Margaret Carrigan
Leggi i suoi articoliPope.L non si può definire uno dei più influenti artisti performativi che lavorano oggi negli Stati Uniti, ma è noto perché distribuisce biglietti da visita in cui dichiara di essere «l’artista nero più amichevole d’America». Conosciuto per le sue opere provocatorie e spesso assurde che affrontano il tema della razza, dei sistemi economici e del linguaggio, l’artista ed educatore di Chicago (nato a Newark nel 1955) lavora utilizzando varie discipline, dalle installazioni ai film, dalla pittura alla scrittura. Il suo lavoro è tanto caratteristico quanto ampio.
Il tratto distintivo della pratica di Pope.L è l’uso dell’iterazione e della performance, entrambi evidenti nella serie «Crawl», che l’ha visto muoversi con le mani e sulle ginocchia in ampie zone di New York City in diverse occasioni tra il 1978 e il 2001. Queste performance avevano lo scopo di contrastare la «verticalità», un concetto che l’artista utilizza per sottolineare la ricchezza e la salute necessarie per essere socialmente mobili. L’estenuante fisicità dei «Crawl» era solo un aspetto; altrettanto importante per il lavoro era la reazione degli spettatori, che si poteva riassumere in un compulsivo tentativo di evitarlo.
«Eating the Wall Street Journal» è forse l’opera più conosciuta di Pope.L., che è stata eseguita in molti modi diversi dal 1991, quando per la prima volta si è seduto su una bandiera americana e ha iniziato a mangiare pagine del «Wall Street Journal» innaffiandole con latte e ketchup. Si trattava di un commento sintetico sulla glorificazione del capitale e del consumo negli Stati Uniti, reso ancora più toccante quando l’artista lo ha riproposto al MoMA nel 2000, seduto su un water e ricoprendosi di farina per colorare temporaneamente la sua pelle di bianco.
Una nuova versione di quest’opera è al centro della mostra «Pope.L: Power», alla South London Gallery dal 21 novembre all’11 febbraio 2024: Pope.L ha eliminato l’elemento della performance dal vivo e, al suo posto, tre torri di legno alte 4 metri, sormontate da servizi igienici e in varie fasi di collasso, dominano lo spazio principale della galleria. Intorno a esse sono impilate copie del «Wall Street Journal» e sparse brocche di latte; una sostanza simile alla farina si accumulerà sull’installazione per tutta la durata della mostra. In questa che è la prima personale istituzionale dell’artista nel Regno Unito sono esposti anche precedenti opere cinematografiche come «Small Cup» (2008) e i disegni di «Skin Set» del 2013.
A partire dai suoi «Crawl», molte sue performance generano shock e la reazione del pubblico è spesso fondamentale per il lavoro. Come i «Crawl», anche «Eating the Wall Street Journal» ha avuto numerose versioni dalla sua prima rappresentazione. Qual è stata la reazione iniziale del pubblico a questa performance?
All’inizio alcuni erano perplessi, alcuni erano arrabbiati, alcuni, soprattutto quando mi esibivo in strada, mi ignoravano o mi evitavano.
Dal momento che l’aspetto della performance dal vivo non farà parte dell’installazione alla South London Gallery, ritiene che l’opera cambierà di nuovo significato, diventando un’esperienza più scultorea e statica?
Il significato della nuova versione contiene un palinsesto delle versioni precedenti e allo stesso tempo traccia un nuovo territorio di significato, ma la durata gioca ancora un ruolo fondamentale.
Perché molte sue opere esistono in diverse versioni?
Le diverse versioni sono un modo per creare incompletezza e continuità allo stesso tempo. L’idea di un’opera d’arte finita è una finzione. La pretesa di «essere finito» è un pensiero velleitario e un po’ ansioso.
Il film «Small Cup», nel quale capre e galline calpestano un modello architettonico in rovina e disseminato di semi che assomiglia al Campidoglio degli Stati Uniti, è un’opera interessante in relazione a «Eating the Wall Street Journal». Entrambi includono la distruzione e la digestione di istituzioni statunitensi che fungono da simboli del potere. Che cosa del processo di ingestione di questi oggetti simbolici è cruciale per l’atto della loro distruzione?
