In una lettera al grande poeta e suo caro amico Rainer Maria Rilke, nel 1906, dopo cinque anni di matrimonio con Otto Modersohn e in un momento di crisi in cui non sapeva se voler essere indipendente e dedicarsi solo all’arte o restare con il marito, Paula Modersohn-Becker scrisse: «E ora non so come firmarmi. Non sono Modersohn e non sono più Paula Becker, sono Me e spero di diventarlo sempre di più».
«Io sono Me» è il sottotitolo della mostra organizzata dalla Neue Galerie insieme all’Art Institute di Chicago, prima grande esposizione dedicata all’artista negli Stati Uniti, aperta fino al 9 settembre. Ma «Io sono Me» è anche la perfetta introduzione per un’artista con un formidabile senso della propria identità, in un’epoca in cui le donne artiste di successo erano un’esigua minoranza. La Becker, che visse soltanto trentun anni, produsse oltre 700 dipinti e mille disegni.
Sfidò le convenzioni del tempo, non solo quelle sociali ma anche quelle dell’establishment artistico: iniziò a dipingere a sedici anni, studiò a Berlino e a Parigi e visse nella colonia di artisti di Worpswede. Decise di essere un’artista di professione, dipinse soprattutto figure femminili, tra cui tanti autoritratti in diversi momenti della sua vita, incluso il periodo in cui aspettava la sua bambina, e utilizzò una pennellata ricca, densa, corposa, quasi materica.
È considerata una delle grandi figure dell’Espressionismo europeo: la sua città natale, Brema, le ha dedicato un museo e ora, finalmente, anche New York le dedica questo appuntamento espositivo.