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Elisa Carollo
Leggi i suoi articoliQuando il cinema emerse alla fine del XIX secolo, fu una delle innovazioni tecnologiche ed estetiche più radicali della modernità. Uno «shock percettivo» che trasformò radicalmente la percezione visiva e cognitiva di immagine ed evento, offrendo nuove possibilità artistiche e linguistiche di documentare la realtà, ma anche reinventarla e risemantizzarla attraverso la finzione. Da anni, Rosa Barba, artista italiana con base a Berlino e curriculum istituzionale a livello internazionale, esplora il linguaggio e la storia del cinema e del video, oltre i confini della narrazione lineare o della semplice documentazione. Alla sua prima grande mostra istituzionale negli Stati Uniti con «The Ocean of One’s Pause» in corso al MoMA di New York fino al 6 luglio, Barba presenta una coreografia multimediale che sintetizza 15 anni di esplorazione dei limiti e possibilità di spazio cinematico, percettivo e linguistico. Un microcosmo che diventa un campo di autoanalisi e al contempo piattaforma per nuove forme di sperimentazione e rimessa in discussione dei limiti del medium stesso.
Questa complessa coreografia multimediale sembra racchiudere oltre quindici anni di una ricerca densamente stratificata e altamente articolata, che abbraccia film, scultura cinetica e suono, in una continua esperimentazione. Come descriverebbe la sua pratica e in che modo sente che quest’installazione ne riflette l’evoluzione nel tempo?
Il mio lavoro adotta un approccio concettuale che considera il cinema in senso architettonico e strumentale, in cui ambiente, schermo e proiezione possono essere combinati o spinti oltre per creare un’altra dimensione spazio-temporale, che coesiste con il contesto interno o esterno ma anche lo trascende. In quello spazio espanso convivono incertezza e speculazione. È una dimensione anarchica che offre un nuovo fondamento per pensare e agire, destabilizzando la vecchia gerarchia dei componenti del cinema, liberandoli dalle loro funzioni originarie e permettendo loro di interagire in modi nuovi e imprevisti. L’architettura transitoria che ne risulta favorisce un’estensione spaziale e temporale verso il passato e il futuro, verso diverse topografie esistenziali delle forme culturali. Questa mostra al MoMA porta avanti questa pratica e dà forma a una ricerca a lungo termine che si esprime su una piattaforma stratificata e mirata, incarnando lo spazio come parte integrante dell’opera stessa. Con questa mostra ho trasformato lo Studio Kravis in una sorta di laboratorio, con un portale fra la città e il museo. A limitare questo spazio è un cervello meccanico, che alimenta la narrazione e si muove in un ciclo continuo, creando uno spazio performativo che si inscrive davanti ai nostri occhi. I suoni dell’opera a volte si assorbono, a volte si accentuano in un costante stato di transizione.
Il suo lavoro si fonda su un rapporto profondo con il linguaggio e la storia del cinema e del video, volto però a spingere il medium aldilà delle definizioni convenzionali, come semplice strumento di documentazione o narrazione lineare. Al contempo, la sua indagine si espande spesso verso domande più ampie che intersecano semiotica, linguistica e storiografia, mettendo in discussione il potere dei linguaggi e delle narrazioni visive nel registrare e ricostruire la storia.
La mia pratica si muove con un continuo «cambio di marcia» tra visione, lettura e ascolto. Un luogo rischioso, che tiene i nostri sensi in allerta attraverso slittamenti e punteggiature. E una ricerca di uno spazio anti-immersivo. Uno spazio crollante e ibrido, fragile e al tempo stesso fisicamente potente. Per indicare questo tipo di slittamento, uso il termine «flicker» (sfarfallio). Il mio utilizzo non è legato al significato che questo termine ha assunto nella teoria cinematografica recente, dove il flicker si riferisce al processo in cui l’otturatore del proiettore blocca la luce verso lo schermo, e mentre ogni fotogramma avanza, l’occhio trattiene momentaneamente l’immagine precedente fino a quando l’otturatore si riapre, a causa della persistenza della visione. La frequenza dei fotogrammi percepita, detta anche flicker rate, può essere aumentata aprendo e chiudendo l’otturatore due o tre volte per fotogramma, creando uno sfarfallio meno evidente sullo schermo. Mi interessa far collassare lo spazio fisico e dimensionale con lo spazio mentale e concettuale. Ci sono elementi mutevoli nel punto di vista e nella voce di chi osserva o legge. Durante tutto il mio processo di lavoro, metto in discussione il modo in cui occupiamo lo spazio, indagando le crisi attraverso un trattamento inusuale del tempo e del linguaggio. Il tempo è quindi qui concepito come accumulazione, come archivio, piuttosto che come progressione lineare. Il linguaggio viene astratto, reso difficile da leggere o ascoltare, sfuggendo alla sua normale funzione semiotica. Questo metodo mi permette di interrogare la struttura stessa del tempo e analizzarne costantemente il volume, così come mettere in discussione l’autorità del linguaggio e l’affidabilità della sua fonte.

