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Paolo Portoghesi durante l’allestimento della «Via Nuovissima» alla Biennale di Venezia del 1980

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Paolo Portoghesi durante l’allestimento della «Via Nuovissima» alla Biennale di Venezia del 1980

Paolo Portoghesi: una lettera e una Rolleicord arrivata troppo tardi

Maurizio di Puolo ricorda il grande architetto da poco scomparso, suo docente e poi amico di una vita

Maurizio di Puolo

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In memoria di Paolo Portoghesi 1931-2023

Una mail del 14 luglio del 2020:  *paoloporto@tin.it

«Carissimo Paolo,
Faccio sempre ai miei studenti la domanda: “Cosa fareste vedere ad uno straniero -mai stato nella Capitale- e curioso di Architettura?”... Facilissima risposta per i secoli passati, altrettanto facile fino al tardo Settecento... Un po’ difficile nell’Ottocento e solo per palati fini, più facile (pur di non avere paraocchi) nel Novecento Razionalista anteguerra e poi un vago buco nero... salvo qualche lampo, fino ad oggi: nella città che ha inventato la “palazzina” replicata in migliaia di varianti all’interno dello stesso schema, come una sorta di Cubo di Rubik che gira gira è sempre un cubo emergono (o talvolta emergevano) pochi “pezzi”... qualcosa del Tiburtino ancora col sapore di “Ladri di Biciclette”, qualcosa di Carlo Aymonino e Sandro De Rossi, episodi di Montuori e Luccichenti, due opere di Moretti sfortunate e senza più la forza della Scherma, un tentativo di Zevi dalle parti della Marina e poi Ridolfi nel quartiere Africano e con le Poste di piazza Bologna insieme a Mario Fagiolo, i fratelli Passarelli che distrussero l’immagine del palazzo per uffici, Mario Fiorentino nel Corviale (“nato bene e morto male” come lo Zen di Palermo)... l’edificio dell’Ordine dei Medici e più recentemente una chiesa di Piero Sartogo al Portuense,  un’opera di Sandro Anselmi a Fiumicino, all’EUR la Nuvola di Fuksas e lo splendido Eurosky di Purini e Thermes... Credo di essermi fatto molti nemici tra gli amici ma non importa... Chiuderei il giro, al tramonto, con il Villino Papanice (1969-70) in via Marchi, zona Nomentana.

Dicevamo sempre tra noi (allora, giovani architetti) che eri troppo colto per questo “mestiere” e che sicuramente dovevi combattere al tecnigrafo con troppe pulsioni...Scherzavamo sul fatto che sul tuo tavolo non c’era la classica Riga a T di Wrightiana memoria ma solo curvilinei, quelli col riccio... e con il Gran Barocco dietro le spalle: Angelo Custode pericoloso che può portare e gettarsi su di una spada, come Borromini, in una notte al vicolo Orbitelli...ne uscì, tardi anni Sessanta, una “cosa” spiazzante, compresa e voluta da un signore -Papanice appunto- che accettò coraggiosamente un progetto tuo e dell’indimenticabile Gigliotti e che lasciò senza fiato l’entourage architettonico...c’era dentro tutto: l’amore per una certa visione matematica (e tu sai perché), il design fantasioso di tanti particolari dovuto all’arte del Disegno (oggi quasi scomparsa grazie a Bill Gates)...e i colori di gioia che si ritrovano solo in Gaudì...e poi le famose “canne d’organo” come monumento silenzioso alla musica barocca: oggi quest’opera, passata dopo il 1972 nelle mani dell’Ambasciata di Giordania, pur tra le polemiche, si sta avviando alla nobiltà del “rudere”, ammalorata, spenta, mutilata e triste.  Distrutta la scala esterna, scomparse le canne d’organo, l’interno devastato e il divieto dell’ambasciata ad una visita all’interno...Rimane qualche immagine della passata bellezza nel film di Ettore Scola “Dramma della Gelosia” con Monica Vitti e Mastroianni.

Quasi tutto quello che ho ricordato è pressoché scomparso: è stata distrutta non la casa ma la “poesia” di essa...i soldi e l’ignoranza -come nella “Maison du Peuple” di Horta a Bruxelles- hanno vinto. Come anche nel caso di un altro capolavoro che trovai abbandonato e semidistrutto, usato come stalla e con le vacche sul prato a Poissy nel ’61: chiamato con disprezzo dai locali la “Maison Chinoise” ed in realtà la “Villa Savoye” di Le Corbusier (1928-31) capolavoro assoluto del Maestro... Ora, grazie al governo Francese, salvata e riportata al suo splendore. Possiamo sperare anche in un miracolo Italiano? Ne dubito, ma te lo auguro».                                                                                                                
MDP/ 2020

Insomma, Paolo Portoghesi non può essere ricordato, come è stato fatto in questi giorni post mortem, senza un’accurata indagine sulle radici dei suoi progetti e sul retroterra culturale che gli ha permesso di sostenerli: assurdi ritornelli giornalistici sul Barocco, sulle Moschee, sul Post Modern... Basta, chiariamo tutto. Lo posso fare avendo lavorato con lui e per lui in vari anni in un rapporto umano e amichevole che può spiegare certe sue scelte: a volte sbagliate, a volte troppo prima e a volte geniali.

