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Una veduta del Bigo (1992) di Renzo Piano nel Porto Antico di Genova

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Una veduta del Bigo (1992) di Renzo Piano nel Porto Antico di Genova

Renzo Piano: «L’architettura è fatta di arte, etica e poesia»

L’infanzia in una famiglia di costruttori, il televisore di Franco Albini, i «days squat» del ’68 a Londra, la «disobbedienza» del Centre Pompidou. L’architetto genovese festeggia il 40mo compleanno del suo studio e ripercorre 87 anni di sogni diventati progetti

Christian Simenc

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Lei è nato a Genova nel 1937. La sua famiglia ha avuto un ruolo particolare nella sua scelta di diventare un architetto?
Sono quello che si dice «un figlio della guerra». Il mio amico, il cantautore Fabrizio De André, diceva «un figlio del temporale». Mio padre aveva una piccola impresa di costruzioni. Tutti in famiglia erano costruttori: mio nonno, mio padre, i miei zii, mio fratello. Quando si proviene da una tale stirpe, è come nascere in una famiglia di artisti del circo: il tuo destino è segnato. Ma qualunque sia il tuo percorso, ti rendi conto in seguito che le tue origini sono profondamente radicate in te. Lo dico senza nostalgia, non sono nostalgico, non ha senso essere nostalgici. Pierre Boulez mi diceva: «La nostalgia è una malattia! Si può guardare al passato senza alcuna nostalgia. Ciò che ti mantiene in vita non è quello che hai fatto, ma quello che devi ancora fare».

Quindi è diventato presto un «costruttore»?
Dopo la guerra, quando avevo 7 o 8 anni, mio padre mi portava nei cantieri. Ho passato interi pomeriggi lì, seduto su un mucchio di sabbia, a guardare gli operai al lavoro. È una cosa che ti rimane impressa. Quando tornavo il giorno dopo, il mucchio di sabbia era diventato un muro o un palo. Era stata usata per «costruire». È un miracolo! Poi, crescendo, si impara che l’arte di costruire è una delle prime attività dell’uomo, insieme alla caccia e alla pesca, è una delle prime arti dell’umanità: creare un riparo per proteggere il proprio corpo.

Ma lei voleva fare l’architetto anziché l’impresario edile...
Quando avevo circa 18 o 19 anni dissi a mio padre che volevo fare l’architetto. Mi guardò con aria interrogativa e mi chiese: «Ma perché?» Basta, fine della discussione. Capii che stava cercando di dirmi: «Puoi essere un piccolo dio dell’edilizia, un uomo che progetta, calcola e costruisce. E vuoi accontentarti di essere quello che progetta?». Non ho mai dimenticato quel momento della mia vita. Ecco perché la mia agenzia si chiama Renzo Piano Building Workshop.

Qual è stato il suo primo ricordo dell’architettura?
Pur essendo genovese puro, mio padre era più un uomo di terra che di mare. Ciononostante mi portava spesso al porto. Era un’epoca in cui non esistevano i container. Tutto era sospeso, era magnifico. Un porto è come una città. In francese, non chiamiamo le barche «bâtiments», «edifici»? Ma qui una barca parte, un’altra arriva, le «bâtiments» sono sempre in movimento. La «città» cambia profilo dalla mattina alla sera. Inoltre, nulla tocca la terraferma: le barche galleggiano. Si dividono addirittura in due quando si riflettono sulla superficie dell’acqua. C’è qualcosa di magico in tutto questo. Il poeta Iosif Brodskij, che ha vissuto a Venezia, ha scritto: «L’acqua rende le cose belle». In ogni caso, tutte queste immagini costituivano una miscela in cui mi perdevo, ed è anche bello perdersi. Questo è stato per me l’inizio. Negli occhi di un bambino questo è impresso in modo misterioso ma indelebile. Non ricordo quale scienziato ha detto che un bambino a 8 anni ha già catturato l’essenza di ciò che costituirà la sua immaginazione.

