Paul Lowe
Leggi i suoi articoliI package digitali del Giornale dell’Arte sono focus semestrali che presentano articoli di approfondimento commissionati per l’occasione ad autori internazionali. L’obiettivo è analizzare, discutere ed esplorare le tematiche più significative per la fotografia e la cultura visiva contemporanea attraverso voci autorevoli provenienti da diversi background.
Uno sporco segreto
Uno sporco segreto si cela nel cuore dell’industria tecnologica e dei media: le strumentazioni elettroniche, come le macchine fotografiche, i computer e i telefoni cellulari che vengono usati per documentare le crisi globali sono esse stesse complici del mercato che provoca incalcolabili sofferenze umane e catastrofi ambientali. Infatti, alcuni minerali noti collettivamente come 3TG (tantalio, tungsteno, oro e stagno) sono ampiamente utilizzati nella produzione di componenti necessarie alla fabbricazione di apparecchi digitali, compresi i chip e i condensatori che alimentano le nostre fotocamere. Una parte significativa delle forniture mondiali di questi minerali proviene da Paesi afflitti da conflitti, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), dove eserciti, milizie di ribelli e attori esterni hanno tratto profitto dall’estrazione mineraria, contribuendo al contempo alla violenza e allo sfruttamento della regione.
Uno dei minerali direttamente collegati alle cause della guerra nella RDC è il coltan, nome industriale della columbite-tantalite da cui si estraggono niobio e tantalio. All’inizio degli anni 2000 solo una minima parte del tantalio mondiale proveniva dall’Africa occidentale, ma ora, secondo il rapporto dell’United States Geological Survey pubblicato nel gennaio 2021, quasi il 40% della produzione mineraria mondiale di tantalio proviene dalla RDC, mentre un altro 18% proviene dai vicini Ruanda e Burundi. A differenza della maggior parte degli altri metalli, il coltan non viene scambiato all’interno di borse finanziarie regolamentate, ma viene reperito e contrattato attraverso mercati para-legali o contatti diretti tra estrattori (tra cui gruppi di milizie paramilitari) e compratori (come intermediari per conto di aziende multinazionali), rendendo impossibile il monitoraggio e la creazione di statistiche accurate sul processo estrattivo e sul conseguente contrabbando.
I suddetti minerali, definiti «Conflict Minerals» dalla normativa europea, vengono estratti in Congo Orientale, contrabbandati oltreconfine in Ruanda o Burundi e, passando di mano in mano tra intermediari, arrivano alle fonderie e agli impianti di lavorazione in Asia Orientale. I proventi derivanti da questo traffico illecito sono utilizzati dai «signori della guerra» per finanziare i propri traffici, il processo estrattivo e quindi lo sfruttamento spietato e violento della popolazione locale, per la quale, in assenza di alternative dovuta ai conflitti in corso, l’unica forma di sostentamento è diventata proprio l’attività estrattiva mineraria. I minatori devono camminare per giorni nella foresta per raggiungere le miniere, alcune delle quali gestite da gruppi di milizie corrotte, estrarre il materiale scavando con strumentazioni artigianali e inadeguate e infine setacciare la terra di riporto in cerca di minerali. La paga è un dollaro al giorno, le condizioni di lavoro sono usuranti e massacranti.
L’impatto ecologico è enorme: l’estrazione non regolamentata erode ed inquina il suolo contaminando le falde idriche e minacciando la fauna locale. Inoltre, l’estrazione dei minerali ha arrecato danni all’ecosistema della regione dei Grandi Laghi (come il declino della popolazione di gorilla e il disboscamento), alimentando anche abusi e sfruttamento dei diritti umani. Tutto ciò ha portato alla realizzazione di alcune iniziative per contrastare questa catastrofe, umana e ambientale, e spronare le aziende tecnologiche a eliminare qualsiasi minerale di origine non certificata dalle proprie catene di approvvigionamento.
