Il Centro Botín di Santander è forse il progetto più ambizioso della Fondazione Botín, che promuove lo sviluppo economico e sociale della Cantabria e di molte altre comunità in Spagna e in America Latina incentivando la creatività e sostenendo programmi culturali, artistici, formativi, scientifici, rurali, di solidarietà, di utilizzo consapevole delle risorse idriche, di inversione del fenomeno dello spopolamento delle montagne e molto altro. È nato nel 2017 come centro internazionale per le arti e ha sede in un edificio disegnato da Renzo Piano come un luogo di sperimentazione e di aggregazione: poggia su colonne in modo da offrire riparo dalla pioggia e creare uno spazio per spettacoli all’aperto ed è diviso in due corpi per accogliere in sé l’asse viario che conduce alla piazza principale. Sorge sul bordo della baia e si protende sull’acqua, elemento che unisce i popoli e favorisce gli scambi. Non ci poteva quindi essere sede più appropriata per una mostra dell’artista che da sempre riflette sulle frontiere e sulla libertà di movimento e di espressione, Shilpa Gupta (Bombay 1976), le cui opere sono allestite fino all’8 settembre davanti a grandi vetrate sull’oceano.
«I poeti, come gli scrittori e gli artisti, sono sognatori che parlano degli incubi del mondo. Questa mostra è dedicata alla persistenza delle convinzioni in cui crediamo, dei sogni che fanno di noi quello che siamo come individui»: con queste parole l’artista ha commentato «I Live Under Your Sky Too», progetto in cui voce e poesia invadono le sale espositive del Centro Botín reclamando l’esistenza di coloro, persone e comunità, che per ciò che hanno fatto o detto sono stati censurati, messi a tacere, isolati, emarginati o addirittura fatti sparire, cancellati.
Si tratta della prima retrospettiva spagnola dell’artista indiana, nota in Italia per la presenza alla Biennale di Venezia e per varie mostre, tra cui quella recente (2023) al MaXXI L’Aquila.
I lavori esposti a Santander contengono gli elementi ricorrenti nella sua opera: il disegno, il materiale, il suono, il canto, le parole e la poesia popolano gli spazi dando voce e visibilità a persone e comunità di tutto il mondo e di ogni epoca. Un’opera in particolare assurge a manifesto del progetto: è l’installazione luminosa che dà il titolo alla mostra, «I Live Under Your Sky Too», una dichiarazione del fatto che c’è spazio per tutti nonostante le nostre differenze: attraverso led che alternativamente si accendono, la frase «anche io vivo sotto il tuo cielo» è scritta in tre lingue, urdu, spagnolo e inglese, che si intrecciano e si mescolano.
Le parole, in questo caso non scritte bensì cantate, sono le protagoniste anche del lavoro realizzato espressamente per questa mostra, «Listening Air», un’installazione sonora, o meglio uno spazio dalla potente forza evocativa: nel buio orbitano, muovendosi su rotaie e controbilanciati da lampadine dalla luce tenue, una serie di microfoni che emettono come altoparlanti canzoni popolari di varie parti del mondo. Prodotta dalla Fondazione Botín con la galleria berlinese neugerriemschneider è uno spazio per un ascolto condiviso in cui ci si può sedere su sgabelli ad ascoltare quello che trasmettono i microfoni coreografati: canti di comunità oppresse, parole che hanno risuonato in paesaggi distanti e differenti tra loro, quali risaie, foreste, strade e Università di diverse parti del mondo. L’opera include otto brani tra i quali «Hum Dekhenge», scritto nel 1979 dal poeta pakistano Faiz Ahmad Faiz, che ha oltrepassato le frontiere e i decenni per risuonare recentemente nelle Università indiane durante le proteste studentesche, simbolo di speranza durante i disordini politici. Anche «Bella ciao» ha varcato i confini geografici e temporali delle valli del Po, dove veniva cantata nelle risaie dalle mondine negli anni Quaranta, ed è stata adottata dagli agricoltori in rivolta a Nuova Delhi nel 2020. E ancora «We Shall Overcome», canzone popolare dei lavoratori delle piantagioni di tabacco nel South Carolina urlata dai manifestanti in piazza Tienanmen, e «We Shall Not Be Moved», nato come spiritual tra gli schiavi africani nel Sud degli Stati Uniti e divenuto un grido di libertà che ha attraversato decenni e migliaia di chilometri per essere adottato dal movimento studentesco del ’68 in Spagna e dal colpo di Stato in Cile nel 1973.