Scelse di studiare architettura all’Università di Firenze, che poi lasciò per andare a Milano. Che cosa l’ha spinta a partire?
All’epoca vivevo nella periferia di Genova, ma amavo la libertà. Protestare, cioè entrare in conflitto con i propri genitori, è quello che io chiamo il metodo «economico». L’altro modo per emanciparsi, il più semplice, è lasciare la famiglia e la casa. Io sono andato a Firenze perché a Genova non c’era una scuola di architettura. Al primo anno non ero molto bravo, non ero molto intelligente, ero ancora più somaro. Trovavo la città un po’ troppo perfetta e questo mi paralizzava. Ho deciso di fare il secondo anno a Milano, che era l’esatto opposto di Firenze. È molto meno bella, certo, ma secondo me è, ancora oggi, la città più interessante d’Italia, dove si respira un’aria di libertà.

Perché ha voluto lavorare con un maestro del Razionalismo italiano come l’architetto Franco Albini?
Lavorava come un artigiano e lo trovavo molto interessante. Ricordo il suo studio in via XX Settembre a Milano. Quando arrivai, accadde una cosa incredibile: mi chiese di andare a comprare un televisore Brionvega, di smontarlo completamente e di rimontarlo in modo diverso. Passai il pomeriggio a smontarlo pezzo per pezzo, ce n’erano un centinaio, avendo cura di sistemarli in un ordine meraviglioso. Quando Franco Albini tornò la sera, rimase stupito da come l’avevo riordinato. Mi disse: «Ora puoi rimetterlo a posto, ma non nello stesso modo». L’ho smontato per capirlo e l’ho rimontato per renderlo più semplice e chiaro. È un esercizio che non ho dimenticato.

Che cosa la attraeva del Politecnico di Milano?
Mi piaceva il mix di architettura e arte del costruire. In Italia, ben prima del maggio 1968 in Francia, i primi anni Sessanta sono stati un periodo di occupazione (pacifica) delle Università. Di giorno lavoravo per Franco Albini, dove ho imparato il mestiere, e di notte ero uno degli occupanti. Imparavamo nel caos, discutendo dell’arte di costruire e della poetica della costruzione. Da una parte la techne, dall’altra la poiesis. A dire il vero, è così in molti campi: letteratura, musica, cinema... Non conosco un solo grande artista o scienziato che non pensi ai mezzi di cui ha bisogno per raggiungere i suoi scopi. Con il mio amico pianista Maurizio Pollini, morto nel marzo 2024, discutevamo della costruzione del suo pianoforte Steinway, della tensione delle corde e così via, collegando sempre in modo incredibile l’idea con i mezzi.

Che atmosfera si respirava al Politecnico?
A quei tempi, se si diventava architetti, lo si faceva per cambiare il mondo. Il che sembra del tutto irragionevole... Ma in fondo non era così. Ho imparato che, per cambiare il mondo, bisognava parlare con la gente per strada, osservare il percorso del sole o il ritmo delle stagioni, e non crogiolarsi nelle forme. A poco a poco si avverte un desiderio di luce e di trasparenza che non ha nulla a che fare con lo «stile»: lo stile è una gabbia dorata. Oltre alla techne e alla poiesis, l’architettura unisce l’ethos, cioè il nostro modo di essere, i valori in cui crediamo. È questo formidabile insieme che rende la professione di architetto tutt’altro che frivola. Ripenso al «ma perché?» di mio padre. Al contrario, fare l’architetto è una professione di grande forza e nobiltà. È anche estremamente difficile. Gli errori che si possono commettere sono molto pericolosi, perché rimangono costruiti.

Si laureò nel 1964, ma non iniziò subito a costruire… 
Non ho fatto architettura per quattro o cinque anni. Ho progettato strutture sperimentali leggere. Costruivo «rifugi», nobili e belli. Ho sperimentato in particolare con mio fratello Ermanno, di dieci anni più grande, a cui devo molto. Insieme abbiamo costruito il padiglione dell’industria italiana per l’Esposizione Universale del 1970 a Osaka, in Giappone. Ho frequentato l’Università della Pennsylvania, a Filadelfia, negli Stati Uniti, dove insegnava l’ingegnere francese Robert Le Ricolais. Nel suo laboratorio faceva esperimenti sulle strutture spaziali sotto tensione. Io non lavoravo lì come teorico, ma tiravo i cavi fino al loro punto di rottura. Era un genio. Un giorno mi invitò a prendere un tè e mi presentò all’architetto Louis Kahn con queste parole: «Prendi questo giovanotto, non è stupido!». Kahn mi assunse per lavorare alla fabbrica Olivetti Underwood di Harrisburg, in Pennsylvania. Ero responsabile del tetto e dei lucernari. Dopo una settimana, Louis Kahn venne a «controllare» il mio lavoro. Mi tese la mano e disse: «Mi chiamo Lou», che negli Stati Uniti è come dire: «Possiamo darci del tu». Sono rimasto lì per qualche mese.