La radice di tutto il suo lavoro ha un solo nome: Bellezza...  Attenzione, non estetica ed estatica ma scientifica, nella natura, nella musica, nella poesia, nella matematica. Come in Borromini che progetta un San Carlino con le reminescenze dei racconti di frati francescani missionari in Giordania a Petra o il rinoceronte «Ulisse» inciso da Dürer senza averlo mai visto, Paolo P. progetta opere «che raccontano un pensiero», come Casa Baldi fondata su di una rupe che sovrasta il Tevere e contigua a reperti archeologici di ville romane del I e II secolo d.C. Casa Baldi, intesa come opera prima (lui ventottenne) lascia già intravedere gli elementi di un lessico che Portoghesi si porterà avanti, in infinite variazioni, per tutta la vita: l’elemento «curva» e l’elemento «povero», ovvero il blocchetto di tufo non intonacato: due citazioni borrominiane come lo straordinario campanile e il tiburio di Sant’Andrea delle Fratte.

Queste due particolarità le ritroveremo (rimiscelate, cambiate, ripensate) in tante sue opere: perché? C’è una ragione.
Il mondo organico, la matematica e l’arte muraria, tutto fuso in qualcosa «che vive», che si muove: un processo che troviamo in nature in forme fragili e fragilissime, ma quasi mai nel mondo del mattone, del blocco di marmo, dell’«ignobile fango rappreso» come veniva chiamato nei primi tempi il cemento armato... E qui arriva ed esplode la cultura di Portoghesi per il Grande Barocco: onde e colpi di frusta, curve rigorosamente geometriche e improvvisamente troncate ma impensabili pochi anni prima. Opere straordinarie, definite malignamente in pieno ’700 da Francesco Milizia «frutto di uno stipettaio impazzito», alludendo a capolavori borrominiani e di Guarino Guarini non perdonando nemmeno Michelangelo per un certo profumo che può preludere alla «Peste del Barocco» nel suo Dizionario delle Arti e del Disegno del 1797.

Proprio Michelangelo, nel 400mo anno dalla sua morte, fu onorato in una strepitosa mostra al Palazzo delle Esposizioni messa in opera da Bruno Zevi e Paolo Portoghesi con un Comitato Scientifico eccezionale e un allestimento che, secondo me, passerà alla Storia. Era il 1964 e due nuovi elementi entrarono nel mondo dell’Exhibition Design: la Fotografia NON come documentazione ma come «lettura» e i «Plastici Critici» non più Case di Bambole ma interpretazione dello spirito dell’opera. Una colta rivoluzione.

I due personaggi, Zevi e Portoghesi, divisi da 13 anni d’età, di differente formazione e ferocemente «prime donne», non potevano essere più diversi e in particolare in un campo specifico: la Fotografia. Bruno Zevi, sue parole, sosteneva che le migliori foto per un libro fossero le «cartoline»: senza tempo, senza passione, insomma «belle senz’anima».. Paolo Portoghesi invece, anche lui fotografo, scoprì, si può dire, la forza dell’immagine nell’Architettura: una differenza abissale, come passare dal ritratto di un volto a una Tac del cranio... Oscar Savio, grandissimo fotografo e amico, comprese questo concetto e rese fondamentale il suo apporto alla mostra di Michelangelo: insomma si erano rotte le acque.

Nei primi anni ’60, dopo il biennio d’Ingegneria alla Sapienza, passai ad Architettura a Valle Giulia. Fu come trovarsi in una clinica di Zurigo dopo un suk del Cairo. Ad Architettura tutto diverso: professori come Luigi Perugini, Furio Fasolo, Bruno Zevi, il terribile Chiellini di Analisi matematica e un giovane professore, trent’anni, folta capigliatura nera (allora si diceva «alla Mascagni») ed era Paolo Portoghesi. La sua cattedra era quella di Letteratura Italiana e mi sembrò talmente fuori luogo che m’iscrissi con curiosità al suo corso: in realtà era un corso «grimaldello» dove passava di tutto: dalla Poesia alla Musica, dall’Art Nouveau all’Art Déco, dal Barocco al Razionalismo... Tutto con grande entusiasmo.

Ne rimanemmo affascinati io e la mia compagna di allora Manuela F. (diverrà una nota psicanalista) e P.P. ci affidò una tesi abbastanza rognosa: «Evoluzione del Linguaggio Barocco», testi e foto. Va tenuto presente che in quegli anni il Barocco veniva ancora visto, stranamente, con sospetto tanto che nella guida di Roma del Touring per la Chiesa di Santa Maria in Cosmedin si leggeva «purtroppo trasformata in stile Barocco»: colpa, nel 1715, di Giuseppe Sardi, validissimo esponente del primo ’700. Borromini ancora spaventava, Bernini era troppo, Pietro Berrettini «da Cortona» di dubbio giudizio: insomma per pregare o anche per sposarsi valeva il principio del «mistico-francescano»: mattoni nudi, niente ori e stucchi, niente putti e puttoni, niente raggi di sole, niente organi dalle mille canne; lo stesso Gesù si sarebbe aggirato mestamente, diciamo in incognito, nelle tristi (ma nobilissime) rettilinee navate.