The Enough Project
Una di queste iniziative è stata «Raise Hope for Congo», una campagna di sensibilizzazione realizzata dall’organizzazione non profit Enough Project proprio per incoraggiare i produttori di dispositivi tecnologici a escludere dalle proprie catene di approvvigionamento i minerali dalle origini non certificate. Al centro di questa campagna c’era il lavoro del fotoreporter Marcus Bleasdale, che ha passato anni a documentare le cause e gli effetti del conflitto in Congo e nella regione dei Grandi Laghi. Bleasdale ha realizzato reportage sull’uso dello sturpo come arma di guerra, sui bambini soldato e sullo sfruttamento dei civili, collaborando con attivisti e ONG, come Human Rights Watch e Medici Senza Frontiere.
Lavorando sul campo si è reso conto che la tecnologia alla base del suo lavoro lo rendeva complice del conflitto, a tal punto da affermare, nel 2013: «sono probabilmente il peggior utilizzatore di minerali insanguinati del pianeta; per fare il mio lavoro uso cinque macchine fotografiche, due computer e vari telefoni. Ogni giorno vado in giro con mezza miniera congolese nella borsa». Bleasdale firmava così le sue mail: «Inviato da una fotocamera che sono abbastanza sicuro non sia priva di minerali di conflitto, né prodotta con i più alti standard di lavoro. Mi adopero perché avvenga un cambiamento, come spero facciate anche voi». Inoltre parlando della campagna «Raise Hope for Congo», dichiarò: «Vorrei che i consumatori sappiano che stanno utilizzando un dispositivo costruito con minerali provenienti dalle zone di conflitto. Facendo uso di questi strumenti, siamo tutti, in qualche modo, complici della guerra in Congo, e credo che dovremmo essere consapevoli di questo nostro coinvolgimento» [1].
Nel mese di luglio del 2010 il congresso americano approvò il «Dodd Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act», un intervento di riforma radicale dei meccanismi regolativi della finanza americana a seguito della grande recessione, considerata oggi una delle leggi federali più importanti emanate durante la presidenza di Barack Obama. Al suo interno, alla sezione 1502, veniva imposto alle società statunitensi quotate in borsa di controllare le proprie catene di approvvigionamento di oro, stagno, tungsteno e tantalio e certificare che non provenissero da situazioni di rischio in Congo e Paesi limitrofi, riferendo annualmente i propri fornitori alla Securities and Exchange Commission (SEC). Essendoci solo il requisito di divulgazione (e mancando qualsiasi forma di proibizione e penalizzazione) il risultato non fu quello sperato.
Due anni dopo, «Raise Hope for Congo» stilò una lista delle società di elettronica che avevano compiuto progressi dal promulgamento della legge. Nikon e Canon si piazzarono ancora in fondo alla classifica, con un punteggio inferiore al 10% su un indice che quantificava le misure adottate per prevenire l’uso di minerali di conflitto. Furono le pressioni delle Ong e le campagne mediatiche a spingere le aziende a migliorare, seppur di poco e gradualmente, le proprie policy di approvvigionamento.
La campagna di Enough Project e le fotografie di Bleasdale, ad esempio, portarono il CEO di Intel a dichiarare, nel 2014, che nella propria filiera l’azienda non avrebbe più fatto affidamento sui minerali di conflitto, sottolineando come il cambiamento potesse essere raggiunto solo attraverso un approccio collaborativo e il coinvolgimento di un grande numero di attori e stakeholders: «Questo problema non può essere risolto da una sola azienda. Noi di Intel incoraggiamo gli altri, l’industria come i consumatori, a unirsi ai nostri sforzi per affrontare questa importante questione globale. Facendo passi avanti più rapidi e profondi verso catene di approvvigionamento prive di conflitti e promuovendo una maggiore comprensione e curiosità su cosa c’è dentro i prodotti che acquistiamo, possiamo muoverci più rapidamente verso il miglioramento della situazione nella RDC e nella regione circostante» [2].
Dopo la legge Dodd Frank e il cambio di rotta di Intel, i produttori di macchine fotografiche hanno adottato misure più concrete per ridurre l’uso dei minerali provenienti da zone di conflitto. Per esempio, oggi Canon dichiara che, in quanto società quotata in borsa negli Stati Uniti, la sua linea di condotta «conferma che le parti e i materiali utilizzati nei nostri prodotti non sono una fonte di finanziamento per i gruppi armati della Repubblica Democratica del Congo e dei Paesi limitrofi, in conformità con la Sezione 1502 del Dodd-Frank Act statunitense» [3]. A partire dal 2020, ha inoltre esteso i controlli sull’origine dei minerali rari dalle «aree ad alto rischio e colpite da conflitti» a tutto il mondo, tenendo conto dell’impatto delle nuove normative UE sui minerali insaguinati e adottando azioni in conformità con la Due Diligence Guidance dell’OCSE.
