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Valentino

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Parigi Fashion Week, un riassunto

Infiniti debutti a Parigi, e tanto si è parlato di un fashion reset che forse non c’è stato. Ma il sistema moda si è riassestato. Il sesso affascina come non succedeva da anni. Blazy da Chanel chiude in bellezza

Jacopo Bedussi

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A chiudere la prima giornata, Anthony Vaccarello da Saint Laurent mette in scena la consueta grandeur d’oltralpe con il marchio parigino per eccellenza, sotto la Tour Eiffel illuminata e con una passerella inondata di ortensie bianche a comporre il logotipo YSL. È una collezione insieme strana e rassicurante la sua, intrinsecamente Saint Laurent, e quindi intrinsecamente ammaliante ma intrisa di calibrati pensieri di morte. Tanta pelle, blouson da Valie Export, spalle enormi, sensazioni di pericolo e di Baader-Meinhof. L’ispirazione però sembra essere piuttosto la scena cruising gay parigina degli anni Ottanta. E quindi Eros e Thanatos, e magari Michel Foucault tra cespugli e coiti poststrutturalisti. A seguire, un alleggerirsi di abiti da sera spumosi ed eterei, colorati. Paradisiaci? 

Nicolas Ghesquière resta, dentro a Louis Vuitton, un’isola di autonomia tutta stonata e personale e quindi auspicabile. Le sue collezioni vengono sempre da un mondo che sembra insondabile, a cui solo lui ha accesso, e sono il risultato di una commistione di sue fisse o fascinazioni che poi vengono restituite in passerella in un cut and paste sempre spiazzante. In un mondo del lusso che cerca disperatamente di convincere gli acquirenti che i prodotti proposti sono timeless, e quindi investimenti oculati perché non esposti all’obsolescenza programmata della moda, Ghesquière se ne esce con collezioni che vivono fuori da ogni tempo se non il suo. Preso singolarmente, in una sfilata ogni look potrebbe venire da dieci anni fa o essere un portale spazio-tempo per il 2035. Non c’è alcuna intenzione conclusiva, nessuna coerenza, nessuna rassicurazione. Meravigliosa anarchia nel tempio.

Matières Fécales, progetto artistico che riunisce la neozelandese Hannah Rose, 31 anni, e il canadese Steven Raj Bhaskaran, 29 anni, è una di quelle scintille che possono sembrare banalmente provocatorie ma che a un secondo sguardo rivelano una profondità di pensiero e una notevole capacità di fare. I due rimettono in circolo, in uno show che si sviluppa nella più classica delle forme tra saloni di stucchi e parquet in Place Vendôme, registri non nuovi ma da tempo dimenticati o addirittura temuti dal sistema moda più allineata, ossia il conturbante e il sinistro. Operando sul rituale della Haute Couture interventi devianti, propongono versioni inquietanti delle classiche silhouette anni Quaranta di Christian Dior e mostrificano l’eleganza istituzionale in una specie di grande citazione di Alexander McQueen senza cedere a un citazionismo superfluo.

Debutto a metà per Jonathan Anderson da Christian Dior, che già con le sfilate uomo di giugno aveva fatto una sua molto riuscita dichiarazione d’intenti. Qui, con uno show anticipato da un minifilm proiettato su una piramide rovesciata diretto da Adam Curtis, che ha giustapposto filmati d’archivio della maison dagli anni Quaranta al recente passato alternati a scene di film horror e thriller, probabilmente a intendere la paura e il desiderio di Anderson messo di fronte a una delle bestie più temute e rispettate del sistema moda, si è trovato un seguito forse meno entusiasmante di quella visione, perché subito riconducibile alla formula Dior + Anderson =

C’è infatti un coerente prosieguo della ricerca sui volumi, sulle riduzioni, sulle semplificazioni intellettualizzate, sulle stranezze ponderate, che il designer nordirlandese ha condotto prima da Loewe. Uno show prevedibilmente bello e compostamente interessante, com’è però corretto e auspicabile per la divisione femminile del gigantesco marchio, che nell’incarnare l’istituzione si deve muovere lentamente, per slittamento, come un ghiacciaio, contrariamente alla più libera trasformazione della controparte maschile, terra da sempre di sperimentazione e possibilità più sovversive.

