliane Lijn: Liquid Reflections esce il 13 marzo, pubblicato da Thames & Hudson.

Dai primi disegni su rotolo fino alle opere cinetiche e illuminate che utilizzano plastica, prismi, cilindri di testo rotanti, coni e gigantesche figure femminili multimediali, un senso di energia, movimento e sperimentazione permea il suo lavoro. Da che cosa nasce questo slancio? 
Sono una persona irrequieta. Ho iniziato dipingendo, ma poi ho capito che era inutile se non sapevo disegnare. Così ho disegnato a lungo e mi sono dedicata a questi disegni simili a rotoli che ho chiamato «Sky Scrolls». Dopo un po’ ho capito che mi stavo ripetendo e allora ho provato a realizzarli su tela grezza ma non ha funzionato, così ho iniziato a pensare ad altre cose. Poi, intorno al 1960, ho trovato uno strano materiale, che era in realtà un nuovo tipo di sciolina in plastica per gli sci. Era un polimero disponibile in molti colori. Iniziai a giocarci e mi resi conto che potevo creare linee sottilissime iniettandole sul perspex, che creavano ombre sul muro o su qualsiasi superficie bianca. Inoltre, quando mi muovevo, vedevo che l’intera opera cambiava: si muoveva e vibrava. Ne sono rimasta affascinata ed è così che ho iniziato a lavorare con la plastica, la luce e il movimento. Lavorare con la luce ha cambiato tutto, perché il mio lavoro è diventato molto sperimentale. Ma questo è avvenuto solo un anno dopo aver iniziato a dedicarmi all’arte.

Lei non ha frequentato una scuola d’arte e la sua porta d’accesso all’arte è stata quando si è recata a Parigi alla fine del 1958 con un amico la cui madre conosceva André Breton. Lì ha conosciuto i surrealisti e ha partecipato alle loro riunioni. Quanto è stato importante quel periodo?
Non ho frequentato a lungo i loro caffè; era la fine del Surrealismo e non erano così interessanti. Avevo solo 18 anni quando andai a Parigi e tutti quelli che conoscevo avevano venti o trent’anni più di me, a parte una o due fidanzate. Anche se ho conosciuto Toyen e Méret Oppenheim, era un mondo molto maschile. E Breton non era poi così simpatico. Ma quel primo anno a Parigi è stato un periodo molto intenso, in cui sono successe tante cose e sono state messe in atto la maggior parte delle influenze significative sul mio lavoro. Ho trovato profondamente stimolante il fatto che i surrealisti ugualmente interessati alla scienza e all’archeologia, all’arte e alla poesia. Ho studiato archeologia e storia dell’arte alla Sorbona e all’École de Louvre per circa sei mesi, ma poi ho deciso che la cosa più importante era concentrarsi sul disegno e sull’apprendimento.

In oltre sessant’anni di attività artistica, lei ha sempre citato la scrittura e il linguaggio come elementi fondamentali della sua creatività.
Fin da subito ho voluto scrivere e in tutta la mia pratica, dall’inizio ad oggi, ho sempre incorporato il linguaggio e usato le parole nel mio lavoro. Quando ho realizzato le «Poem Machines» negli anni Sessanta, leggevo molti testi di scienza e allo stesso tempo mi interessavo agli esperimenti scientifici con la luce, oltre che alle vibrazioni e all’energia del suono. In queste opere, le parole diventano illeggibili mentre le forme ruotano e vibrano, e ciò che mi interessava era il rapporto tra la parola orale e quella visiva, e come collegarle. Le parole sono energia e, quando parliamo, trasmettiamo questa energia da una persona all’altra. Poi ho iniziato a collaborare con i poeti e a usare le loro parole, oltre alle mie.

Sebbene il suo lavoro si presenti in una miriade di forme e sostanze, lei è nota soprattutto per i suoi coni, che chiama «koan», come gli enigmi paradossali e irrisolvibili del Buddhismo zen. Perché continua a tornare a questa forma?
Il cono è molto complesso; ci sono molte aree del sapere in cui è importante e continuo a scoprirne dinuove. I moti planetari sono tutti ellittici, come parti del cono. La geometria del cono è molto complicata, o almeno così mi dicono i matematici che osservano i miei coni. Molte culture considerano il cono come un simbolo della montagna, che si protende verso il cielo. Ma io ho sempre pensato alla montagna come a una solida base ancorata al suolo. Ho sentito le cose più straordinarie sul cono, ma per me si riduce sempre al femminile. Per i Greci, il cumulo conico di cenere prendeva il nome della dea Hestia, che presiedeva al focolare. È anche la forma di base della gonna, in particolare dell’antica gonna sumera che assomiglia molto a un cono; anche se la indossavano sia gli uomini sia le donne, alla fine è il simbolo femminile. E poi, naturalmente, la forma del seno.