Entrambe le opere mettono in scena il binomio alto/basso attraverso una sorta di trasformazione. In entrambi i casi, anche la solennità svolge un ruolo importante. L’uso degli animali e della solennità rende i pezzi più impersonali, come se fosse la cosa più naturale del mondo che cose come i governi cadano a pezzi.
Molte sue opere, non ultime le due citate sopra, si basano su simboli o concetti statunitensi. Pensa che queste opere avranno una risonanza diversa in un contesto britannico?
Probabilmente sì. Ma credo che il mondo di riferimenti in cui lavoro non sia così specificamente americano: in effetti, alcune delle poetiche delle opere derivano da fonti romantiche europee e dal loro interesse per la morte e la decadenza. E non bisogna dimenticare che l’America era britannica prima di essere America.
Alla South London Gallery c’è un motivo ricorrente ed è l’accumulo, non solo la sostanza simile alla farina che ricoprirà l’installazione «Eating the Wall Street Journal», ma anche i fiori di calendula che si accumuleranno nell’edificio della Fire Station della galleria. Qual è il significato di questo accumulo nel suo complesso? E perché le calendule?
Le calendule fanno riferimento alla medicina, ma anche al lutto, alla celebrazione e alla morte. L’accumulo parla da sé.
Le sue opere su mensole sono spesso caratterizzate da una combinazione di oggetti che hanno attinenza con il luogo in cui sono esposte. Dove si procura gli oggetti inseriti in queste installazioni e quali connotazioni hanno per lei?
Ho iniziato a realizzare opere su mensole negli anni Novanta. Il contenuto della maggior parte di queste opere era costituito da materiali organici, come cipolle o patate, o da prodotti più elaborati, come alcolici a basso costo e oggetti per bambini. Le bottiglie che uso in questa mostra sono prodotti britannici, sia Buckfast (vino liquoroso, Ndr) sia Cactus Jack (sorta di grappa aromatizzata, Ndr). Entrambi questi prodotti (Buckfast il più vecchio, Cactus Jack il recente) sono rivolti ai giovani (o al bambino che vive nell’adulto) come mezzo economico per alterare la propria coscienza.
Facciamo un passo indietro e guardiamo alla sua pratica nel suo complesso, piuttosto che a opere specifiche. Che cosa l’ha attirata inizialmente verso la performance?
Mi ha attirato perché richiedeva la capacità di destreggiarsi tra più mestieri e tecniche contemporaneamente. Inoltre, la testimonianza del lavoro era più diretta e partecipativa, ma temporanea.
Lei lavora anche nel cinema, nella scrittura, nella pittura, nella scultura e in altri media. In che modo queste diverse forme di espressione si relazionano tra loro? C’è un tipo specifico di media a cui torna spesso?
Ognuno parla a modo suo di un uso e di un contesto particolari, ma alcuni mezzi chiave a cui torno sempre sono la solennità, i materiali organici (compreso il corpo umano), il tempo e il linguaggio.
Nel suo libro d’artista «Hole Theory» (2002), lei offre una panoramica della sua ampia pratica, sottolineando che la mancanza di qualcosa è una preoccupazione costante. Scrive: «Non immagino il buco, io sono il buco». Questo buco ha il potere di generare altri buchi, materiali o immateriali, pieni o vuoti: «un voodoo del nulla», come lei lo definisce. Questo sembra piuttosto nichilista. Qual è il ruolo del nichilismo nel suo lavoro? E qual è il suo rapporto con l’idea dell’assurdo che permea anche molte delle sue performance?
Il significato è importante. Il fatto che io apprezzi il nulla, l’incompletezza o l’assenza non significa che non apprezzi il significato. È solo che a volte il significato, l’uso che ne facciamo, può essere usato per oscurare il significato o svalutarlo. E poi c’è l’ovvio: come strumento, il significato ha i suoi limiti.
Che cosa può offrire l’assurdità come strumento di resistenza e liberazione? Anche le figure politiche recenti (sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito) non sono forse spesso bollate come assurde, e in che modo l’assurdità potrebbe ora essere una sfaccettatura del fascismo piuttosto che della liberazione?
L’ultima parola dell’Ulisse di James Joyce è «sì». L’ultima parola di Aspettando Godot di Samuel Beckett è «Non si muovono».
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