Luca Panaro
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Le esposizioni fotografiche che oggi vediamo all’interno di gallerie e musei sono pensate in modo da generare relazioni con lo spazio circostante e gli abituali fruitori dei luoghi: le immagini si adattano alle pareti lineari di uno spazio espositivo, presentandosi allo stesso tempo con la fisicità di una scultura o di un’installazione. Gli artisti stampano le fotografie su materiali tra i più vari, fissandole a supporti spesso auto-portanti così da conquistarsi la centralità dello spazio; in altri casi rivestono come una seconda pelle le pareti della galleria giocando con gli elementi architettonici.
Questo desiderio di conquista dello spazio, oggi particolarmente evidente nei luoghi del contemporaneo, sembra assecondare un bisogno fisiologico dell’immagine fotografica che, a partire dagli anni Sessanta-Settanta, ha cercato più volte di prendere le distanze dalla logica del quadro, così come in tempi recenti ha sentito l’esigenza di uscire dal mondo immateriale del web per occupare le stanze di un museo dal pavimento al soffitto. Lo ha dimostrato l’artista Erik Kessels negli spazi del FOAM di Amsterdam con «24 Hrs In Photos» (2011), stampando tutte le fotografie caricate su Flickr nell’arco di ventiquattrore e ottenendo così montagne di foto che hanno invaso lo spazio espositivo, consentendo al visitatore di toccare con mano la «furia delle immagini» [1].
Uno dei grandi precursori di questo approccio immersivo e relazionale all’immagine fotografica è stato Franco Vaccari con la celebre opera «Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio» (1972). La forma organica lasciata dalle 36.000 fototessere appese alle pareti della Biennale di Venezia testimonia il passaggio di tante persone e del loro dialogo preferenziale con l’automatismo della camera. L’artista si occultò cedendo al pubblico della Biennale parte dell’autorialità dell’opera. Infatti, i visitatori dell’evento espositivo, dopo aver letto sulle pareti la scritta che titolava il lavoro, decisero in autonomia di lasciare traccia fotografica del proprio volto sulle pareti della sala, partecipando a tutti gli effetti all’Esposizione. Viene facile a questo punto il paragone tra l’idea di Vaccari e le attuali piattaforme social: in entrambi i casi singolo fruitore diventa protagonista, manifestando la propria personalità e i propri interessi, spesso senza inibizioni, proprio in virtù dell’assenza di una figura giudicante al momento dello scatto [2].
Fuori dalla cornice
Le fotografie generate dall’opera di Vaccari escono dalla cornice dello spazio espositivo allo stesso modo in cui i volti degli abitanti delle favelas brasiliane realizzati dall’artista francese JR invadono lo spazio urbano con enormi poster che configurano il concetto di street art in chiave fotografica. Nell’agosto del 2008, JR si trovava in Brasile a realizzare un progetto sul Morro da Providência, dove è nata la prima delle favelas di Rio de Janeiro. La comunità si trova al centro della città, è visibile arrivando dall’aeroporto e dalla stazione degli autobus extraurbani e senza dubbio fa parte dell’immaginario collettivo di quanti vivono nelle favelas o si interessano a questo variegato universo urbano. Morro da Providência è sinonimo di violenza. Ma questa volta la ragione per cui questa favela è apparsa sugli schermi televisivi non riguarda scene di scontri tra spacciatori e polizia, bensì la cronaca dell’evento artistico messo in atto da JR. Nasce così la serie «Women are Heroes» (2008-2009), al fine di rendere omaggio a coloro che svolgono un ruolo fondamentale nella società, le donne, che sono le prime vittime della guerra, della criminalità, della violenza e del fanatismo politico-religioso. JR incolla enormi fotografie di volti e occhi di donne abitanti del luogo, all’esterno della favela, restituendo in questo modo uno sguardo femminile alla collina, dando vita a opere fatte di carta e colla, ma soprattutto di relazioni con il pubblico che in questo caso le abita.
Ritornando all’interno dello spazio espositivo, la fotografia ha messo in discussione la sua tradizionale fruizione scegliendo spesso di abbandonare le pareti a favore del pavimento, entrando così in un dialogo tridimensionale con l’ambiente circostante pur mantenendo la propria bidimensionalità. È il caso di Victor Burgin in «Photopath» (1967-69), opera che innesca uno strano mimetismo. Il tentativo di ieri e di oggi sembra quello di «reinventare il medium» [3], come ha suggerito Rosalind Krauss a proposito della pittura di Pollock e la sua produzione visiva generata in orizzontale, sul pavimento del suo studio, in sostituzione alla tradizionale verticalità del gesto pittorico. Burgin fotografa il pavimento di uno spazio espositivo e ricolloca al suolo, nella stessa posizione, le immagini ottenute, creando un cortocircuito tra la realtà e la sua rappresentazione.
Nel 1969 alla Galleria Diaframma di Milano, Mario Cresci propone mille fotografie dentro altrettanti cilindri trasparenti, un altro caso di conquista della terza dimensione. Per il pubblico sarà un’esperienza eccentrica e inusuale, il primo «Environment» nella storia della fotografia contemporanea e certamente uno dei tanti in quella dell’arte. In quegli anni, uscire dalla realtà bidimensionale dell’immagine era un modo per affermare un visivo fotografico ancora tutto da scoprire, un momento di apertura e di provocazione all’interno di uno spazio espositivo dedicato proprio alla fotografia. I 1.000 cilindri trasparenti sigillati contenevano altrettante immagini fotografiche, anch’esse su pellicola trasparente, raffiguranti frammenti di oggetti, cose, persone intese come simboli del consumismo di allora, in nome del dualismo tra ricchezza e povertà. Anche in seguito Cresci si è allontanato dalle modalità di allestimento tipiche della fotografia per avvicinarsi alle ricerche artistiche più contemporanee. Nella serie «Dentro le cose» (2011), l’artista ligure ha fotografato le finestre dei Musei di Palazzo dei Pio a Carpi per poi collocare la loro rappresentazione fotografica in scala 1:1 proprio di fronte agli originali. L’architettura del palazzo perde così la sua funzione per divenire un laboratorio creativo utile all’autore a trasformare in immagine i fenomeni naturali che si manifestano al suo interno. La geometria a croce degli infissi e il movimento delle tende danno origine a un gioco visivo in cui lo spazio e la luce sono diversamente protagonisti [4].