La poesia e le parole sono i «materiali» di cui sono fatte la maggior parte delle opere esposte. L’insistenza dell’artista nel far risuonare la voce di comunità diverse in una grande varietà di lingue (in mostra anche dei contenitori in vetro che racchiudono parole sussurrate) è una diretta conseguenza della sua vita quotidiana tra idiomi, religioni, culture e credenze diverse a Bombay, città multiculturale e multilingue per eccellenza. Il contesto politico, le continue tensioni sociali e territoriali, hanno influenzato il suo interesse per il tema dei confini, ricorrente nel suo lavoro. Quali tipi di confini condizionano la nostra vita, i nostri movimenti, il nostro comportamento, il nostro senso di appartenenza? L’artista ci ricorda che a limitare la libertà non sono soltanto le frontiere nazionali, i confini fra Stati ma anche quelli ideologici e quelli emotivi. Anche in questo caso le parole scritte dai poeti e cantate dalla gente, quelle stesse parole in grado di riempire di presenza le assenze, sono anche in grado di oltrepassare le frontiere, ma questa sezione della mostra presenta soprattutto opere realizzate con tessuto, legno, cera e oggetti confiscati di vario genere. In queste «sculture» ricorrono bandiere, mappe, corpi umani deformati, forme che evocano le limitazioni di movimento e di libertà dovute all’imposizione di barriere fisiche e psicologiche, la violenza dell’isolamento, il senso di costrizione e di non apparteneza a una determinata struttura di potere. «Le forme sono semplici, a volte astratte, ma nell’avvicinarsi e studiare il materiale con il quale sono realizzate o i testi che le accompagnano, scritti dall’artista o reperiti nelle sue ricerche, è come se ti spiazzassero o te le facessero guardare in altro modo toccando corde profonde», spiega la curatrice Bárbara Rodríguez Muñoz, responsabile delle mostre del Centro Botín. Il desiderio di movimento frustrato dalla detenzione e dal confino, altro tema cui tiene in modo particolare Shilpa Gupta è ben simboleggiato da «Untitled» della serie 6,10.3,2 del 2021, opera in cui un coltello motorizzato trema e oscilla di continuo ma è fissato su una base che di fatto lo blocca.
Il tessuto connettivo dell’esposizione, quello che lega installazioni luminose, installazioni sonore e sculture, è una serie di disegni «Untitled» il cui focus è su figure che non vediamo nel dettaglio perché è tracciato soltanto il loro contorno. Quest’assenza fa sì che in qualche modo la loro presenza diventi più commovente, più toccante. Si tratta di poeti che sono stati incarcerati in Italia, Russia, Turchia, Cina, Azerbaigian, Nigeria, India, Pakistan, Birmania e Corea del Sud. Negli ultimi dieci anni Shilpa Gupta ha infatti condotto un’impegnativa ricerca attraverso i secoli e le culture sul rapporto tra poesia e repressione e l’ha trasposta in disegni che delineano il contorno delle figure dei poeti reclusi. I disegni sono accompagnati dalle loro poesie, testi che parlano di persistenza dell’amore a dispetto dell’isolamento e del confinamento fisico, di bisogno di rimanere in contatto con la vita esterna.
Abbiamo rivolto all’artista qualche domanda.
Qual è il ruolo dell’artista in questo momento storico contingente segnato dalle guerre?
