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Paolo Baratta
Leggi i suoi articoliIn occasione del primo G7 dei Ministri per la Cultura, Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia, è stato scelto dal ministro Franceschini per rappresentare l’Italia al tavolo degli intellettuali dei 7 Paesi per il forum sul tema «Cultura come strumento di dialogo fra i popoli», che si è tenuto il 31 marzo a Firenze. Ecco un estratto del suo discorso.
Alla cultura abbiamo attribuito tanti significati, forse troppi: a un estremo può essere utilizzata per indicare ricchezze e tradizioni identitarie, battute dal vento dell’avanzata delle tecnologie, dell’economia e delle città, vento che soffia forte in epoca di globalizzazione e, da un altro estremo, può essere utilizzata per indicare fenomeni appartenenti alla «vita activa» di uomini e istituzioni nel tempo presente, nel contemporaneo (...). Le mostre e le rassegne della Biennale di Venezia sono internazionali e aperte. (...) Nel caso di Arte e di Architettura la nostra mostra aperta è affiancata da presenze organizzate autonomamente dai Paesi partecipanti. (...) I Paesi partecipano per loro scelta. (...) La scelta di esserci è da ricondurre al desiderio del mondo dell’arte o dell’architettura di quei paesi di essere parte attiva del dialogo. (...) Non siamo sede di legittimazione di questa o quella tendenza artistica. Si rinnova così ogni anno un fatto importante: il riconoscimento dell’esistenza e della dignità della vita culturale di chi partecipa con noi, indipendentemente dalla caratura economica e politica del partecipante.
Il riconoscimento è la premessa del dialogo, ma il lavorare insieme è già evoluzione del dialogo in impegno condiviso. (...) Non siamo un mercato dell’arte, né una fiera d’architetti, né un luogo per soli esperti; abbiamo il pubblico come primo riferimento e quindi l’attivazione del dialogo e dell’incontro tra il pubblico, l’arte e l’architettura come scopo (che si estende a musica, teatro e danza). Di fatto stiamo partecipando a un’azione comune: che non è solo diffusione della conoscenza ma un’azione che si svolge lungo una linea di battaglia che passa attraverso tutti i nostri Paesi: la battaglia contro l’indifferenza e il conformismo, nei cui confronti la cultura deve costantemente rinnovare la propria azione conflittuale. Gettiamo ponti tra Paesi, ma per gettare insieme ponti tra i cittadini, le arti e l’architettura. (...) Siamo percepiti come macchine per favorire l’accesso, ma dobbiamo operare come «macchine del desiderio»: dobbiamo sostenere il desiderio di arte, ovvero il desiderio di espandere il nostro occhio e di dilatare la nostra mente verso i mondi che gli artisti ci offrono e che sono parte della nostra realtà espansa. (...)
In queste azioni sta anche il raccordo tra heritage e contemporaneità. La nostra cura dell’heritage rischierebbe di essere fenomeno parziale se non mostrassimo di essere desiderosi di vedere anche oggi la nostra esistenza accompagnata e stimolata dall’operare degli artisti del nostro tempo, come generosi compagni di viaggio, se cioè non sapessimo riconoscere il ruolo dell’arte nella nostra vita contemporanea, così come accadde ai tempi in cui l’heritage fu creato, se non sapessimo porre domande all’architettura come seppero fare quelli che ci precedettero. Il dialogo ha come premessa il riconoscimento dell’altro e della sua dignità, ma poi per svolgersi ha bisogno di un clima di fiducia. (...) Oggi è diffusa (e forse lo è sempre stata) la strumentalizzazione della «cultura» e della difesa culturale allo scopo di accentuare conflitti, che traggono origine da situazioni di emarginazione o da cause di natura politica o economica, oppure comunque per creare climi politici tesi e propensi a drammatizzazioni e quindi, infine, per ottenere un «abbassamento» della qualità della cultura politica ed economica.
Dobbiamo essere consapevoli che le azioni in campo «culturale» possono restare al livello delle azioni simboliche, se non accompagnate da azioni politiche volte alla conferma dei diritti civili e politici e da coraggiose azioni economiche, volte a favorire una redistribuzione delle possibilità di sviluppo, a eliminare cioè alla base la ragione della emarginazione, indispensabile momento questo per una vera azione di riconoscimento (...).
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