In occasione della 18ma edizione di Photofestival, la Galleria Frediano Farsetti ospita fino all’1 ottobre la mostra di Piero Gemelli «Storie Immaginate», a cura di Maria Vittoria Baravelli.
Immagini d’archivio e scatti recenti raccontano il mondo e il lavoro, fin dai primissimi anni Ottanta, di un grande professionista della fotografia di moda di livello internazionale.
Le fotografie di Gemelli (Roma, 1952) sono un viaggio nella bellezza, un omaggio al corpo femminile, ma anche una riflessione sul doppio, sull’altro e sul trascorrere del tempo. Uno stile rigoroso il suo, elegante e impeccabile, che a tratti rimanda al linguaggio surrealista o a suggestioni pop.
Apre la mostra un ritratto dell’artista, una foto in cui il volto e la sua identità sono nascoste sotto una giacca appoggiata sulla testa. Un dettaglio fuori focus rispetto alla mostra, ma anche un modo di certificare la propria natura effimera e anonima di fronte a ciò che invece resterà delle sue opere: la bellezza, le contraddizioni, i quesiti, l’arte.
Nel percorso espositivo ubicazione e illuminazione restituiscono regalità a composizioni fotografiche che oltre ad affascinare per piacevolezza visiva ed estetica, ci avviluppano in un gioco di significati. Il maschile, il femminile, le memorie sfocate e le composizioni di oggetti; tutto nella filosofia dell’immagine di Piero Gemelli è reso come se una patina di suggestione si depositasse sull’immagine fotografata.
Che sia una statua, un busto di donna, un letto disfatto, o un vaso di fiori, l’artista (nascosto sotto la giacca o dietro l’obiettivo) consegna a un eterno presente fotogrammi che sono racconti spezzati. Le sue sono istantanee fuori dal tempo e senza tempo a cui sarà l’occhio di chi guarda a dare un significato.
Gemelli eternizza corpi e oggetti che diventano altro. Pur nella nitidezza della loro realtà oggettiva, vengono percepiti come frammenti di uno storytelling.
I racconti immaginati dal fotografo prendono vita in una tridimensionalità incorporea che permette all’osservatore di indagare la propria personalità, come se quelle forme chiare si traducessero, a livello di significato, in macchie di Rorschach. L’arte, del resto, è tale quando ci fa da specchio, restituendoci il riflesso di parti invisibili di noi.
Lo stimolo del pensiero laterale e dell’autoanalisi è quindi l’insospettabile fil rouge che lega i ritratti di statue antiche a quelli di donne bellissime, passando per i numerosi e illuminanti still life presenti nella mostra.
La fotografia si fa strumento narrativo ma, più che documentare una realtà oggettiva, illumina qui le possibilità che abitano la distanza tra verità e finzione, tra immediatezza e immaginazione, tra accaduto e «what if».