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Redazione
Leggi i suoi articoliTra l’inizio del XX secolo e il 1960, prima dunque dello «tsunami» di Arte Povera e Arte Concettuale, la scena pittorica torinese era ricca di fermenti, visioni e contrasti. Poi è la pittura «è stata sloggiata momentaneamente, perdendo centralità e prominenza». Riflettere sulla «varietà, originalità e legittimità della pittura a Torino», ma soprattutto «celebrare un gruppo cospicuo di pittori, taluni oggi fuori dai radar e nella faccia della luna non illuminata», ricorda Gian Enzo Sperone, è l’obiettivo di «Pittori a Torino 1900-1960. Astrazioni, Figure e Miraggi domestici», la mostra allestita dall’8 al 30 maggio nello Spazio Ersel di Torino a cura di Denis Isaia e dello stesso Sperone. A raccontare trasversalmente l’identità artistica delle Torino di quegli anni sono 120 opere di 43 autori: in mostra, tra gli altri, Giacomo Balla, Felice Casorati, Carol Rama, Enrico Colombotto Rosso, Mario Merz, Aldo Mondino, Luigi Spazzapan, Piero Ruggeri, Jessie Boswell, Carlo Levi, Italo Cremona e Giulio Paolini. Dal 5 giugno al 4 luglio la mostra avrà una seconda tappa nello Spazio Ersel di Milano.
Nel testo che segue, Gian Enzo Sperone delinea il quadro di quella felice temperie sotto la Mole.
A Torino, sin dai tempi di Riccardo Gualino, i responsabili del sistema bancario sono sempre stati attenti a ciò che succedeva nel mondo delle arti visive.
Qui, nei locali espositivi di Ersel, si sono negli anni succedute circa cento mostre; come del resto lo slancio potente di Intesa San Paolo ha da sempre coagulato intono a sé collezioni e mostre di altissimo livello.
La grande regina è sempre stata la pittura (non togliendo niente a scultura, architettura e musica, senza le quali la città non sarebbe diventata quello che è), alimento primo del miraggio millenario in cui l’uomo ha sempre sguazzato, rappresentando sé stesso, il suo ambiente e i suoi compagni animali. Dio ha creato la luce, l’uomo l’ha addomesticata facendola circolare; serviva poi anche inventare la parola, i pennelli e scalpelli e i pigmenti di colore necessari; ed è stato fatto ancora dall’uomo.
Dalle epoche del Paleolitico superiore, con le immagini di Lascaux e Altamira e le molte centinaia di dipinti e incisioni risalenti a diciassettemila anni fa, la tecnica per generare i colori dal nero -carbone da legna combuste, all’ocra e al giallo derivati dalle terre argillose macinate, sino all’encausto dei greci romani, con i colori diluiti nella cera fusa e fissati con il fuoco, ci sono stati altri millenni di sperimentazioni, ma l’uomo non ha mai tremato e ha sempre cercato di riprodurre la propria immagine, il proprio volto, talvolta innamorandosene come nel mito di Narciso, a volte solo come pretesto per palesare afflizioni e tormenti e rappresentare l’invisibile e l’indicibile. («L’uomo scala le montagne perché sono lì e fa l’arte perché non è lì», Carl Andre).
La pittura del Novecento è stato il coronamento e la messa in crisi di tutte le forze misteriose, che alimentando e ingarbugliando i nodi dell’estetica hanno infranto a fin di bene canoni e protocolli, nella speranza di evolvere, di emanciparsi.
La pittura non ha avuto e non ha padroni (o meglio, padroni stabili) e ha sempre mal digerito le regole e i paradigmi imposti dai padri, combattendo furiosamente.
Non esistono cartelli stradali dello stile che portino a lidi sicuri e stabili. Del resto, le regole, in arte, durano il respiro di un giorno e poi di nuovo tutti contro tutti.
Le Accademie sono sempre state il rifugio e la dannazione degli artisti. La pittura ama viaggiare «a fari spenti nella notte» e talvolta va a sbattere, ma continua a vivere perché si nutre di emozioni e calcoli improbabili, anche se «cosa mentale è».
