La decisione di Stefano Raimondi, direttore del Mac-Museo d’Arte Contemporanea di Lissone dal 2023, di dedicare i tre piani del museo all’allestimento di mostre personali, si inserisce in una programmazione ambiziosa, che si distingue per la scelta di sostenere artisti semi emergenti e di promuovere la loro ricerca nelle fasi più sperimentali. Questa soluzione mira a incentivare nuove produzioni, garantendo loro uno spazio ampio e visibile dove possano essere adeguatamente giustificate e contestualizzate. In questo ambito si colloca la personale «Mockupaint» di Oscar Giaconia (Milano, 1978), in corso fino al 26 gennaio 2025, una mostra che certamente sfida il format tradizionale del museo.
Interessante in «Mockupaint» è l’effetto di straniamento dovuto alle scelte allestitive, frutto di una collaborazione con l’architetta Maria Marzia Minelli. Giaconia ha suddiviso i piani del Mac in sezioni che non si limitano a esporre le opere, ma le inseriscono in un gioco di spazi, che sembrano, a prima vista, disgregarsi in compartimenti indipendenti e contraddittori. Tuttavia questa frammentazione non è casuale. Al contrario risponde alla volontà di riscrivere la struttura stessa della mostra, ponendo l’elemento dell’artificio in primo piano, insieme con la fusione tra linguaggio pittorico, prediletto dall’artista, e il «mockumentary». Ogni compartimento espositivo viene convertito in un «mock-up», un modello che riproduce un frammento di realtà, restituendo una versione simulata dell’originale di riferimento. L’esperienza del visitatore diventa complessa e stratificata: ogni angolo dello spazio espositivo è concepito come una porzione di racconto interrotto, come un frammento di narrazione che non ha né un inizio né una fine, ma che si sviluppa più che altro nei termini di «un’opera non finita», cambiando continuamente trama davanti agli occhi di chi osserva.
Il percorso si configura come un macchinoso cantiere aperto, contraddistinto dalla presenza di componenti come orsogril, plinti in cemento e recinzioni manipolate, tutti camuffati per rivelare la loro natura artificiale. Al suo interno prendono vita diversi set e oggetti di scena fabbricati nel corso del tempo per essere successivamente manomessi attraverso la pittura, come accade nell’opera «Calabiyau» (2018), in cui la presenza di un tubo fognario assume le sembianze di una tassidermia inusuale e mastodontica. L’ampia selezione di opere come «Parasite Soufflè» (2023), «U.P.D.» (2020) e «Dad Head Playset» (2024), permette di riconoscere nel processo una riflessione profonda sul concetto di «corpo pittorico», intenso non solo come oggetto fisico ma come entità metamorfica, un organismo che vive e muta. Il gesto artistico diventa quasi chirurgico, un atto di scavo e riesumazione. La «riesumazione», che emerge anche nella sua estetica, è al centro della poetica dell’artista, che proviene da una famiglia di conciatori di pelli: nelle sue opere, materiali come silicone e gomma non sono semplici elementi decorativi, ma diventano protagonisti, evocando tensione tra vita e finzione.