Umberto Allemandi
Leggi i suoi articoliChe significato dare al novembre d’oro delle vendite sensazionali di New York, che non sia un’enfatica esaltazione estetica delle opere o lo strillo di uno speaker sportivo che urla il nuovo Guinness o una disgustata smorfia moralistica? Quali sono le motivazioni che spingono alcune persone a trasformare in opere d’arte, talune anche molto discusse, capitali così ingenti?
Se l’opera d’arte è un bene voluttuario e forse fatuo, acquisti di siffatta entità non possono invece non essere trasferiti dal settore della sola ostentazione in un’altra categoria di valutazioni e quindi equiparati e confrontati a investimenti finanziari. Per questa ragione abbiamo voluto sentire l’opinione di uno dei massimi gestori italiani di patrimoni, Guido Giubergia, presidente e Ad del Gruppo Ersel. Ma almeno due considerazioni possiamo tuttavia fare nell’ottica del sistema dell’arte. La prima è la dichiarazione dell’uomo di Christie’s, Brett Gorvy, che in una sera ha realizzato dieci record del mondo: «Qualcosa è definitivamente cambiato. E questo non è che l’inizio». Il che significa che il summitt del mercato dell’arte è ormai un tavolo riservato agli operatori finanziari di massima dimensione mondiale. Per quanto l’alta finanza abbia delle difficoltà ad assimilare la difficile parametrazione dell’arte non quantificabile come merci o azioni, d’ora in poi il loro interesse non sarà più sporadico. La seconda è che il mercato dell’arte si strutturerà, dunque, su due o tre piani. Il piano alto ora sappiamo a chi è riservato. I collezionisti «puri» dovranno ritirarsi nelle loro tradizionali riserve di caccia, sfruttando la capacità che dovrebbero avere di individuare e cogliere i nuovi talenti al loro sorgere. Va notato che uno dei tre Bacon del trittico era stato comprato da un collezionista italiano alla galleria Galatea di Torino di Mario Tazzoli a un prezzo accessibile a un normale benestante (come va notato anche, per i cultori dei Guinness, che, dividendo per tre i 142 milioni del trittico, non solo i 58 milioni pagati per uno dei cinque cagnetti di colori diversi di Koons che hanno concluso un’operazione speculativa da manuale di cinque tycoons del collezionismo, battono il Bacon ma il record spetta ai 105 milioni del Warhol). Un terzo mercato sarà quello frequentato da chi continuerà a comprare arte per ostentazione mista a speculazione a livello intermedio ed è un mercato che, con siffatti modelli («Non dirmi, TU hai un quadro dell’artista che a New York è stato pagato 142 milioni di dollari!»), in teoria dovrebbe infoltirsi grazie anche all’ondata di centinaia di migliaia di neomilionari medi ansiosi di dimostrare il loro successo scaturiti da Paesi come Cina, India, Brasile... Vendite per 1,3 miliardi di dollari in quattro sere servono a suffragare la convinzione e il mito che tutta l’arte sia un buon affare. A differenza dei subprime, questa bolla potrebbe non scoppiare perché il mercato dell’arte rimane troppo piccolo rispetto per esempio al mercato immobiliare americano e quindi entro dimensioni controllabili da chi, compratori e venditori, non solo non ha interesse a lasciarlo afflosciare ma è obbligato a farlo crescere sempre. Come andare in bicicletta: se non pedali, caschi.
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