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Giorgina Siviero

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Giorgina Siviero

Perché ho detto NO ALLE GRANDI MARCHE («Ma Chanel era Picasso»)

La sensazionale conversione di una «gura» delle vendite di moda degli ultimi cinquant’anni che ora apre un negozio «per disintossicarci» 

Carlo Accorsi

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Sono certa che se dobbiamo parlare di contaminazione arte-moda ho qualcosa da dire: sono cinquant’anni che faccio questo mestiere». Così esordisce nella nostra conversazione Giorgina Siviero, creatrice a Torino dei famosi negozi San Carlo che aveva chiuso e che dal 12 settembre rilancia con un geniale allestimento dell’architetto Jeannot Cerutti, il creatore negli anni Ottanta della leggendaria casa in una ex chiesa a Londra del gallerista Mario Tazzoli.
 

Lei è stata la grande «gura» del vendere moda in Italia. Che significato ha questa rentrée? 

Non sono mai uscita dalla moda. Mi sono trasformata. Evoluta o involuta, non lo so. So che finalmente sarò di nuovo me stessa perché fino a ieri soffrivo della sudditanza nei confronti dei marchi padroni. Trovo disdicevole che una diversa imprenditoria si sia inserita in questo mondo della moda con il placet dei grandi marchi.

Allude a imprenditori inesperti ma ben dotati di capitali talora di origine incerta che la moda ha recepito?

Mi sono trovata di fronte a una scelta obbligata: smetto perché questo è un mondo che non mi appartiene più. Io non faccio parte di quell’orda di persone che sgomitano. Oggi la moda è schizofrenica, non è più una cosa rotonda che arriva naturalmente. Oggi la moda va a scatti. Non mi metto a correre dietro a qualcosa che non capisco. Al negozio non ci credo più, al negozio su strada, coi marchi, con la vetrina non credo più.

Perché questa conversione?

Perché questi personaggi sono stati devastanti come tanti Attila. L’arrivo dei vandali ha distrutto un tessuto sano di negozi sani.

Anche nelle relazioni con le case di moda?

Alle case di moda delle relazioni con personaggi come me non è importato più niente. Importavano solo i numeri. I direttori commerciali di queste aziende sono impazziti per i numeri: se avevo venduto 60, mi imponevano di comprare 120. 

Com’era possibile?

Si sono inseriti i personaggi che invece di 120 compravano 400 perché avevano interessi diversi dal solo vendere, fuori da qualsiasi logica commerciale.

Chi o che cosa l’hanno convinta a ripartire?

Un mattino mi sono svegliata: avevo sotto gli occhi la soluzione ma non la vedevo. Nel mio cortile c’è una casetta che anticamente era una scuderia. Non mi apparteneva ma era circondata dalla mia proprietà. Ho contattato i proprietari, in tre minuti ci siamo messi d’accordo e ho avuto la fortuna di riscoprire un architetto che ha trovato una soluzione geniale. In passato avevo lavorato con architetti che credevano di essere Bramante e non lo erano. Con Jeannot Cerutti abbiamo invece cominciato a lavorare a stretto contatto, ci sta perfino scappando la cosa di mano, ma sono molto contenta e andiamo avanti. Ho passato gli ultimi sei mesi in contatto col mondo intero: il Giappone, l’Australia dove ho scoperto talenti nuovi, tanta roba mai vista da proporre a delle signore che purtroppo pensano ancora che indossare griffato sia un valore autentico.

Che cosa propone di nuovo? 

Con internet e Instagram ho scoperto bei personaggi, gente che fa gioielli straordinari, ceramiche. Sono andata verso il Giappone. Con questo nuovo corso faccio una moda organica, disintossicante, sommessa, esoterica, che non ha più niente a che vedere con quello che forse la gente ancora vuole. Ma posso permettermi questo lusso perché ho i mezzi per farlo. Come ha detto Jeannot: «È il nostro giocattolone». E con questo giocattolo io mi voglio divertire.

C’erano altri negozi pilota come i suoi a Torino?