Renzo Piano e Richard Rogers

Alla fine degli anni Sessanta tornò in Europa e si stabilì a Londra, dove incontrò l’architetto Richard Rogers, con il quale ha fondato lo studio Piano & Rogers. 
Richard era come un fratello per me. Era nato in Italia, quindi ci parlavamo in italiano e questo mi ha aiutato moltissimo. Mi colpirono la sua etica e la sua voglia di ribellarsi, di nuovo la protesta! Eravamo due pazzi che si comportavano male e che avevano trovato uno spirito affine. Traevamo la nostra forza da questa protesta e dal piacere di costruire. E, segretamente, dall’amore per la bellezza. Ha funzionato subito. Io ero un po’ più tecnico, lui più teorico, e ci completavamo a vicenda. Abbiamo sempre avuto questa triplice curiosità: techne, poiesis ed ethos. Non eravamo barbari, anzi, avevamo i piedi ben saldi a terra. Eravamo colti e amavamo la cultura. Ogni venerdì, con le nostre rispettive famiglie, andavamo ad ascoltare i concerti per le strade di Londra. Qui non c’era il maggio 1968, ma c’era un vento di libertà: capelli lunghi e gonne corte. Eravamo tutti Beatles! All’epoca, avevo 32 anni, insegnavo all’Architectural Association School of Architecture di Bedford Square. Portavo gli studenti nella piazza accanto durante l’orario di apertura e, con chiodi, martelli e pezzi di legno, facevo loro costruire a mano un rifugio. Si trattava di una sorta di «day squat»: alle 10 iniziavano, alle 16 smontavano tutto. A quel punto hanno capito che il loro lavoro sarebbe stato quello di costruire. Abbiamo messo in scena la protesta, la «ribellione», erigendo strutture temporanee come promesse di felicità per la comunità.

Nel 1971 la sua agenzia vinse il concorso per il futuro Centre Pompidou, su 681 proposte internazionali. Lei sa perché?
Vincemmo perché eravamo pazzi! Partecipai al concorso con Richard perché mi piaceva il presidente della giuria, Jean Prouvé. Nella mia vita, diverse persone sono state dei modelli: prima mio padre, poi mio fratello Ermanno, poi l’architetto americano Richard Buckminster Fuller e... Jean Prouvé. Prouvé amava la protesta. In realtà non era un architetto, ma un ingegnere e un costruttore. Costruire un grande centro culturale a Parigi non era un’idea idiota. Val la pena ricordare che, prima di questo concorso, il ministro della Cultura André Malraux aveva avuto l’idea, dopo il maggio 1968, di creare centri culturali che riunissero tutte le arti: pittura, cinema, architettura, fotografia... Noi riprendemmo questa idea, per così dire.

Come vi siete mossi?
All’epoca gestivamo un piccolo studio di quattro o cinque persone che non aveva molto lavoro da svolgere. Secondo le condizioni del concorso, dovevamo occupare l’intero lotto noto come «plateau Beaubourg», rispettando l’altezza degli edifici circostanti. Volevamo assolutamente creare una piazza davanti all’edificio, un luogo d’incontro tra le persone. Tutte le città del mondo hanno monumenti con piazze. Pensavamo al paesaggio in pendenza di piazza del Campo a Siena. Ma se dovessimo creare una piazza su metà del terreno, logicamente l’edificio dovrebbe essere due volte più alto. In termini di specifiche, si trattava di una totale disobbedienza, ma ci riuscimmo! Partecipammo al concorso non per vincere, ma per seguire le nostre convinzioni. Francamente, ci divertimmo molto a progettarlo. Fu come avere una bacchetta magica per fare tutto quello che volevamo. Immaginammo il progetto dei nostri sogni proprio perché pensavamo di non vincere!