Come si concilia questo profondo interesse per le civiltà antiche, gli archetipi e le mitologie con l’uso di materiali radicali e con le sue numerose residenze presso i più rinomati centri di ricerca scientifica d’avanguardia?
Credo che siano tutti collegati. Quando sono andato al Cern e ho ascoltato le loro idee sulla cosmologia, ho capito che si trattava di un altro mito della creazione: il nostro è basato sulla scienza, la cui terminologia deriva in gran parte dall’antica Grecia. Non c’è una separazione tra il passato e il futuro.

Il suo lavoro è stato descritto come «femminismo tecnologico». Vede l’adozione di tanti metodi e materiali basati sulla scienza come un’espressione di emancipazione femminile?
Sentivo e sento che le donne sono state esautorate fisicamente, spiritualmente e mentalmente. Ci sono molti esempi di donne straordinarie e brillanti che non sono state riconosciute nelle arti, ma ce ne sono molti di più nella scienza, perché le donne non erano ritenute in grado di essere fisici, ingegneri o matematici. Eppure, in America, durante la Seconda guerra mondiale, le donne eseguivano i calcoli più velocemente delle macchine ma non ricevevano mai alcun riconoscimento. Le donne hanno subito un trattamento estremamente negativo per quanto riguarda il loro pensiero, il loro spirito e il loro mondo immaginativo. 

Parte di questa rabbia sembra emergere nelle gigantesche figure femminili della sua serie «Cosmic Dramas», come «Woman of War» (1986) ed «Electric Bride» (1989), in mostra al Mumok, o «The Bride» (1988) in «Electric Dreams» alla Tate Modern. Queste spaventose dee cyborg, realizzate con materiali naturali e artificiali e spesso con l’uso di luci e suoni, rappresentano un’espressione diversa del femminile rispetto ai suoi «Koan».
Ho scritto un libro intitolato Crossing Map, che era nato come testo fantascientifico, ma quando è stato pubblicato, nel 1983, è diventato più che altro un manifesto femminista ecologista. Dopo averlo scritto, ho capito che volevo scoprire una nuova forma femminile, visualizzare il femminile dentro di me in tutti i suoi aspetti e potenzialità. L’archetipo femminile ha due facce: al massimo può essere luminoso e creativo ma, dopo 5mila anni di repressione, può anche essere molto oscuro. In una centrale elettrica e nelle ciminiere o nei reattori si vedono figure simili a queste mie opere, sono lì in piedi, proprio come le antiche dee con le mani alzate. Secondo Jung, gli archetipi repressi non muoiono, ma diventano più potenti. Non vedo perché il femminile debba essere confinato ai vestiti e alle macchine da cucire: l’idea che l’ambito della tecnologia e dell’industriale non siano femminili è folle.

Queste figure femminili, appariscenti e incombenti, degli anni Ottanta hanno certamente un’aria minacciosa.
Dall’inizio degli anni ’80 ho iniziato a parlare in modo più articolato di femminismo e a cercare di fare la differenza come artista donna. «Woman of War» compie movimenti controllati dal computer ed è l’incarnazione di una canzone che è uscita dal mio subconscio un giorno a Parigi. È un grande archetipo femminile, una donna guerriera che avverte l’umanità che sta distruggendo il suo pianeta. La sposa nell’«Electric Dreams» della Tate Modern è più sobria. È in una gabbia ed è realizzata con materiali naturali: è fatta di mica (un minerale laminare di aspetto traslucido, Ndr), è come una geologia e sembra il fianco di una scogliera, ma ha una testa stroboscopica lampeggiante e in quella gabbia c’è una carica di 500 volt.

I danni al pianeta, che lei ha riconosciuto all’inizio degli anni Ottanta, continuano ad aumentare e anche l’uso improprio della tecnologia non accenna a fermarsi. Ritiene ancora che l’arte possa cambiare la percezione delle persone e il modo in cui vediamo il mondo?
Non so se possiamo cambiare le cose, ma credo che possiamo dare coraggio alle persone. Per cambiare davvero le cose, dobbiamo votare governi che realizzino dei veri cambiamenti perché non possiamo farlo da soli. L’arte può protestare, ma io non sono un tipo da protesta. È più importante dare speranza alle persone. È importante che le persone non si disperino, perché non si può fare nulla di positivo se si è solo depressi.

Liliane Lijn seduta di fianco a una sua opera nella mostra «Liliane Lijn: Arise Alive» al Mumok di Vienna. Foto: Georg Petermichl/Mumon; © Bildrecht, Wien 2024

Louisa Buck, 08 febbraio 2025 | © Riproduzione riservata

Nel Mumok di Vienna il femminismo tecnologico di Liliane Lijn | Louisa Buck

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