Una ricerca del 2021 di The Sentry (un gruppo di pressione legato a Enough Project) ha rilevato che «il numero di società che si riforniscono solo da raffinerie e fonderie che non si approvvigionano di minerali di conflitto è aumentato, il che è incoraggiante, anche se si tratta ancora di una piccola minoranza». Tredici grandi aziende del settore dell’elettronica, della gioielleria e dell’industria automobilistica (Apple, Google, Intel, Microsoft, IBM, Macy’s, Micron Technology, Nvidia, Signet Jewellers, Skyworks, Target, Tiffany & Co. e ON Semiconductor) hanno dichiarato che tra il 99% e il 100% delle loro catene di approvvigionamento sono costituite da fonderie e raffinerie che non utilizzano minerali provenienti da zone di conflitto, e che lo stesso viene richiesto ai propri fornitori. Tuttavia, il rapporto afferma anche che gran parte delle maggiori società di settore non richiede ancora ai propri fornitori di approvvigionarsi da raffinerie e fonderie certificate.
Tagliare i fornitori?
Secondo Sasha Lezhnev, consulente politico di The Sentry, «nel settore delle fotocamere c’è ancora molta strada da fare. I produttori sono in ritardo di quasi un decennio (rispetto alle aziende elettroniche tradizionali). Alcune aziende sono più responsabili di altre, come Canon e Sony, ma non abbastanza, in particolare non richiedono ai propri fornitori di applicare le proprie stesse policy, facendo quindi uso di fatto di minerali non certificati» [4].In particolare, Sasha fa notare che, sebbene Canon renda pubblica la lista delle proprie fonderie, cosa che non tutte le aziende fanno, «non richiede ai propri fornitori di cambiare fonderie se non superano le verifiche sull’assenza di minerali di conflitto».
Molte aziende tecnologiche leader lo stanno facendo (Apple, Google, Intel e altre) e stanno tagliando fuori i fornitori che non si adeguano. La sua ricerca [5] ha anche rivelato che Canon «si rifornisce dalla raffineria d’oro di conflitto di Goetz, in Uganda. Ora dicono che la stanno eliminando, finalmente, ma DOPO che è stata sanzionata dal governo degli Stati Uniti. La realtà è che questo fornitore compare nelle notizie sull’estrazione di oro in zone di conflitti da diversi anni (il nostro rapporto è stato pubblicato nel 2017). Quindi, francamente, adesso è molto, molto tardi».
Sulla base delle dichiarazioni pubbliche sul proprio sito web, Lezhnev ritiene che l’azienda abbia ancora un po’ di strada da fare, affermando che «se dovessi dare un voto a Canon in questo momento, sarebbe una C». Lezhnev riconosce a Sony un certo merito per la sua posizione, affermando che le sue «iniziative sono un po’ più pregnanti di quelle di altri produttori di fotocamere, ma presentano ancora delle lacune». In particolare, come Canon, Sony non richiede ai propri fornitori di rifornirsi solo da fonderie prive di minerali di conflitto. Inoltre, alcune aziende sottoposte a sanzioni internazionali sono tutt’oggi elencate nei documenti SEC dell’azienda come potenziali fornitori della sua filiera.
Nel frattempo, Sasha sostiene che altri produttori di fotocamere non stiano realmente implementando una catena di approvvigionamento libera da minerali di conflitto. Nikon, ad esempio, «si limita a chiedere ai propri fornitori di aderire a politiche di approvvigionamento responsabili, ma non richiede o impone di rifornirsi solo da fonderie prive di minerali di conflitto. Inoltre, non elenca pubblicamente i suoi fonditori. Conduce indagini sui propri fornitori, ma poco altro». Lezhnev trova la posizione di Fuji «debole», osservando che «non ha “alcuna intenzione” di utilizzare minerali provenienti da conflitti e afferma di attuare le linee guida dell’OCSE per le catene di fornitura responsabili, ma non riferisce in merito all’attuazione di tali linee guida. Non richiede ai fornitori di approvvigionarsi da fonderie prive di minerali di conflitto, né rende noti i propri fonditori. Di fatto, riferisce che solo il 72% delle proprie fonderie è certificata».