Un perbenismo democristiano che valeva in quegli anni anche su altre Arti: l’Art Nouveau, poi sdilinquita nel Floreale Italiano con un vago profumo di naftalina; l’Art Déco, che purtroppo si allargò in forma oleosa dalla grafica alle pompe di benzina, come una pelle «attaccata» a un qualcosa, lontana mille passi dai capolavori di un Jean Puiforcat del 1926; e i mobili dei Fratelli Thonet, visti come il demonio e paradossalmente «Bon pour l’Orient» (come dicevano i medici militari francesi spedendo delle macilente reclute in Indocina) non capendo che proprio i mobili Thonet in legno curvato erano gli  unici che si potevano spedire smontati «piatti» nelle Colonie e che fecero la fortuna della Fabbrica. Come poi farà l’Ikea.

Non ho scelto argomenti a caso: tutto questo mondo di abitudinarie e ignoranti concezioni venne spazzato via dagli studi e dalle nuove ricerche di Paolo Portoghesi: dall’introvabile testo di Stephan Tschudi-Madsen sul Liberty (che allora era come trovare facilmente una Bibbia di Gutenberg  all’edicola sotto casa) alla ripresa del collezionismo, talvolta frenetico, per questi periodi, alla fioriture editoriali specifiche e finalmente senza paraocchi e testi con nuove e fresche fotografie: proprio di P.P. la «ROMA BAROCCA», «BORROMINI», «VICTOR HORTA» e «THONET i Mobili in Legno Curvato»... L’inizio, insomma, di una bella lenzuolata di aria nuova, vivaddio.

Come ho già accennato prima, la tesi sul «Linguaggio Barocco» venne benissimo corredata dalle mie foto in quanto vivevo in modo agiatissimo con la fotografia specialistica per Architettura e  Scultura. Settore molto poco affollato: il grande Oscar Savio, Eugenio Monti ed io. E qui scatta la Pistola Fumante e la nascita di una grande amicizia dopo le scuse del «reo confesso»: eccone la storia.

Le tesi per l’esame, ben rilegate, venivano consegnate in anticipo al professore che aveva il tempo di controllarle. Al momento dell’«orale», se con voto positivo, venivano riconsegnate agli studenti. Prendemmo un bel voto e tornammo casa con il malloppo. Risfogliandolo, per curiosità, notai che tantissime foto bene incollate a furia di coccoina erano state strappate via...Alla lezione successiva e con molta cautela feci presente la cosa al Prof. Portoghesi non ancora Paolo: con la sua inconfondibile voce vagamente baritonale «la sventurata rispose» dichiarando che le aveva, per caso, prese lui per un libro che stava facendo. Il misfatto, in fondo, mi faceva onore e gli dissi chiaramente che sarei stato felice di fotografare per lui. Scoprii così che riguardo la Fotografia avevamo lo stesso orizzonte, gli stessi concetti.

Nacque così un’amicizia e una stima reciproca che è durata sessant’anni con mille storie e viaggi, libri, progetti e concorsi e migliaia di mie foto per i suoi libri frutto di arrampicate spettacolari, di falsi permessi, di millantati crediti vaticani per fare aprire chiese e cupole vietatissime...

Nel suo ultimo libro Paolo Portoghesi Fotografo ancora in forma di bozze un mese fa (edito da Gangemi Editore contemporaneamente al mio Fogli Volanti) spiai per caso il pezzo dove raccontava il suo inizio da fotografo. Raccontava di uno zio che gli regalò o prestò la sua prima macchina: una ROLLEICORD 6x6 alla quale seguì una Speed Graphic 4”x5” per arrivare alla famosa Hasselblad Super Wide che negli anni ’60 si distrusse in un volo dalla cupola di Sant’Ivo alla Sapienza per Borromini.

Avendo P.P. quasi dieci anni più di me (era del ’31) calcolai che la prima Rolleicord era tra gli anni tra il 1930 e 1940 e nella mia collezione ne avevo due esemplari dei quali uno rarissimo: il modello Sport decorato con una livrea «Art Déco»: un regalo perfetto. Un’affettuosa lettera a mano, imballo della Rollei con preghiera a Fabio Gangemi di consegnargliela a Calcata insieme alle bozze corrette...
Non saprò mai se l’ha vista. Una settimana dopo, purtroppo, ero al suo funerale nella chiesa di Calcata.
Addio Paolo.
 

Villino Papanice nello stato attuale dopo le deturpazioni dell’Ambasciata di Giordania

Gentilmente concesso dall’Archivio Casa Papanice ©: Interno del Villino Papanice, progettato da Paolo Portoghesi nel 1969-70, così come appare nel film di Ettore Scola «Dramma della gelosia». Attualmente l’Ambasciata di Giordania non permette le visite all’interno e questa foto è l’unica testimonianza rimasta dello stato originale

Maurizio di Puolo, 15 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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