Non esiste un unico ruolo dell’artista, gli artisti sono liberi di scegliere che cosa vogliono fare. Esistono innumerevoli modi di fare arte, innumerevoli modi di essere artista. L’importante è semplicemente che l’artista possa sentirsi libero di fare ciò che vuole, qualsiasi sia il mezzo e il modo con il quale voglia esprimersi. La poesia, la musica, la pittura, anche la cucina sono tutte pratiche artistiche. Il mio lavoro deriva dalla mia situazione e penso che tutti noi siamo «formati» dalla vita. Io sono cresciuta a Bombay, in una Bombay che cambiava, in una Bombay che è diventata Mumbai, perfino il suo nome è cambiato. Sono cresciuta in una famiglia che mi ha dato la possibilità di crescere come donna in un Paese che si stava trasformando. Volevo essere al di fuori delle definizioni, sentirmi libera di essere quello che volevo essere. Molte delle mie opere derivano da questo, ma sono arrivata al punto in cui sono anche attraverso molto studio, molta ricerca.
Pensa che le sue opere debbano risvegliare la coscienza nei visitatori e indurli a combattere per gli ideali che le improntano?
No, il mio intento era quello di creare uno spazio di ascolto di altre voci, di altre opinioni. Trasmettere canzoni di protesta che uniscono le varie comunità che sono state oppresse e sopraffatte in passato e che continuano a essere cantate nel presente è un canto alla vita.
In un mondo dominato dalle immagini, lei ha scelto di privilegiare le parole. Perché?
Perché le parole sono molto presenti, perché attraverso i libri di storia, i giornali, i media, le parole giocano un ruolo fondamentale nel definire chi siamo e molto spesso vengono manipolate, la storia viene riscritta. Il mio interesse si è evoluto dalle parole al canto, è stato un processo lento attraverso il quale, anche cantando io stessa seppure non sia una brava cantante, ho capito che le parole tramite il suono ti entrano dentro davvero, dissolvono confini sia spaziali che temporali. Attraverso il canto le parole perdono la loro dimensione astratta e diventano vive, cambiano, crescono, vengono adottate dalle persone per esprimere ciò che sentono in un determinato momento o in una determinata situazione. La musica fa sì che le parole dei poeti arrivino alla gente; le persone cantando capiscono la poesia e la fanno propria, nei momenti di sofferenza evadono con la fantasia e si sentono libere. La mia ricerca è rivolta a studiare come la gente fa proprie le parole dei poeti e come ciò rende viva la poesia.
Nelle sue opere c’è molta ricerca. Quanto c’è di lei come persona?
Moltissimo di me come donna, dell’importanza che hanno per me la mobilità e la libertà, della mia crescita come individuo. Rifletto spesso su chi sono e su chi si suppone che io sia. Costantemente ti ricordano chi sei e chi dovresti essere o si aspettano che tu sia. La mostra ha due aspetti che si intersecano: una parte è relazionata al corpo e l’altra all’anima. A me interessano anche molto il potere che abbiamo su noi stessi e la capacità che le persone hanno di sognare anche nelle situazioni più complicate; si potrebbe dire che sono una sognatrice.
Lei ha esposto varie volte in Italia. Quale sentimento la lega al nostro Paese?
In Italia sono rappresentata dalla Galleria Continua che è molto calorosa con me ed è molto coraggiosa nel sostenere lavori sperimentali, ma penso che in tutta Europa ci sia un forte interesse da parte di scrittori e intellettuali per l’India, i suoi artisti e i suoi pensatori. A mia volta nelle mie ricerche ho scandagliato testi di tutto il mondo da Baghdad a Hong Kong, dall’Italia alla Russia, dalla Turchia alla Cina, dall’Azerbaigian alla Nigeria, dal Pakistan alla Birmania, dalla Corea del Sud all’America, e naturalmente dall’India alla Spagna.
La mostra è accompagnata da una pubblicazione coedita con La Fábrica che raccoglie testi, oltre che della curatice, dello storico dell’arte Rattanamol Johal, dell’artista e poeta María Salgado e dell’accademico Pratap Bhanu Mehta che ben sintetizza l’arte di Shilpa con queste parole che risuonano come un invito: «È un esercizio su come si può volgere la propria forza di immaginazione per superare i confini, combattere la censura e aprire sé stessi agli altri. La trasmissione del messaggio “basta un po’ di immaginazione per renderci liberi” realizza la più alta vocazione che l’arte possa avere».