Balenciaga Summer 26

Louis Vuitton

Haider Ackerman da Tom Ford si gioca tutto in un turbine di sesso e… di ancora altro sesso, in un cruising metafisico e sintetico di gelido lusso. Uomini e donne che si sdoppiano e si svestono, tra abiti da sera o uniformi da gran galà spezzate dove sotto ai blazer ci sono micro-short trasparenti da cui si intravedono jockstrap che quasi nulla lasciano all’immaginazione, e dichiarano intenti chiarissimi. Corpi consapevolmente pronti a usare e a essere usati. Un tripudio di desideri finalmente espressi, anzi ostentati, e poi il mattino dopo tutti di nuovo in ufficio, fingendo che non sia successo nulla, ma sapendolo bene e ricordandolo in souvenir libidinosi.

Rick Owens resta il maestro della coerenza a una visione che nel radicalismo totale trova la propria linfa e costruisce la propria comunità. Una delle poche vere e autentiche che oggi sopravvivono e prosperano in dialogo con un designer. Una collezione che si chiama «temple» come quella maschile dello scorso giugno, e come «Temple of Love», la retrospettiva dedicata a Owens al Palais Galliera di Parigi fino al 4 gennaio ’26, che è anche una summa e un compendio di tutto il suo lavoro fatto finora e progredisce come un rituale di rinascita nella fontana del Palais de Tokyo. La colonna sonora, una ricomposizione estesa e rimontata al contrario di «Somebody to Love» dei Jefferson Airplane, è un capolavoro a sé.

Altro debutto da Loewe con Jack McCollough e Lazaro Hernande, ex Proenza Schouler, che fanno seguito a Jonathan Anderson, il quale proprio qui ha dimostrato le sue capacità sul lungo periodo e si è fatto le ossa nel gruppo LVMH a grandi passi ma sempre misurati e mai accondiscendenti.

Per il momento, la verità è che su questo nuovo inizio non c’è ancora molto da dire. I due sono bravi e sono stati tra i protagonisti di una scena newyorkese che tra dieci e vent’anni anni fa aveva fatto nascere la sensazione che un modo americano di fare la moda che avesse anche intenzioni intellettuali e pronta a porsi domande su di sé potesse prosperare. Non fu così, o fu così per un periodo di tempo molto limitato.

In questo debutto ci sono reminiscenze di quel periodo, ma anche proposte curiose seppur acerbe come alcune silhouette molto grafiche e che paiono bidimensionali. Ma è un discorso che ancora deve svolgersi.

Pieter Mulier da Alaïa compie una di quelle piccole magie, quelle in cui le idee vincono sui budget, che sono anche le ragioni per cui la moda nonostante tutto continua a produrre scintille di meraviglia. In un set che è una scatola magica, con un pavimento-schermo su cui si succedono immagini di volti e un soffitto a specchio, le modelle incedono nei loro abiti come lacrime che quei volti li solcano.

Il risultato sono dieci minuti di sospensione e bellezza, di stupore lontano da ogni grandeur. Gli abiti, come sempre per Mulier, sono esplorazioni della moda all’interno dei suoi confini più classici e insieme rigorosi. Ma proprio in questa ferrea disciplina, in questo non cedere ad alcuna contaminazione, si produce quell’effetto magico. Scatenano un certo dibattito le tute-bozzolo con collo alto che non prevedono buchi per le braccia, come se la moda e l’abbigliamento antinfortunistico dovessero rispettare le stesse regole.

Altro show, altro debutto, stavolta con Pierpaolo Piccioli da Balenciaga. Operazione non semplice, venendo Balenciaga da un decennio, con la direzione di Demna, di rilevanza eccezionale. Una di quelle rare esperienze che rimodellano il modo in cui uomini e donne si vestono scollinando i limiti del marchio e andando a influire sulla percezione di sé delle persone. Piccioli ha dalla sua l’arma pressoché unica nel contesto odierno di essere un couturier a tutti gli effetti, e in questo il rapporto con Cristóbal Balenciaga si fa diretto. La forza del marchio sotto Demna però viveva di tutto tranne che dell’abilità tecnica. E in questo clash tra nomea e sedizione si produceva immaginario. Tenere insieme tutto non era facile, ma Piccioli ci è riuscito grazie a un senso della composizione e a uno sforzo si potrebbe dire espressionista. E scegliendo di non chiudere ossessivamente le proposte messe in campo, come è invece nella sua natura e come aveva abituato tutti giustamente da Valentino, godendosi la libertà di abbozzarle, di appoggiarle lì. Serve maturità per una scelta del genere, perché offre il fianco a facili critiche e soluzioni proposte, ma è anche un modo libero di iniziare un percorso senza svelarne la fine dal primo giorno.