Negli anni Cinquanta del Novecento, la pittura si è illusa di poter mettere le briglie all’ispirazione e alla genesi dell’opera che partiva dal cuore, senza regole, dandosi invece un progetto preliminare e poi una progressiva codificazione geometrica, quasi matematica (era il momento del M.A.C. -Movimento Arte Concreta).
Ma intanto cosa succedeva a Torino prima e dopo lo tsunami dell’Arte Povera e Arte Concettuale, i due ultimi movimenti moderni prima del dilagare del Post-Moderno?
Il prima è presto detto: tanti pittori di talento formatisi all’Accademia di Belle Arti si sono messi d’impegno per combatterla e cercare una libertà espressiva che s’è poi articolata in vari filoni, alcuni più concentrati su aspetti linguistici di rottura e molti sull’aspetto poetico più indulgente sul passato accademico.
Il dopo è stato un gran silenzio, come se tantissimi anni di ricerche non avessero lasciato che poche tracce sotterranee, e oggi si fa persino fatica ad elencare i nomi degli artisti senza suscitare moti di sorpresa e sufficienza.
In realtà, si sono sempre autoalimentati focolai di ardore pittorico, solo che la scossa dell’Arte Povera ha anche provocato un gran rumore, e questo non ha fatto bene agli spiriti portati più alla riflessione che non alla sovversione. Era già successo all’epoca dello Sturm und Drang.
Come l’eclisse del sole o della luna durano poco e sono eventi ciclici, così sarà per il sott’inteso disinteresse verso la pittura, che si è ormai sedimentato nelle menti come un fatto negativo, come se fosse uno dei problemi del mondo.
Con buona pace di Duchamp e del supremo snobismo della recentissima dittatura della «Repubblica delle banane», c’è sempre una gran voglia (ancorché inconfessata) di vedere i pennelli posarsi su di una tela vuota e scorrere creando dal niente un mondo che è solo nella mente dei pittori, ma presto cesserà di essere tale, per irrompere nella realtà, rimodellarla e restarci, e per chi ama questo «vizio», anche l’odore della trementina ha la sua parte. Diceva anni fa il figlio maggiore di Balthus che di quadri ne ha fatti pochissimi, ma intanto ha passato un terzo della sua vita davanti ad un cavalletto con una tela vuota: il suo studio silenzioso gli ricaricava lo spirito invece che deprimerlo. Amo pensare che anche l’odore della trementina avesse la sua parte.
Nei primi anni del Novecento a Torino, «orfana» di Giacomo Balla, cala un sipario sino almeno ai primi anni Venti. Giacomo Balla, dopo essersi formato all’Accademia Albertina con Giacomo Grosso e aver appreso dalle lezioni di Cesare Lombroso cose misteriosissime (e pericolose a causa della ricerca somatica del male negli uomini), ha pensato bene di girare i tacchi e trasferirsi a Roma ventiquattrenne, dove avrebbe fatto scuola ai migliori futuristi: Boccioni, Severini, Sironi.
E intanto, che cosa si stava delineando a Torino? Sorgeva splendente l’astro di Felice Casorati, spirito silenzioso ma potente e sin da subito, come tutti i predestinati, in grado di fare grandi cose anche esercitando una forte influenza (basterebbe il «Gruppo dei Sei» subito appoggiati da Riccardo Gualino). Serve citare la prima mostra collettiva di Arte Astratta in Italia con il gruppo del «Milione e i Comaschi» nel suo studio nel 1935.
Ma già nel 1923, Fillia (Luigi Colombo, morto poi giovanissimo nel 1936) andava dicendo e ammonendo (brutto presagio): «L’uomo ha bisogno di staccarsi dalla terra, sognare e dimenticare la realtà quotidiana». Si fondava proprio nello studio di Fillia, in via Sacchi 54, il gruppo Futurista, prima con Fillia e Ugo Pozzo, in seguito con Pippo Oriani, Nicolaj Diulgheroff e Mino Rosso e subito dopo Enrico Allimandi; una menzione a parte, merita un artista non torinese, Farfa (Vittorio Osvaldo Tommasini), ma qui saltuariamente attivo (è stata fatta sessant’anni fa alla galleria Narciso di Torino la sua mostra più completa di «cartopitture»), di singolare indipendenza linguistica nell’ambito Futurista.