Una veduta della mostra «Rosa Barba: The Ocean of One’s Pause» al MoMA di New York. Photo: Jonathan Dorado © The Museum of Modern Art
Al MoMa l’installazione funziona simultaneamente come archivio personale, antologia della sua pratica e laboratorio dinamico, perfettamente allineato con la natura procedurale e orientata al processo che ne definisce il nucleo sperimentale. Al contempo, questa installazione rispecchia propriamente la nozione di «cinema espanso», sviluppata come critica al cinema tradizionale a partire dagli anni Sessanta, e che espande il medium in senso architettonico, strumentale ed esperienziale.
Sono stata attratta dallo spazio per la sua grande facciata vetrata e per l’altezza, compreso il ballatoio che offre una visuale d’insieme dal quinto piano. Il mio lavoro adotta un approccio concettuale che considera il cinema in senso architettonico e strumentale, in cui ambiente, schermo e proiezione possono essere combinati o spinti oltre per creare un’altra dimensione spazio-temporale, che coesiste con il contesto interno o esterno ma anche lo trascende. In quello spazio espanso convivono incertezza e speculazione. È una dimensione anarchica che offre un nuovo fondamento per pensare e agire, destabilizzando la vecchia gerarchia dei componenti del cinema, liberandoli dalle loro funzioni originarie e permettendo loro di interagire in modi nuovi e imprevisti. L’architettura transitoria che ne risulta favorisce un’estensione spaziale e temporale verso il passato e il futuro, verso diverse topografie esistenziali delle forme culturali. Ho esplorato l’idea di proiettare un film incentrato sulla luce su uno schermo agganciato alla finestra, come fosse una seconda membrana dell’edificio, lasciando che la luce diventi un passaggio verso la città e nuovamente nello spazio, trasformando la qualità dello spazio nel corso della giornata e con il movimento del sole. Per contro, il carattere certo e non speculativo del cinema tradizionale implica il rispetto delle funzioni convenzionali di ciascun componente in un assetto cinematografico, come il suono a supporto della narrazione visiva, le immagini visive come costruzione di una narrazione strutturata e l’architettura di uno schermo frontale in uno spazio buio con la macchina nascosta. Io invece cerco una fluidità non classificabile nelle connessioni tra questi elementi. Inoltre, ho percepito lo spazio e la sua altezza come il corpo di uno strumento musicale e ho sviluppato ulteriormente i pezzi a filo, dove il suono delle corde musicali è accordato in relazione allo spazio, producendo così un suono unico per questo luogo specifico. Nel riconfigurare in termini fisici dello spazio cinematografico, il mio intento è anche quello di espandere e destabilizzare i termini concettuali di quello spazio, affinché i parametri formali attraverso cui lo comprendiamo vengano estesi per coinvolgere e incorporare spazi che normalmente non sono associati al cinema. L’obiettivo è esplorare le implicazioni di come questi parametri coincidano con quelli di discipline e ambiti di ricerca che esistono al di fuori di ciò che comunemente intendiamo come cinema, ma che ne condividono alcuni elementi fondanti e strutturali.

Una veduta della mostra «Rosa Barba: The Ocean of One’s Pause» al MoMA di New York. Photo: Jonathan Dorado © The Museum of Modern Art
Questa presentazione al MoMA rappresenta una tappa fondamentale nel suo percorso e un momento di autoriflessione su questi anni di ricerca. Come ha affrontato questa opportunità e che cosa le ha permesso di scoprire sulla sua stessa pratica?