Si diceva: «Quando una cosa va bene a Torino e a Genova, possiamo andare dove vogliamo». Questa era una città che aveva caratteristiche di provincia ma i numeri di città vera. Ho sfruttato molto questa cosa. Avevo le esclusive di Prada, Gucci, Chanel eccetera che avevano magari negozi monomarca in città più piccole di Torino, ma qui ero io che continuavo a mantenere questi marchi. Dopo le Olimpiadi hanno cominciato a rendersi conto che a Torino valeva la pena farsi il negozio monomarca, ma tutti i marchi importanti, eccetto Hermès e Vuitton, erano da me prima che facessero il loro monomarca. Nel mio negozio venivano da tutta l’Italia e dall’estero. 

Torniamo al nuovo progetto.

Qui potranno trovare solo cose speciali: da «Il Giornale dell’Arte» all’essenza che arriva dal Giappone fatta con i trucioli di un legno che esiste solo lì, a gioielli di artigiani inglesi, americani, giapponesi, o accessori che arrivano dall’Australia, dalla Francia, da gente sconosciuta che realizza bellissimi prodotti manualmente, senza brand.

Pensa che a Torino, a parte i suoi devoti, il pubblico capirà?

Ce l’ho quel pubblico. Non so se basterà ma ora ho la metà della metà delle spese di prima. Qui sono da sola in casa mia.

I grandi brand come reagiscono?

Loro sanno che cosa valgo io, ma non gliene importa più di tanto di quel che fa San Carlo. Tutta la moda oggi non guarda al mercato italiano: questo sia ben chiaro. Il mercato italiano lo guarda la gente come me che vive sulla clientela locale, più tante clienti a Milano, a Roma e in giro per il mondo, molte più di quello che può pensare ma nulla in rapporto ai numeri che questa gente fa con i mercati extraeuropei, né in Italia, né in Francia, né in Inghilterra. Le collezioni sono pensate per la Cina, parliamoci chiaro, per la Corea, forse neanche più per la Russia. Per la Cina essenzialmente.

Ci sono già altri negozi paragonabili al suo?

«Tiina the Store» a Amagansett a East Hampton negli Stati Uniti che mi sembra faccia una bella ricerca non brand. Un altro è «Handsome corp. The Cashmere» a Seul in Corea.

Ora chiedo a Jeannot Cerutti, l’architetto, che cosa c’è di speciale nel suo progetto?

Il progetto parte dall’esistenza di questa casetta nel bel mezzo di un più generale progetto di restauro di Palazzo Villa. Giorgina ha individuato nella casetta un luogo con uno spirito e una magia a lei consoni. L’ha definita «casa mia». Il problema era mettere insieme una superficie abbastanza ampia al primo piano con quella casetta nel cortile che è quello che rimane di una manica ottocentesca in parte demolita e che era stata costruita come sede di botteghe. Siamo nel centro storico per cui non si costruisce niente.

Davanti ha costruito una grande struttura di metallo. 

Un supporto di verde rampicante per riprodurre attraverso l’ars topiaria la casa che esisteva affiancata al fabbricato sopravvissuto.

Quindi un elemento ideale, concettuale.

Sì, in questo confortato per similitudine da una invenzione di uno dei miei maestri, Andrea Bruno, che aveva progettato le Brigittines a Bruxelles.

Lo sdoppiamento della chiesa, un’idea geniale...

C’è una grande polemica nel mondo del restauro su queste forzature interpretative, ma ci saranno sempre. La moda oggi è prodotta ai quattro angoli del mondo e, come anche nel design dell’automobile, c’è una specie di omologazione. L’omologazione è una delle caratteristiche del nostro tempo a livello planetario: si beve Coca-Cola dovunque, si mettono vestiti di Zara dovunque e tutto il vernacolo viene spazzato via senza pietà.

Dovreste sottotitolare il nuovo San Carlo «Shopping di disintossicazione».

Lo è. 