Subito prima nel 1922 c’era stata la grande mostra futurista al Winter Club nella Galleria Subalpina, voluta fortemente da Marinetti. Per l’occasione, si scomodò anche Gramsci, non senza un intervento (pare) a distanza di Lev Trotskij, in un improbabile e impossibile «abbraccio» con il poeta futurista, non comunista, anti-tutto, ma innegabilmente rivoluzionario. Sembra che Marinetti amasse «pattugliare» la mostra, ma un incontro ravvicinato con Gramsci, che pure invitava gli operai tutti a visitare questa mostra rivoluzionaria, non si sa se sia mai avvenuto e soprattutto come sarebbe finita. Due poli opposti ma simili producono scintille.
Intanto si profilava l’ascesa del pittore più atipico dell’epoca che molta fortuna ha avuto negli anni Cinquanta e Sessanta, sto parlando di Luigi Spazzapan, che avrebbe letteralmente incantato l’intera città; anche Ettore Sottsass di passaggio a Torino, essendosi qui laureato al Politecnico e dopo aver combattuto in Montenegro ed essere rimasto internato per sei anni in un campo di prigionia, lo frequentava nel dopoguerra spesso e con grande interesse. Nel suo bellissimo libro autobiografico Scritto di notte ha detto chiaramente che da queste visite traeva grande sollievo e ispirazione.
Un caso a sé è Umberto Mastroianni, vincitore del Premio imperiale di Tokyo per la scultura ma che negli anni Trenta e Quaranta si occupava di pittura, con grande determinazione e originalità.
Nel 1948 attecchisce a Torino il neonato «Movimento d’Arte Concreta» (M.A.C.), con Adriano Parisot, Albino Galvano, Carol Rama, Filippo Scroppo ed Ettore Sottsass (che però già si era trasferito a Milano): a distanza di anni è emersa con forza la trasgressiva e talentuosa Carol Rama, (unica donna insieme a Paola Levi Montalcini), non fatta per pazientare ma per combattere.
Negli anni Cinquanta e Sessanta nasce un prolungamento Surrealista, con Soffitta Macabra e Surfanta (Lorenzo Alessandri, Abacuc, Enrico Colombotto Rosso). Nel frattempo, prendono corpo i primi slanci «Informali» di Piero Ruggeri, unitamente a Sergio Saroni e Arrigo Lora Totino.
La presenza poi di Piero Bolla, un «irregolare» che si faceva notare per un nomadismo pittorico silenzioso e sottilmente provocatorio, aggiunge quel pizzico di pepe che fa spesso la differenza dove l’aritmetica lessicale spariglia sempre i numeri.
Tutto questo per dire che la pittura a Torino è sempre stata di casa, sino all’arrivo impetuoso dell’Arte Povera e Arte Concettuale a metà degli anni Sessanta; poi è stata sloggiata momentaneamente, perdendo centralità e prominenza.
Questa mostra vuole semplicemente riordinare le idee (nel caso ci si fosse distratti un po’ troppo tra i fragori delle avanguardie più aggressive) e riflettere sulla varietà, originalità e legittimità della pittura a Torino. Ma vuole soprattutto celebrare un gruppo cospicuo di pittori, taluni oggi fuori dai radar e nella faccia della luna non illuminata: non si sa mai bene chi decreta questi cambiamenti di lunghezza d’onda e perché, però sono il sale dell’arte e rendono la ricerca, con tutte le sue rotture di regole (e di scatole), una continua gustosa fonte di rivelazioni tanto inattese quanto vitali, a parte il tritacarne delle aste, che non fa alcuna distinzione tra il vendibile e il banale.
L’importante è esserne coscienti.

Giacomo Balla, «I quattro futuristi», 1915

Giacomo Balla, «Linee Forza di paesaggio estivo», 1920

Jessie Boswell, «Violinista», 1929

Felice Casorati, «Nudo con il cappotto», 1926/27

Carlo Levi, «Le arance, la neve e le officine Diatto», 1926