Stanze di Fabio Sandri
Un esempio più recente del desiderio della fotografia di uscire dallo spazio della cornice e della verticalità del quadro, lo possiamo trovare nell’opera di Fabio Sandri. L’artista nella serie «Stanze» (2004-2008) compie dei rilevamenti fotografici di ambienti domestici utilizzando la carta fotografica con il lato fotosensibile rivolto al pavimento e così ottenendo una doppia impronta della stanza in scala reale: per gravità (sopra) e per rifrazione (sotto). L’intento è quello di rappresentare la spazialità tramite il principio della sezione, come una doppia retina capace di vedere contemporaneamente sopra e sotto, oltrepassando le possibilità percettive dell’uomo. Il punto di vista in questo modo non è più quello dell’autore ma del materiale fotografico. La luce cade dall’alto e attraversa la carta, rimbalza sul pavimento fissandone la texture, risale e registra tutto l’ambiente, mobili, lampadari, corpi. È come se il volume della stanza, con tutto ciò che contiene, precipitasse sulla carta. Il risultato, più che fotografico, è scultoreo. Le dimensioni di queste opere corrispondono a quelle degli spazi attraversati, sono infatti in scala 1:1, e anche per questo differiscono dalla fotografia convenzionale che, come noto, è in scala ridotta rispetto alla realtà [5].
L’artista statunitense Karen Brummund realizza un’opera analoga ma all’aperto, riproducendo con fotocopie in bianco e nero la facciata di un edificio e introducendo il tempo come elemento essenziale nella fruizione dell’opera, che per sua stessa natura è effimera, quindi modificabile di fronte agli occhi dei partecipanti già a partire dal giorno dell’opening. In «31 Prince Street» (2010), realizzata a Rochester nello stato di New York, centinaia di fogli di carta sono ricomposti temporaneamente come un puzzle e incollati sulla superficie esterna dell’edificio. L’opera è definibile «paper-based», in quanto composta solo di fragile carta, e si presenta agli occhi del pubblico come una parete di post-it in balia degli agenti atmosferici. L’installazione però è anche «time-based», perché mutevole nel tempo. Infatti, i fogli si agitano al vento, si staccano, cadono a terra, vengono distrutti. L’opera quindi è effimera e ricopre l’edificio come una sorta di pelle fotografica, sempre in movimento, soggetta a continui cambiamenti, documentata dall’artista in un video che evidenzia l’attenzione alla natura temporanea delle cose, favorendo una differente esperienza e percezione del luogo.
Un aspetto rilevante delle immagini fotografiche che escono dai confini della cornice, fuori e dentro al museo, è la partecipazione di un pubblico molto ampio, chiamato a essere fruitore dell’opera e non solo spettatore. L’intervento artistico si fruisce sul luogo per il quale è stato pensato, mettendo in campo una serie di sinergie con l’architettura, la storia e gli abitanti di quella città. Il pubblico è attratto dall’opera in quanto parte del luogo, grazie a un processo esperienziale che lo vede protagonista nel suo habitat, dove è l’artista a essere l’ospite e quindi a doversi adeguare agli spazi e alle usanze di quel tessuto culturale. Il gesto artistico si mette quindi al servizio di una collettività, che può accettare l’installazione fotografica come presenza capace di generare nuove idee, oppure rigettarla come fosse un corpo estraneo. Si apre quindi al rischio. È tale l’importanza di un dialogo aperto, necessario alla messa in campo delle varie competenze che originano l’opera, tanto da condizionarla nell’atto della fruizione, difficilmente scindibile dal luogo per cui è stata pensata. A parità di soggetto, le stesse immagini fotografiche si caricano di significati diversi nel momento in cui, con dimensioni e materiali differenti, sono affisse ai muri di una città, sul pavimento di una galleria o sulle pareti di un museo.
Luca Panaro è critico d’arte e curatore, insegna all’Accademia di Belle Arti di Bologna e collabora con l’Accademia di Brera, l’Isia di Urbino, il corso per curatori di Fondazione Modena Arti Visive. Tra i suoi libri: Tre strade per la fotografia (2011), Casualità e controllo (2014), Un’apparizione di superfici (2017), La fotografia oltre la ripetizione (2019), L’immagine militante (2023). Ha pubblicato su Enciclopedia Treccani XXI Secolo il saggio «Realtà e finzione nell’arte contemporanea» (2010) oltre a una serie di cataloghi e monografie su artisti contemporanei.
Note:
[1] J. Fontcuberta, La furia delle immagini, Einaudi, Torino 2018
[2] L. Panaro, L’occultamento dell’autore. La ricerca artistica di Franco Vaccari, Apm Edizioni, Carpi 2007
[3] R. Krauss, Reinventare il medium, Bruno Mondadori, Milano 2005
[4] M. Cresci, Dentro le cose, Apm Edizioni, Carpi 2011
[5] F. Sandri, Precipitati di realtà, Danilo Montanari Editore, Ravenna 2016