Signora Siviero, pensa che il 12 settembre questa «cosa» senza o contro i grandi marchi farà sensazione nel mondo della moda? 

Io ero molto interessante per loro quando facevo i grandi numeri, perché all’epoca era di moda indossare i marchi. Allora c’erano anche cose molto belle che vendevo molto volentieri. Non facevo questo lavoro da mestierante. Amavo la moda. Oggi quando mi fermo davanti a una vetrina di marchi non saprei come venderli. Non sono capace di vendere una cosa che non capisco, che non rispetta certi canoni, certe proporzioni, la sezione aurea di una donna. Questi sono sobillatori del buon gusto che fanno a gara per sconvolgere l’orientamento della gente. Io che sono una vecchia gallina della moda e che le ho viste già tutte, faccio fatica per quanto io stessa fossi arrivata un po’ in ritardo quando i grandi geni erano già alla fine della loro carriera.

Quali grandi geni?

Albini l’ho raccolto in pieno. Ho raccolto in pieno Yves Saint Laurent e l’ho sfruttato. Lo stesso con Armani. Con la poca simpatia che ho per quel personaggio, però devo dire che Armani aveva una magia nelle proporzioni: vestivo la diciottenne e l’ottantenne con lo stesso capo e riuscivo a farlo stare bene dalla taglia 38 alla taglia 48.

Forse oggi ci sono persone meno adatte da vestire?

Non c’è più chi le veste. Quello che sapevano fare i nostri negozi. Io sono una che non inventa niente, ma ho un archivio mentale pazzesco. Le proporzioni le conosco, so che non tutti possono permettersi tutto. Una donna ha sempre delle peculiarità da esaltare, quelle da confondere e quelle da nascondere. La moda che c’è oggi non dà scampo. Devi essere una strafiga imperiale giovane, ricca. Troppe cose assieme. Per una signora che non deve lanciare messaggi, proclami e che vuole vestirsi bene ma in un modo naturale non c’è niente. Con i giapponesi si riesce ancora a fare delle cose, però anche loro hanno dei limiti, il loro bianco-blu-nero. I grandi maestri una volta ti aiutavano a definire certe donne che avevi davanti. Una donna la vestivi bene con un certo stilista, l’altra con un altro. Adesso non ho più punti di riferimento. Non ce li ho io, figuratevi le clienti. A volte mi chiedo: «Ma non ha una sorella, una mamma, qualcuno che le sappia dire qualcosa per non lasciarla scivolare nel baratro del ridicolo?». Oggi il salto da persona normale a persona ridicola è un attimo.

Tra moda e arte c’è sempre più collegamento. La moda cerca il riconoscimento dell’arte, cerca di essere esposta nei grandi musei come forma di consacrazione e nobilitazione. Lei che ha vissuto intimamente il rapporto tra arte e moda sia come collezionista, sia per i suoi rapporti con importanti operatori del mondo artistico, vede possibile una correlazione tra moda e arte? Oppure Le sembra tutto un po’ forzato?

Contaminazioni sicuramente tante, ma la moda non arriva lontano come l’arte, raccoglie sempre l’ondata molto in ritardo, non ha niente a che vedere con l’arte. La moda non è arte perché la moda, al contrario dell’arte, nasce bella e diventa immediatamente brutta. Tempo sei mesi la moda è fuori moda. La moda è una creatura che non invecchia mai perché muore giovane. L’arte talvolta nasce brutta, ma diventa bella con il tempo. Non si possono fare commistioni. Si può dire che per fare una bella moda devi essere un artista ma non che hai fatto un’opera d’arte: hai fatto un’opera molto effimera che non tiene il tempo.

Chi sono i veri grandi artisti della moda nel XX secolo?

Chanel sicuramente incontrastata. Chanel è Picasso. Balenciaga è Burri, Schiaparelli è Dalì.

Erano amici.