Miu Miu Ss 26

Chanel Spring Summer 2026. © Chanel

Dopo i risultati non pirotecnici delle ultime proposte, Alessandro Michele da Valentino cambia registro. Cioè, da un lato torna a fare quello che sa fare meglio ossia intridere la sua moda di intenti progressisti e dichiarazioni a tutti gli effetti politiche, camminando sul filo della militanza, pur con tutte le contraddizioni che il funambolo deve affrontare se è il direttore creativo di un marchio del lusso che fattura oltre un miliardo di euro. Dall’altro pulendo, e molto, i look e lo styling, non abbandonando del tutto la flamboyance che gli è propria, ma addomesticandola. Siamo naturalmente ben lontani da una qualunque idea di minimal, ma considerato il contesto siamo di fronte a una sorta di austerità.

La riduzione giova al discorso. E soprattutto sembra fluire da una riflessione autoriale e non da una richiesta di mercato. Michele riesce a essere Michele pur limitando l’utilizzo dei segni. Guadagna anzi in chiarezza ed efficacia (obiettivo fondamentale questo di ogni militanza, ma troppo spesso dimenticato), e se nelle prime prove da Valentino una critica riguardava l’attaccamento a un sé passato che ora risultava polveroso, qui si torna a parlare la lingua dell’oggi.

Sulla questione della moda come politica si apre invece un certo dibattito, e in fondo è questa una parola che segna (bene sia così!) questo giro di sfilate da Milano a Parigi.

Lo show, dal titolo «Fireflies», è tutto una mise en scène costruita esplicitamente attorno al discorso delle lucciole di Pierpaolo Pasolini.

La metafora è potente e sembra attagliarsi perfettamente a questi tempi bui soprattutto grazie alla selezione operata nella cartella stampa rispetto all’interezza del testo. E riporta Michele al centro di una funzione che per tanti è urgente, e che fino a solo qualche anno fa consideravamo necessaria ma anche praticamente ovvia: ossia che la moda parlasse di noi, dell’oggi, di quel che succede nel mondo. Che rispondesse, anche, con i propri strumenti, a tutto ciò. Una funzione che il quiet luxury e i timori per i risultati trimestrali hanno seppellito sotto tonnellate di retorica in un contesto economico e politico in cui è meglio non esporsi e attendere che passi la nottata reazionaria. Alla creatività e al progressismo ci si ripenserà quando possibile.

Quindi sentire un discorso, letto da Pamela Anderson (la vecchia ossessione dell’high-low non lo abbandona nonostante tutto), in cui si critica e si nomina ad alta voce un imperante fascismo fa oggi specie e smuove ed emoziona, e si nota nelle reazioni dei più giovani sui social come questo engagement (da leggere in francese, non in inglese) poetico abbia oggi molto senso e risponda a un bisogno, come lo faceva con altri giovani dieci anni fa. 

Questo schierarsi di Michele, questa sua mistica semplificata che offre la sensazione di potere accedere a un dibattito e a un salotto, è ciò che lo ha reso e potrebbero renderlo di nuovo un interprete generazionale.

Tra noi vecchi che siamo andati a rileggerci l’articolo di Pasolini pubblicato sul «Corriere» pochi mesi prima di essere ammazzato, nonostante tutte le buone intenzioni, finisce per risuonare in testa anche la chiusa che risulta un po’ stridente in questa restituzione fashion: «Io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola». Ma la moda non è una lezione universitaria, e i vecchi, come diceva Wilde, hanno sempre torto.

L’esordio (sì, ancora) di Duran Lantink, millennial olandese, da Jean Paul Gaultier e lo show di Sean McGirr, millennial irlandese ormai da qualche stagione alla guida di McQueen hanno qualcosa in comune.

Entrambi sono stati impallinati alla loro prima prova dal fuoco di fila dei censori social, detentori della verità e del sacro spirito dei marchi.

Il primo passo di Lantink era, va detto, tutto sbagliato, ma è stato fatto a pezzi per le ragioni più sbagliate. Uno show composto di trovate esasperate e votate allo shock: body sgambatissimi, tettone, parafernalia in gomma piuma da riabilitazione per anziani in piscina, tutine di nylon da mimo su cui sono stampati corpi nudi in un gioco di genitali trompe-l’œil.