Alla luce dell’incapacità dei produttori di fotocamere di impegnarsi pienamente per una catena di approvvigionamento di minerali provenienti da fonti responsabili e certificate, cosa possono fare i fotografi per convincerli a essere più rigorosi nelle loro politiche? Per rispondere a questa domanda, Lezhnev offre alcuni consigli: «I fotografi dovrebbero chiedere perché il loro produttore di fotocamere è in ritardo rispetto alle aziende di elettronica tradizionali nell’eliminare dalla propria filiera di produzione i minerali di conflitto, continuando così a finanziare violenti gruppi armati nella parte orientale del Congo. Possono scrivere all’azienda utilizzando il rispettivo sito web o facendo pressione sul rivenditore».
In accordo con Lezhnev, l’impegno a lungo termine di Bleasdale per la causa è stato quello di costruire una comunità che eserciti una pressione pubblica diretta sui produttori affinché cambino le loro politiche: «Per quasi quindici anni ho lavorato nel Congo orientale sui minerali di conflitto, spingendo le persone (politici, aziende) ad attuare dei cambiamenti. Il mio progetto di documentazione fotografica è direttamente responsabile del divieto di Intel, ma non avrebbe potuto avere successo senza che la gente firmasse petizioni e altri atti di pressione pubblica. Quando il cliente dice “basta”, le aziende ascoltano». [5]
Nel giugno 2023, Bleasdale è stato investito dell’Ordine di San Michele e San Giorgio in occasione del compleanno di Re Carlo III, in virtù del suo impegno da oltre 20 anni nel campo del fotogiornalismo e dei diritti umani. Collegando direttamente la fonte dei minerali estratti illegalmente agli oggetti tecnologici di uso quotidiano, il lavoro di Bleasdale ha avvicinato i consumatori al conflitto, rendendoli consapevoli di come la sofferenza degli altri sia direttamente collegata alle loro vite, e incoraggiandoli ad agire in prima persona per recidere il loro legame con le «spoglie di guerra».
Paul Lowe è professore di fotografia documentaria presso il London College of Communication, University of the Arts, Londra, Regno Unito. Inoltre, Lowe è un fotografo, educatore e ricercatore pluripremiato, il cui lavoro è rappresentato da VII Photos ed è stato pubblicato, tra gli altri, da «Time», «Newsweek», «Life», «The Sunday Times Magazine», «The Observer» e «The Independent». Ha documentato alcuni degli avvenimenti più importanti degli ultimi quarant’anni, tra cui la caduta del Muro di Berlino, la liberazione di Nelson Mandela, il conflitto nell'ex Jugoslavia e la distruzione di Grozny. Il suo interesse di ricerca si concentra sulla fotografia dei conflitti. Ha contribuito ai libri Picturing Atrocity: Photography in Crisis (Reaktion, 2012) e Photography and Conflict. I suoi libri più recenti includono Photography Masterclass, pubblicato da Thames and Hudson, e Understanding Photojournalism, coautore con la dottoressa Jenny Good, pubblicato da Bloomsbury Academic Press, Reporting the Siege of Sarajevo, coautore con Kenneth Morrison, sempre per Bloomsbury, e Photography and Bearing Witness in the Balkan Wars, pubblicato da Routledge.
[1] Marcus Bleasdale, interviste con Paul Lowe, 2007, 2022
[2] Sito web di InteI, In Pursuit of Responsible Mineral Sourcing, 2014
[3] Sito web di Canon, Addressing the Responsible Minerals Sourcing (Conflict Minerals Issue), 2022
[4] Sasha Lezhnev, intervista con Paul Lowe, 2023
[5] Sasha Lezhnev,Op-ed: Conflict minerals: are companies sourcing from conflict-free refiners and smelters?, 2021
[5] Lauren Walsh, Conversations on Conflict Photography, (Bloomsbury, Londra, 2019)
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