Schiaparelli era amica di tutti gli artisti della sua epoca perché era più un’artista che una stilista. Alla fine ci ricordiamo qualcosa di Schiaparelli? Le maniche a pagoda, la giacca con il sole dietro, ma non ha lanciato uno stile come Chanel, anche se ha rappresentato una rottura molto grande per poi approdare a Balenciaga. Balenciaga ha avuto la forza di cambiare la postura di una donna. Vedi i manichini, vedi i disegni di Balenciaga che avevano quella schiena bombata, il bacino... Ma anche Balenciaga è stato un fenomeno abbastanza veloce, una meteora. Dior sicuramente è stato un grande ma anche lui è morto a 52 anni o giù di lì. Sicuramente Saint Laurent, che è stato il Warhol della moda. Poi sono venuti gli stilisti tra i quali diamo sicuramente la medaglia ad Armani, tenendo conto che Armani ha preso a piene mani da Walter Albini. In Armani trovavo sempre cose che avevo già visto. Una di cui non si parla se non tra addetti ai lavori è Sonia Rykiel, che ha avuto delle intuizioni e che, secondo me, ha continuato il lavoro di Chanel. Io forse non mi sono mai sentita così femminile come quando vestivo Sonia Rykiel, che lasciava a te la tua femminilità mentre Armani ha fatto grandi cose ma ti travestiva un po’, ti dava quest’aria un po’ androgina, queste spallone, questa andatura... Alla fine ti omologava, ti irregimentava, aveva creato una donna un po’ cazzuta. Sonia Rykiel ti tirava fuori la femminilità più estrema, ma lasciava intatta la tua personalità.
 

Quando e come ha cominciato?

In questo lavoro sono arrivata digiuna di tutto. Avevo lavorato da un architetto, Piero Verbinschak. 
Sono arrivata alla moda che non mi piaceva neppure, mi sembrava meno interessante rispetto a quello che facevo prima. Poi mi sono inventata delle cose, mi sono comprata un negozio, ho fatto dei salti mortali ed è partito il mio lavoro. Non ho dovuto fare grandi fatiche. Ho avuto l’intuizione di andare a comprare il prêt-à-porter a Parigi quando ancora in Italia la gente andava dalla sartina. Ho comprato la rivista «Elle». Detesto le riviste di moda, non le ho mai comprate ma all’epoca ho pensato: «Se faccio questo lavoro devo capire cosa faccio». Sono andata da questi produttori che non mi volevano dare niente perché avevo 21 anni e non avevo una lira e nessun credito. Ma sapevo manipolare le persone, convincerle ad avere fiducia in me. Era il mestiere dei parrucchieri, delle mantenute, di chi non aveva né arte né parte e non sapeva che cosa fare. Non ha premiato solo quelli con talento; conosco gente di un’ignoranza abissale e senza talento che ha fatto delle fortune con la moda. Aziende che sapevano mettere insieme una manica con un colletto, ma gusto zero, eppure hanno fatto grandissime cose perché era un momento in cui c’era talmente voglia di tutto che bastava fare qualsiasi cosa. Il 15 settembre del 2000 ho veduto in un giorno per 750 milioni di lire. Ha un senso? Si strappavano la roba dalle mani, venivano i giapponesi con i trolley. Io dicevo loro che di borse di Chanel gliene potevo dare solo quattro di quattro modelli diversi e uno di questi, a Natale, è andato a chiamare un vigile perché, dopo che aveva già comprato quattro borse, voleva anche la borsa in vetrina che per contratto dovevo tenere esposta. Tenevamo le borse più richieste chiuse negli armadi. Sono successe delle cose nel mio mondo non certo dovute alla mia bravura, ma al fatto che all’epoca andava di moda quella roba lì e io avevo tutti i marchi che la gente voleva. I giapponesi venivano a comprare da me Issey Miyake perché da me era tax free. C’è stato un momento magico nel mio settore e io l’ho cavalcato bene e di lì sono venuti fuori questi palazzi. Ma la moda ha creato dei veri mostri.
 

Plastico del nuovo negozio

Schizzo del nuovo negozio.

Jeannot Cerutti

Carlo Accorsi, 01 settembre 2019 | © Riproduzione riservata

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