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Paolo Canevari, «Paesaggio», 2021

Courtesy Artista e Galleria Christian Stein

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Paolo Canevari, «Paesaggio», 2021

Courtesy Artista e Galleria Christian Stein

Paolo Canevari e i paesaggi dell’assenza

Alla Galleria Christian Stein di Milano la materia si fa silenzio e denuncia: «Non credo nelle produzioni ricche o nelle opere che rappresentano un’economia forte. L’arte deve poter esistere senza il potere»

Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Identità storica e tempo presente sono le due polarità entro cui il lavoro di Paolo Canevari (Roma, 1963) si muove da sempre, seppure con media e linguaggi differenti. Per rendere manifesti questi principi fondanti, l’artista si serve di «metafore visive» che scaturiscono dall’uso di materiali di scarto della nostra civiltà industriale (così sovrabbondante di merci e quindi di rifiuti), ai quali assegna un messaggio concettuale, cercando attraverso il loro utilizzo un riscatto dal declino cui sembriamo avviati.

Esemplari, a questo riguardo, i paesaggi che espone nella personale milanese presentata da Christian Stein dal 29 ottobre al al 31 gennaio 2026: nessun colore, solo il bianco antico della carta da disegno e il nero dell’olio motore esausto, sostanza quanto mai venefica e inquinante, qui assunto a simbolo del nostro mondo. In queste opere (lo spiega lui stesso) Paolo Canevari riflette sul genere pittorico del paesaggio, così centrale nell’arte, ma riflette anche sugli statuti della pittura, perché qui la sua non è fatta servendosi di pennelli ma imbevendo la carta di olio per automobile esausto e lasciandogli il tempo di agire sul supporto, che dunque «si trasforma per osmosi: così nascono profili e sfumature che evocano paesaggi naturali». E lo fanno con l’identica (e qui inattesa) poesia degli inchiostri sfumati e dilavati della pittura tradizionale cinese di paesaggio, con i suoi spazi silenziosi e sognanti: «la ricerca del silenzio come spazio interiore da ritrovare nell’opera, continua l’artista, è per me una scelta consapevole e politica. Viviamo immersi in un rumore continuo, in una sovrapproduzione di immagini, parole, opinioni. Il silenzio diventa una forma di resistenza: un luogo di ascolto, un tempo necessario per il pensiero; per ritrovare una dimensione umana del fare». 

La scelta stessa di avvalersi di due sole materie, carta e olio industriale combusto, ha del resto anch’essa una valenza, per così dire, politica: «La mia, dice, è una pratica che rifiuta l’eccesso e il monumentalismo. Non credo nelle produzioni ricche o nelle opere che rappresentano un’economia forte. L’arte deve poter esistere senza il potere». Un’altra via di rastremazione, se non di azzeramento, dei mezzi pittorici è quella da lui condotta nei «Golden Works», 2019, parte (come i «Paesaggi», 2018-22), del ciclo avviato del 2011 dei «Monuments of the Memory»: qui è la foglia d’oro su tavola a sondare il potere evocativo dell’assenza, mentre a chiudere il cerchio, in mostra, è un paesaggio grande quanto una parete, realizzato per l’occasione: non incorniciato questo, a differenza di quelli di minore formato che, a sorpresa, sono racchiusi in cornici dorate intrise di memoria. Al centro dello spazio della galleria (dove Canevari espone dal 2002) c’è poi un’inconfondibile «Sfera» (2005), la cui superficie è ricoperta di brandelli di copertoni di pneumatici dismessi: gomma corrosa e irregolare, che contraddice la perfezione platonica di quel solido, mentre ci rammenta l’urgenza di ridurre i nostri consumi e i nostri rifiuti. 

Ritratto di Paolo Canevari, 2025. Photo: Ilaria Lagioia & Pierpaolo Lo Giudice

Ada Masoero, 28 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

Paolo Canevari e i paesaggi dell’assenza | Ada Masoero

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