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Oltre a terrorizzare, l’Isis vuol farsi odiare. Perché?

Umberto Allemandi

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I film splatter ci hanno mostrato più volte, con dovizia di particolari, gli effetti di una lama affilata su un corpo umano, ma non si era mai vista al cinema la sistematica distruzione di un museo, come quella filmata dai fondamentalisti dell’Isis nel Museo e nel Parco Archeologico di Mosul, l’antica Ninive. Di qui lo shock, paragonabile a quello scatenato dalle Twin Towers sventrate dagli aerei kamikaze dell’11 settembre, del nuovo video diffuso dal Califfato. Per la prima volta nella storia milioni di persone hanno potuto assistere da spettatori e non solo da vittime a un fatto che pure molte volte si è ripetuto, dall’incendio della Biblioteca di Alessandria ai Buddha di Bamiyan (e purtroppo sarà destinato a ripetersi) nella storia dell’umanità, ovvero la prolungata violenza contro l’arte e la cultura. Lo «speaker» nel video ha spiegato che si trattava di abbattere gli idoli di altre religioni, così come sarebbe stato prescritto dal Profeta. Ecco allora il meticoloso equipaggiamento di cui sono stati dotati i boia del museo, mazze, picconi e, per materiali particolarmente tenaci, martelli pneumatici; ecco la sottolineatura di alcuni momenti della demolizione con l’uso del rallentatore. Gli autori del video hanno anche montato, a fianco della scena che ne mostrava l’attuale distruzione, un’immagine del ritrovamento ottocentesco della Porta del dio assiro Nergal: sono i manierismi e il didascalismo tipici dei registi dilettanti o c’è qualcosa di più? E qual era il vero obiettivo del raid? Una religione con i suoi «idoli» o piuttosto un museo, con tutte le implicazioni che un attentato alla cultura e alla bellezza porta con sé? Sono aspetti come questi che fanno riflettere circa il fine che si prefigge l’Isis con i suoi filmati, nei quali alle decapitazioni umane hanno fatto seguito quelle di sculture antiche di tremila anni, ai roghi degli ostaggi quelle dei manoscritti della Biblioteca di Mosul. Il fine è evidentemente quello di lanciare una sfida. E perché lo sfidato accetti di scendere in campo, in questo caso accettando lo stato di guerra (che sarebbe, da parte dell’Occidente, l’implicito riconoscimento del Califfato come «nazione») si fa leva su vari sentimenti: dolore, onore ferito, odio. I videomaker dell’Isis, dunque, non mirano soltanto a spaventare (anche con le reiterate minacce di un nuovo sacco di Roma dopo quello della Mesopotamia, antica culla della civiltà), ma a farsi odiare con quell’odio che tutti i conquistatori scatenano oltraggiando ciò che per i conquistati era più sacro: la distruzione di una città era (è) tradizionalmente suggellata dallo stupro di massa. Non sarà un caso se arte, cultura, storia, civiltà e fede sono tutti sostantivi femminili.



Umberto Allemandi, 02 marzo 2015 | © Riproduzione riservata

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