Come reagì il Presidente della Repubblica?
Georges Pompidou ci invitò all’Eliseo. Chiesi una giacca. Richard ne aveva una, ma sotto indossava una maglietta. Lui aveva 36 anni, io 33. Eravamo solo dei ragazzini! Quando il presidente vide, dovette essere rimasto sorpreso, ma accettò la scelta della giuria. Ci chiese: «Signor Piano, signor Rogers, avete capito che questo edificio durerà 500 anni?». Rispondemmo: «Sì, signore, abbiamo capito». Fu divertente, perché a quell’età si fanno solo progetti per la nonna o la zia, cose molto effimere che non durano più di sei mesi. Mentre uscivamo sulla scalinata, ci guardammo ed esclamammo: «500 anni? Perché solo 500 anni?». Ecco quanto eravamo pazzi! Detto questo, il Centre Pompidou resterà qui per almeno 200 anni, perché se c’è una cosa che funziona bene in Francia è la cultura.

Sembra che questa follia sia stata condivisa...
Eravamo un gruppo di pazzi! Noi architetti, ma anche gli ingegneri Ove Arup e Peter Rice che erano appena tornati dall’Opera di Sydney. E poi c’erano quelli del Centre Pompidou (allora si chiamava Centre national d’art et de culture Georges-Pompidou, Ndr): Jean-Pierre Seguin per la Bpi-Bibliothèque Publique d’information, Pierre Boulez per l’Ircam-Institut de recherche et coordination acoustique/musique, Pontus Hultén per il museo e Robert Bordaz, il primo presidente del Centre, un uomo di grande coraggio. Anche il Presidente della Repubblica e soprattutto sua moglie, Claude Pompidou, molto presente, hanno avuto un grande coraggio. Tutti i pianeti si allinearono e funzionò! Alla fine progettammo un edificio aperto e accessibile a tutti, in modo che le persone potessero incontrarsi e condividere gli stessi valori, un edificio che fa parte della città: grazie alla scala mobile sulla facciata, i visitatori possono scoprirlo lentamente. Inoltre, possono godere del rapporto tra la città e l’edificio. Ad esempio, quando in questi giorni ci si trova nella mostra sul Surrealismo, le pareti di vetro si aprono improvvisamente verso nord. L’arte e la città si fondono, e questo è un bene, perché nasce la poesia. Questo edificio è l’emblema della libertà.

Il 30 agosto 2013 è stato nominato Senatore a vita della Repubblica Italiana dal presidente Giorgio Napolitano. Lei è anche un «architetto a vita»?
Dico sempre che voglio morire in cantiere. E se succede da qualche altra parte, voglio essere riportato immediatamente in un cantiere! Sì, si è architetti a vita, non c’è motivo di smettere. Lo studio è un piacere per me. Quando arrivo la mattina, ho percorso appena tre metri prima che inizi la danza. Incrocio questa persona, o quella persona viene a trovarmi, ci incontriamo, è fantastico!

Un’agenzia è anche un luogo in cui nascono le idee. Come nasce un’idea?
Fin da quando ero bambino, ho sempre saputo che c’è un momento in cui si ha un’idea. Ricorderò quella prima volta per il resto della mia vita. Ero seduto al tavolo della mia camera da letto e stavo costruendo un modellino con pezzi di legno che avevo recuperato. Mio fratello maggiore entrò e disse: «È bello, Renzino!». Rimasi senza parole. C’è una prima volta anche per le idee, come il primo bacio, o la prima volta che s’impara ad andare in bicicletta, o la prima volta che si riesce a nuotare. Ma c’è sempre bisogno di qualcuno che te lo faccia notare: un fratello, un padre, una sorella o un insegnante che ti dica: «Bravo!». In studio ficco il naso in tutto, forse un po’ troppo. Certo, alla mia età forse sono più bravo a sintetizzare. Ma il segreto, in realtà, è lo scambio. Alla fine di una conversazione, c’è sempre un’idea che rimane e, in generale, se rimane, è buona. Se è ancora viva un mese dopo, è perché regge davvero, non è un mistero.