Per questa mostra ho selezionato opere degli ultimi 15 anni che riflettono ed espandono i temi della nuova commissione e si integrano con l’architettura. Alcuni lavori precedenti e nuove opere legate al film principale, «Charge», sono entrati nel concept della mostra, sviluppato come una sorta di orchestrazione di lavori sonori, testi e sculture cinetiche. Come avevo già fatto in precedenti mostre monografiche di grande scala, anche qui si dà forma a una coreografia. Alla Neue Nationalgalerie, per esempio, le opere erano disposte su una struttura che tracciava un percorso. I film e le sculture si accendevano e spegnevano in tempi differenti. Qui al MoMA ci sono due momenti distinti: quando viene proiettato «Charge», i pezzi a filo suonano a basso volume, accentuando il passaggio del nastro adesivo della pellicola sull’anima musicale del filo. Quando il film finisce, lo schermo diventa bianco e «The Conductor» (2012), un altoparlante inserito in una membrana di silicone, comincia a suonare, modulando la superficie della sfera. Allo stesso tempo, anche i pezzi a filo diventano più sonori nello spazio. Usare l’intersezione come strumento investigativo nel mio lavoro apre ulteriori possibilità, nel senso che si tratta di un approccio concettuale. Ad esempio, l’architettura non viene considerata una struttura fissa ma piuttosto un passaggio potenziale, in cui ambiente, schermo e proiezione possono fondersi in un’unica struttura e dare così luogo a una situazione cinematografica. In questa mostra non espongo solo opere, ma porto il mio metodo, del fare e del pensare il mio lavoro.
Anche per questo focus sull’interazione con lo spazio (fisico, atmosferico, relazionale e sociale), in quest’installazione, come in gran parte della sua pratica, la tecnologia incontra l’ecologia, svelando l’essenza fondamentalmente organica e tattile del cinema, radicata nella luce che interagisce con la pellicola. Sembra che questo punto d’incontro sia diventato ancora più marcato nei suoi lavori più recenti. Potrebbe approfondire questo aspetto?
Sto esplorando da molti anni le affinità tra astronomia e cinema. Entrambi si confrontano con i concetti di luce, tempo e distanza e, si potrebbe dire, sono composti unicamente da questi elementi. Su un altro livello, astronomia e cinema condividono, in modi diversi, aspetti fondamentali di incertezza e speculazione. Per questa nuova commissione, ho approfondito il mio rapporto con l’astrofisica e la luce, esaminando la luce solare e quella artificiale come una possibile fonte per influenzare la trasformazione ambientale del futuro e come strumenti per comprendere ulteriormente l’universo. La mostra e il film produrranno ogni giorno una qualità diversa di luce. Anche se la coreografia del movimento si ripete quotidianamente, la posizione del sole nel cielo cambia ogni giorno. Di conseguenza, anche l’angolazione dei raggi solari che circondano lo schermo, così come l’intensità e la tonalità della luce, cambiano costantemente. A mezzogiorno d’estate, la luce è bianca; d’inverno assume una sfumatura gialla. Quando il sole si abbassa, attraversa più atmosfera e i suoi raggi si rifrangono diversamente. Sono molto interessata a questo procedimento alchemico naturale dei colori, e a come esso trasformi l’esperienza dello spazio espositivo, entrando anche concettualmente in dialogo con il film stesso. Il mio desiderio è che il lavoro descriva o riempia uno spazio che non possiamo cogliere ed esprimere con il linguaggio. Sebbene una base concettuale possa essere essenziale per delineare o segnare questo spazio, tutto il resto accade nel medium stesso, o oltre ogni codificazione. È un interrogarsi costante e una continua riorganizzazione degli elementi del cinema che produce lo spazio oltre. Si tratta di un’esperienza significativa che attiva i sensi con risultati inediti. Fondamentale è un continuo «cambio di marcia» tra visione, lettura e ascolto. Un luogo rischioso, che tiene i nostri sensi in allerta attraverso slittamenti e punteggiature. E una ricerca di uno spazio anti immersivo. Uno spazio crollante e ibrido, fragile e al tempo stesso fisicamente potente.