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Laura Sudiro
Leggi i suoi articoli«Quattro anni fa nessuno si sarebbe immaginato che le manifestazioni popolari di Der’a, nel sud della Siria, potessero trasformarsi in una vera guerra che coinvolge, ogni giorno di più, gruppi che sembrano ormai incontrollabili». Luigi Marino, architetto e docente di restauro archeologico all’Università di Firenze, con la Siria ha un legame particolare. Vi si è recato spesso per lavoro, ha condotto ricerche sui castelli di epoca crociata, i villaggi basaltici dell’Hauran, le «città morte» dell’altopiano centrale, gli impianti idraulici di Hama.
Professor Marino, in Siria continua la guerra e lo scempio dei beni culturali, spesso a sfregio della memoria storica delle diverse fazioni in lotta.
La distruzione del patrimonio architettonico e il furto dei beni asportabili sono una delle caratteristiche ricorrenti nelle guerre moderne, specie quando si tratta di conflitti etnici. Le infrastrutture strategiche, le attrezzature di servizio e le aree residenziali sono colpite con una furia impensabile che va ben oltre la «necessità» di renderle inservibili. E la valenza militare di alcuni monumenti è elevata soprattutto quando appartengono al patrimonio culturale della parte avversa. Pensiamo alla ex Jugoslavia dove chiese, sinagoghe e moschee sono stati i principali obiettivi delle azioni belliche al fine di una sistematica e pianificata pulizia etnica.
Quali sono i casi di distruzione più eclatanti?
Sicuramente l’area archeologica di Apamea che, di fatto, non esiste più a causa degli scavi clandestini, il castello del Krak des Chevaliers e quelli di al-Quseyr e di Shayzar ripetutamente bombardati, ma anche le fortezze di Banjas e Marqab. I castelli, soprattutto, sono stati colpiti perché utilizzati spesso come rifugi protetti e basi militari.
Quanto ha perso la cittadella di Aleppo?
La situazione aleppina è particolarmente delicata. La cittadella costituisce ancora oggi un privilegiato sito strategico e si capisce, allora, perché sia diventata oggetto di aspra contesa tra le diverse fazioni. Nell’agosto del 2012 l’esercito vi ha insediato un gruppo armato, adattando alcuni edifici a caserme mentre i ribelli hanno preso il controllo di altri edifici esterni. Un’estenuante guerra di posizione ha portato a un lento disfacimento della città. Intorno alla cittadella, inoltre, ci sono state devastazioni estese, di cui si parla poco: il più vasto suk del Vicino Oriente non esiste più così come gran parte del tessuto urbano.
Ci sono strumenti politici e legislativi idonei alla salvaguardia del patrimonio culturale del Paese?
La situazione siriana, come quella irachena, è talmente grave da rendere impossibile avviare alcuna azione organica di tutela. La Direzione generale delle Antichità e dei Musei svolge una pregevole attività di controllo ma limitatamente alle aree in cui si riesce ancora a operare.
Si parla già di un progetto di ricostruzione?
Lo stato di emergenza giornaliero e le durissime prove cui sono sottoposte le popolazioni non lasciano presagire soluzioni future semplici. Prima o poi bisognerà pensare a una exit strategy e alla ricostruzione ma sarà assai complicato poiché i problemi non sono soltanto tecnici ma politici e, soprattutto, culturali.
L’Institute for the History of Arabic Science dell’Università di Aleppo ha avviato un corso di approfondimento sullo stato attuale e sul futuro del patrimonio architettonico della Siria (Principles of reinforcement & restoration of monumental & historical buildings), che si è chiuso l’8 aprile scorso. Una buona notizia.
Segnali positivi esistono. Ci sono volontari impegnati nella custodia dei reperti che di volta in volta si riesce a salvare; mentre, presso l’Università di Damasco, l’École de Chaillot, grazie all’impegno del professor Jasser Al-Yabi, continua a formare architetti specializzati da impiegare nel restauro. È marginale forse, ma di grande valore simbolico, la recente esposizione parigina di alcuni artisti siriani coordinata da Ines Horchani della Sorbonne.
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