Che idea ha del suo studio?
Ormai ho una certa età, 87 anni, ed è molto importante guardare a quello che succede. Uno studio di architettura è come un filo: quando abbiamo iniziato, quel filo vibrava con forti ondulazioni e poi, a poco a poco, ha trovato la sua sintonia. È diventato calmo e orizzontale e, soprattutto, resiste. Venticinque o trent’anni fa, lo studio non era troppo grande. Oggi ci saranno tra i 120 e i 140 dipendenti. Nessuno osa dirmi esattamente quanti sono, perché sanno che ho una teoria: non superare i cento. Per me è un numero magico, oltre il quale credo che la comunicazione non funzioni bene. Il nostro è uno studio condiviso da tutti i dipendenti e questa è una buona struttura. Ne siamo la prova vivente. Lavorare insieme è un punto di forza. Se state cercando di diventare un’archistar siete perduti! Lo studio ha una vera e propria etica. Siamo molto legati all’arte di costruire e all’arte dell’architettura. Siamo costruttori nel senso nobile del termine: coloro che costruiscono rifugi per le persone e la comunità. Per me è molto importante e persino necessario sentirmi così.

Il Renzo Piano Building Workshop (Rpbw) festeggia il suo 40mo anniversario. Sta pensando di passare le consegne?
Guardi, ho ancora una matita in tasca, ma non è la matita del «grande maestro». La creatività non è opera di una sola persona, è condivisa. Non è una questione di democrazia o di potere decisionale, è solo la verità. Ho iniziato a condividere 25 anni fa. Alla mia età, l’importante è verificare se il pensiero è ancora basato sulla poesia, sull’arte di costruire e sull’etica; osservare come avviene la coerenza, come il «filo rosso» continua, si trasforma e si trasmette. Vorrei presentarvi due giovani architetti associati all’agenzia: uno spagnolo, scusate, un catalano, Albert Giralt, e un italiano, Daniele Franceschin. A loro il compito di raccontarvi come sta avvenendo il passaggio di consegne.

Allora, per concludere questa intervista, la domanda sarà la stessa per entrambi: come vedete il futuro dell’agenzia RPBW?
Daniele Franceschin: Renzo Piano è un’enciclopedia vivente, e sarebbe un peccato non conservare questa eredità. Lo studio si fonda su valori che condividiamo tutti in modo corale e collegiale: lo stesso sguardo e una sensibilità comune. I nostri edifici sono risposte immediate alla città: non si tratta di funzionalismo e tanto meno di «stile». È più una filosofia, un metodo di lavoro. All’interno dello studio è molto difficile sapere chi ha avuto l’idea originale. Ciò che conta per noi è quello che ne facciamo. È questa la sfida. È interessante vedere come, nel corso del tempo, lo studio sia stato in grado di rinnovarsi mantenendo l’interrogativo umanistico originario, senza limitarsi a questioni formali, e come tutto questo resista e ci permetta di rimanere all’avanguardia.

Albert Giralt: Siamo più eredi di un «metodo» che di uno «stile». Naturalmente, Piano è Piano. Renzo ha costruito molti edifici. Alcuni lo vedono come una «scrittura», ma non c’è una volontà espressa. Si è affermato nonostante noi e si affermerà anche senza di lui. È semplicemente il risultato di un metodo, di un modo di guardare le cose e di metterle in discussione. Gli edifici prodotti da noi sono molto in contatto con la città e la sua gente. Mostrano una certa leggerezza, cercando di attirare la luce all’interno, di aprirsi piuttosto che chiudersi. Questo metodo continuerà a informare la nostra architettura. È un processo graduale. Il nostro sistema operativo si evolve ogni giorno, così come il ruolo di ogni individuo. I consigli e le intuizioni di Renzo Piano sono certamente preziosi, ma non c’è nulla di definitivo. Renzo, che ama le barche, usa spesso metafore marine: «Se non stai attento, puoi virare di un grado ogni mezz’ora», dice. Sta a noi continuare a mantenere la rotta con i nostri valori fondamentali, e solo lavorando insieme possiamo garantire che stiamo andando nella giusta direzione!

Una veduta esterna del Centre Pompidou a Parigi. Foto: David Noble. Cortesia di Rogers Stirk Harbour + Partners (Rshp)

Christian Simenc, 26 gennaio 2025 | © Riproduzione riservata

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