Niente, insomma, capace davvero di sconvolgere o anche solo stranire, va bene. Ma deprime che gli attacchi a lui diretti non riguardassero la pigrizia delle interpretazioni, quanto proprio la scelta dei registri: il grottesco, il goliardico, l’assurdo, il volgare anche, perché no, un certo senso di imbecillità che sfocia nel cattivo gusto.

Jean Paul Gaultier

Quando abbiamo deciso che la moda non si possa confrontare con il tutto? Anche con l’idiozia e con la provocazione? E non è forse una certa spiritosaggine idiota un ottimo antidoto al kitsch del quiet luxury? (nell’interpretazione di Tommaso Labranca, secondo cui il kitsch è l’eliminazione di ogni riferimento al basso e al vernacolare in un discorso, in un’ostentata elevazione che finisce per risultare ridicola e stucchevole).

Quando il buongusto è diventato l’unico campo da gioco abitabile? Peraltro, in un marchio il cui fondatore si è guadagnato fin da subito l’appellativo di «enfant terrible» e che con questi strumenti ha sempre giocato in modo forsennato.

Lo stesso era successo a McGirr quando debuttò da McQueen, con una collezione personale, audace e acerba ma che incarnava senza ricalcare uno spirito completamente McQueen-esco pur senza avvicinarsi minimamente alle capacità tecniche e narrative del compianto. Ma anche, a discolpa di McGirr, senza provarci. E anche lui fu fatto a pezzi per vilipendio della memoria del defunto. Curioso sempre come spesso la moda si scopra bigotta proprio quando qualcuno, anche maldestramente, cerca con onestà di infilare il dito in una qualche ferita invece di limitarsi alle dichiarazioni da postpartita sull’aver «un grande rispetto per l’archivio».

Da Miu Miu sembra ci sia stata una bizzarra voglia di restaurazione. Bizzarra perché non c’era niente di conservatore in sé o rispetto al mondo, ma solo rispetto alla storia stessa del marchio. 

Una collezione che sembra riallacciarsi a un discorso che era stato abbandonato con uno strappo con le gonne tagliate al vivo della Spring Summer 22 e il conseguente decollo a razzo verso la coolness e la viralità più vertiginose.

Si torna invece al magnifico cattivo gusto e un elogio del brutto anche molto pradesco. Con un compendio di ossessioni di Miuccia Prada che scalda il cuore dei fan di lungo corso: i grembiuli, i giacconi di pelle, gli scamiciati, le rouche, le fantasie optical anni Settanta da carta da parati o da tovaglia che sia della nonna o di un film di Chantal Akerman.

Vocazione sempre minoritaria quindi e scappare subito all’inglese dalla propria festa prima che annoi. Eleganza e tempismo, sempre.

E infine il debutto dei debutti: Matthieu Blazy da Chanel. E si sa che quella da Chanel è un’investitura a vita. Un’incoronazione. Dopo il regno Lagerfeld, iniziato nel 1983 e terminato con la morte del sovrano nel 2019, e sei anni di sede vacante con Virginie Viard come camerlengo, è il turno (nuntio vobis gaudium magnum) del 41enne belga che era balzato agli onori delle cronache facendo un gran bene da Bottega Veneta.

È impossibile sottostimare quali fossero le aspettative su di lui e la frenesia che contornava quest’attesa. Blazy ha fatto bene, anzi ha fatto molto bene. Forse, ha con una sfilata sola cambiato l’assetto di tutto un sistema. Come? Con una mossa tanto semplice quanto oggi rara: celebrando La Moda come galassia di segni, codici ed emozioni invece di (auto)celebrare la supremazia e la storia del marchio per cui lavora.

Lo stesso tipo di operazione che Vitale ha fatto da Versace a Milano, anche se in versione là in minore (per budget, riferimenti di nicchia sub e contro culturali, dimensione) e qui invece con la massima grandeur: il set è un sistema solare, il budget virtualmente infinito, la regia hollywoodiana, i riferimenti mainstream. Questa di Chanel è un’idea di moda quasi platonica, che affonda le proprie radici negli anni Ottanta e Novanta ma nel lavoro di Blazy non si fa mai leva sulla nostalgia né si tenta la ricostruzione.

L’idea vincente tra questi due casi insieme simili e opposti è però la stessa e cioè un sincero orgoglio per il proprio mondo, senza cedere a sensi di inferiorità nei confronti di discipline e arti affini. La loro è moda fiera. E se non si tratta del fashion reset di cui tanto si è parlato prima di tutti questi debutti, è certamente un inaspettato asse con cui il sistema dovrà confrontarsi.

Jacopo Bedussi, 08 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

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