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Foto da Pixnio. Licenza Creative Commons

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Secondo la legge «la pluralità di cessioni configura attività d’impresa»

Imprenditori, speculatori o collezionisti? Una recente sentenza della Corte di Giustizia Tributaria del Piemonte in merito a beni donati da un antiquario e alienati dai suoi eredi a titolo oneroso

Emanuele Mugnaini

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Una pluralità di alienazioni di beni d'antiquariato, effettuate a titolo oneroso e rivolte a diversi soggetti, costituisce un quadro indiziario che indica una vera e propria attività d'impresa. La provenienza ereditaria dei beni e la loro detenzione presso abitazioni private non escludono la natura imprenditoriale dell'attività. Pertanto, tali operazioni devono essere qualificate come redditi d'impresa e sono soggette a imposizione fiscale, indipendentemente dall'organizzazione formale dell'attività. Così si è espressa la Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado del Piemonte con la sentenza 291/2/2024 del 10 giugno scorso.

La Corte ha riformato la sentenza di primo grado, evidenziando come la professionalità e l'intento di lucro siano elementi chiave nella qualificazione delle attività economiche. Nel caso affrontato vi sono ulteriori elementi rivelatori dello svolgimento di un’attività d’impresa. I ricorrenti, infatti, erano entrambi soci di una società esercente l’attività di commercio di oggetti d’antiquariato e una consistente parte dei beni era stata ceduta proprio a tale società.

Gli eredi dell’antiquario defunto cedevano i beni rimasti invenduti, a suo tempo ricevuti in donazione. L'Agenzia delle Entrate contestava le operazioni, ritenendole parte di un'attività commerciale non dichiarata, procedendo al recupero delle imposte e dei contributi previdenziali, oltra a interessi e sanzioni. La Corte di Primo Grado aveva inizialmente accolto i ricorsi dei contribuenti, considerando le vendite come operazioni isolate e non come attività d'impresa. La Corte di secondo grado, sulla scia della pronuncia della Cassazione 8.3.2023 n. 6874, ha riformato la decisione, riconoscendo che le plurime cessioni configurano un'attività commerciale abituale.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito le differenze tra attività imprenditoriale, speculativa e collezionistica, particolarmente rilevanti in casi di commercio di beni d'antiquariato.

Secondo la Cassazione un'attività si qualifica come imprenditoriale se esercitata in maniera abituale e con finalità di lucro. Non è necessario un complesso organizzativo, basta la continuità e la professionalità delle operazioni. Nel caso specifico, le ripetute cessioni di beni a titolo oneroso, indicano una gestione professionale volta al profitto, tipica dell'attività imprenditoriale. Questo comporta l'applicazione delle imposte sui redditi d'impresa, dell'Iva e dei contributi dovuti all’Inps.

La Cassazione distingue lo speculatore dall'imprenditore per la mancanza di abitualità e continuità nelle operazioni. L'attività speculativa può generare redditi diversi, segnatamente plusvalenze tassabili con l’aliquota del 26%, ma non comporta l'applicazione dell'Iva per mancanza del requisito dell'abitualità.

Ancora diversa l’attività collezionistica che si riferisce all'acquisto di beni per scopi culturali e personali, senza l'intento di rivenderli per profitto. Il collezionista acquista opere per il piacere personale e l'arricchimento culturale, non per speculare sul loro valore. Pertanto, le vendite occasionali di beni della propria collezione non sono considerate attività commerciali e non sono soggette a tassazione come redditi d'impresa.

Emanuele Mugnaini, 13 agosto 2024 | © Riproduzione riservata

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